Mi ergo sulle alte cime dei monti, per riportare in vita il villaggio.
Non so bene quando, ma il villaggio si è lentamente svuotato, e sono rimasti solo i vecchi e i bambini.
I giovani sono andati tutti in città a cercare lavoro, alcuni si sono persino portati i figli con sé. E la scuola nel villaggio non è più affollata come un tempo. Alcune scuole sono state addirittura costrette a unirsi in una sola, perché nei villaggi erano rimaste poche decine di studenti a frequentarle.
La generazione contadina dei miei genitori, quella che considerava la terra al pari della propria vita, è lentamente venuta a mancare. I terreni sono pian piano finiti in mano a pochi proprietari, uno dopo l’altro i nuovi ricchi di città li hanno affittati e sono diventati agricoltori. E quei contadini che, pur non conoscendo le tradizionali tecniche agricole né avendole ereditate, non volevano andar via, sono retrocessi a semplici “operai industriali” al comando dell’”agricoltura moderna”.
Chi viveva in città è diventato contadino, e chi faceva il contadino è diventato operaio.
Ironico.
Il villaggio c’è ancora, ma il suo spirito si è spento a poco a poco.
Molti sono finiti lontano da casa, magari sono diventati imprenditori, impiegati, o addirittura così lontano da diventare veri e propri forestieri. Oppure sono diventati intellettuali, che quando gli si menziona il loro villaggio, con un’inesauribile l’immaginazione, non mancano di esprimere la loro infinita nostalgia di casa, il loro inestinguibile attaccamento, oltre chiaramente ai loro indelebili sentimenti per il borgo. Quanti però sarebbero disposti ad ammettere che il villaggio è arretrato, ignorante e povero, e preferiscono, invece, dire che la nostalgia lo arricchisce, elevare a valore morale la povertà, e romanticizzare l’arretratezza? E pensano magari che parlare male del villaggio sia un insulto alla propria dignità? Chi ragiona in questo senso è chiaramente confuso e poco lucido, e palesa sempre più la sconfitta del villaggio.
Tornare al proprio paese natio, a casa, vuol dire annegare nella sua povertà e ignoranza, significa seguire la massa; o ci si sente impotenti, o si fa finta di niente.
Ogni anno, per la Festa di Primavera, orde di persone si mobilitano verso il proprio villaggio: perché tutti hanno fretta di tornare a casa per l’ultimo dell’anno? È come se i ricordi d’infanzia riaffiorassero proprio in quest’occasione, in tutte le case si cucinano i baozi al vapore, i jiaozi, si ammazza il maiale e si prepara lo stufato per festeggiare allegramente l’anno nuovo.
Al giorno d’oggi, l’atmosfera dell’anno nuovo è sempre più anonima; e a parte le visite ai parenti, tornare a casa significa soltanto giocare a mahjong e a carte.
Nei piccoli villaggi c’è a malapena una decina di negozi, ma non servono a fare compere: sono invece pieni di tavolini quadrati, di quelli da mahjong, che li ingombrano quasi totalmente.
Alle nove di mattina, come per tacito accordo, uomini e donne si incontrano nei soliti posti di ritrovo: restano lì dalla mattina al tramonto, senza sosta, con gli stomaci che brontolano, e si sfamano con noodles istantanei, biscotti e qualche salsiccia di bassa qualità.
Il gioco d’azzardo la fa da padrone. La maggior parte delle persone non si vede da più di un anno, e approfitta dell’occasione per constatare chi è più forte al gioco: capita che i sudati risparmi di un anno intero vadano in fumo in una notte sola, e il perdente fa comunque buon viso a cattivo gioco. Tornati a casa, mariti e mogli litigano, arrivando anche alle mani; i genitori sospirano disperati. È un fenomeno estremamente diffuso.
Passato il capodanno, chi lavora fuori torna al nord o al sud, col cuore pieno, a spaccarsi la schiena per guadagnare, aspettando l’anno successivo per rifare esattamente la stessa cosa.
Il villaggio c’è ancora, ma la linfa vitale dei vecchi riti, delle tradizioni, delle regole e dei precetti del clan si è prosciugata.
Per i giovani d’oggi spendere 2000 yuan per un condizionatore è una spesa insostenibile, ma non ci pensano due volte a sperperare lo stipendio di sei mesi per un telefono, spendendo magari svariate migliaia di yuan. WeChat è diventato la passione dell’intera popolazione, tutti sono diventati dipendenti dal cellulare, spesso tutti i membri della famiglia stanno contemporaneamente su Wechat, e nessuno lascia il telefono neanche durante i pasti; i ritmi di notte e giorno sono invertiti, si dorme solo quando si è stanchi di stare al telefono, e al risveglio si riprende il cellulare. Si persevera in questa routine fin quando la propria vita non diventa un circolo vizioso fatto solo di noia. E il quadro che ho dipinto finora solleva una domanda: non è forse un po’ come vivere attaccati ad una pipa da oppio, come negli ultimi anni della dinastia Qing? Non c’è da sorprendersi che ci chiamino “il malato d’Asia”.
In questi anni, praticamente nessuna persona di origini rurali è entrata in università prestigiose, e pochissimi sono a malapena riusciti ad entrare in università mediocri; sono, invece, sempre di più coloro che non completano gli studi. C’è anche da dire che chi ha le possibilità va in città a frequentare scuole prestigiose, mentre quelle che frequentiamo noi sono in condizioni precarie e prive di buoni docenti: è assolutamente comprensibile avere cattivi risultati agli esami. Pensiamoci: non è un peccato? Ovunque ci sono campus e villaggi vuoti.
Il villaggio c’è ancora, ma la speranza non più. Che pena per la generazione dei nostri figli.
Persino i conoscenti faticano a salutarsi, e gli altri abitanti del villaggio sono diventati completi estranei.
L’inquietudine pervade moltissimi villaggi che stanno aspettando di essere buttati giù e sfollati. Alcune demolizioni sono state ritardate di qualche anno: i giovani stanno aspettando di diventare ricchi, e i vecchi sospirano per la disperazione. Alcuni soffrono perché non vogliono lasciare la loro terra, altri perché non sanno come faranno i giovani d’ora in poi.
Le demolizioni possono rendere ricchi nel giro di una notte. Quei pochi che capiscono qualcosa dell’argomento diventano per i vecchi un modello da imitare. Chi è audace, non si fa scrupoli, non pensa alle conseguenze e osa sfidare i limiti della legge ascende a modello per l’educazione dei figli.
I soldi significano successo. Se hai il portafoglio pieno, automaticamente sei un uomo di valore.
Le persone di effettivo valore e prestigio sono diventate spregevoli, e lo spirito critico delle persone, offuscato dagli interessi personali, non distingue più il giusto dallo sbagliato: i soldi sono potere. Di conseguenza, il sistema della famiglia e dei clan va incontro alla totale rovina.
Le demolizioni non sono altro che una lotta.
Se questa lotta è fatta bene, il nuovo villaggio costituisce una nuova frontiera; se è portata avanti alla cieca, sono le persone comuni a soffrire. Molti villaggi sono stati sgomberati quando gli edifici in cui trasferirsi non erano ancora terminati, lasciando le persone ad aspettare, sperando; molti dei progetti originali per i terreni sono stati abbandonati, rendendo gli abitanti dei villaggi dei contadini senza terra. Guardano i terreni incolti, ma non possono coltivarli.
Chi vive in città non ha un lavoro stabile; chi è un agricoltore, non ha terreni da coltivare.
E anche nei villaggi che non vengono abbattuti molti terreni vengono lasciati incolti. Coltivare cereali è faticoso e non rende ricchi, e serve anche seminare, concimare, arare e raccogliere; a conti fatti, faticare a vuoto non ti dà il pane, e a quel punto meglio non farlo. Si può sempre attingere alle riserve del villaggio, e allora a che serve coltivare questi prodotti che non ne valgono la pena?
Al contrario, ci sono giovani che guadagnano lavorando anche solo part time, e non si preoccupano di cibo né di vestiti.
I metodi di coltivazione poi sono totalmente diversi: prima si trattava di arare e rimuovere le erbacce, oggi ci si affida ai diserbanti e ai prodotti chimici. Tra qualche anno i terreni saranno aridi, o magari avvelenati; i raccolti diminuiranno al punto da causare malattie, e allora sì che guarderemo ai terreni con rimpianto.
I vecchi ne soffrono ma non hanno le forze per agire, i giovani invece non ne hanno l’intenzione. Il declino dei villaggi sarà una tendenza inevitabile.
E stanno scomparendo pian piano quei pochi che dei villaggi comprendono le tradizioni, l’agricoltura e lo spirito.
Abbiamo dimenticato le regole del villaggio, perso quel senso di nostalgia di cui tanto andiamo fieri, abbandonato gli antichi templi e gli altari agli antenati. La nuova generazione insulta la vecchia, i fratelli si pugnalano alle spalle, le parenti acquisite diventano sconosciute, i figli menano i genitori. Non sono le persone ad essere cambiate; sono il rispetto e la capacità di affrontare le situazioni ad essere andati perduti.
Da un lato ci sono la civiltà moderna e la ricchezza, dall’altro si affievolisce e si perde il calore umano. L’urbanizzazione dei villaggi procede troppo spedita, e la civiltà viene lasciata indietro. Lo sviluppo dei villaggi è troppo rapido, il pensiero degli abitanti si irrigidisce e non regge il passo: è così che si spezzano le radici.
Chi si è approfittato della longeva ricchezza degli agricoltori, e ha lasciato prevalere l’opportunismo? Chi ha distrutto l’equilibrio ecologico dell’agricoltura, e l’ha lasciata cadere nel circolo vizioso dell’utilitarismo? Chi ha fatto sì che il cibo e la sicurezza alimentare diventassero causa di preoccupazione per tutti?
Un popolo che perde il rispetto si attira la vendetta della natura. Si possono perdonare i disastri causati dal Cielo, ma non si può vivere con i propri: chi è causa del suo mal pianga se stesso, non può incolpare gli altri.
L’agricoltura è a un punto di crisi imminente, e non è più considerata cosa nobile. Mangiamo ogni giorno i prodotti della terra, ma lasciamo che l’agricoltura versi in condizioni intollerabili.
L’attuale approccio alla cultura tradizionale cinese delude profondamente perché, come un gioco di luci, è affascinante all’apparenza, ma è carente nella sostanza. Ad esempio, non so quando abbiano iniziato, ma i cinesi non ritengono l’agricoltura più parte della cultura tradizionale. E non so da quando, ma la cultura tradizionale cinese sembra essere stata ridotta solo ai vestiti tradizionali, ai completi tipici e ai Quattro Libri e Cinque Classici.
È ovvio che per il popolo cinese, che ha creato la più florida civiltà agricola nella storia dell’uomo, ciò costituisca un enorme dispiacere.
Addio, villaggio. Il villaggio c’è ancora, ma il suo spirito è morto. Voglio ergermi sulle alte cime dei monti, e riportarti in vita!
Traduzione di Luca Regano.
Immagine: Chinese countryside, rural view, Erik van der Horst, creative commons.