L’eresia della coerenza: Liu Xiaobo e la Cina del benessere economico

Quando un’eresia del passato diventa la norma di comportamento del futuro, l’avvento della nuova società non è troppo lontano1)Liu Xiaobo 刘晓波, “Gaige shidai de xin qimeng: yi Xidan Minzhu Qiang wei li,” 改革时代的新启蒙以西单民主墙为例,Zhengming争鸣, 07/2008. Per la traduzione italiana vedi “Il neoilluminismo dell’era della riforma: l’esempio del Muro della democrazia”, inMonologhi del giorno del giudizio (Milano: Mondadori, 2011), trad. it. di Valeria Varriano, 28.

Nella sua prefazione a Politica cinese e intellettuali cinesi contemporanei del 1988 Liu Xiaobo scriveva:

Questo libro probabilmente non ha alcun valore per chi si interroga sul destino del genere umano, sul futuro del mondo e sull’autorealizzazione dell’individuo. Si occupa di una questione troppo circoscritta e di corto respiro, si concentra sulla Cina vista con gli occhi di un cinese, non esamina il futuro corso del mondo dalla prospettiva di un essere umano (…) In base a questi argomenti, anche se lodo in tutti i modi la cultura occidentale e critico aspramente la cultura cinese, rimango una «rana in fondo al pozzo», che vede solo una piccola porzione del cielo.2)Liu Xiaobo 刘晓波, Houji”後記(Postfazione), Zhongguo zhengzhi yu Zhongguo dangdai zhishifenzi中國政治與中國當代知識份子(Politica cinese e intellettuali cinesi contemporanei) (Taibei: Tangshan chubanshe, 1990). Vedi anche “Postfazione aPolitica cinese e intellettuali cinesi contemporanei”, in Monologhi del giorno del giudizio, 105, trad. it. di Valeria Varriano.

Qualche pagina più avanti chiariva ulteriormente:

Né i classici orientali né l’attuale cultura occidentale sono in grado di salvare l’umanità da una situazione disperata. Tutt’al più, la superiorità della cultura occidentale può condurre un Oriente arretrato verso uno stile di vita occidentalizzato.3)Ibid.,  111.

Nel leggere la traduzione del saggio La filosofia del Maiale qui proposta, è importante che il lettore tenga presente questa posizione. Liu Xiaobo è stato un intellettuale provocatore, convinto che il suo ruolo fosse quello di denunciare la menzogna del sistema al fine di trasformare il carattere nazionale cinese e liberarlo dalle catene di una tradizione reazionaria. Questa posizione è già chiara negli scritti precedenti al 1988, ma in questi primi testi l’autore sembra mosso da considerazioni estetiche più che politiche. Durante uno dei suoi soggiorni all’estero nel 1988, appunto, si consolida in Liu l’opinione che nessuna rivoluzione artistica possa prescindere da una profonda trasformazione culturale e politica. In seguito, all’uscita dal campo di “rieducazione” dove era stato mandato dal 1996 al 1999 per avere “disturbato l’ordine sociale”, l’autore individua per sé una missione storica: “sovvertire la menzogna con la verità” per rendere onore a quanti hanno sacrificato la vita a Piazza Tian’an men nel 1989. Non è presente nei suoi scritti una vocazione “universale”, una volontà di esprimere dei discorsi validi per realtà diverse dalla Cina.
Se i moti di piazza dell’89 riportarono Liu Xiaobo in patria facendogli abbandonare gli Stati Uniti e una carriera promettente, la conclusione violenta delle proteste di piazza lo richiuse all’interno di un perimetro angusto che gli avrebbe consentito di parlare solo di Cina e di utilizzare i riferimenti alla “non Cina” in quanto funzionali alla sua volontà di demistificare la politica cinese. In altre parole Liu Xiaobo porta al massimo livello quella “ossessione per la Cina” di cui parlò C. T. Hsia nel suo articolo in appendice alla seconda edizione della sua A History of Modern Chinese Fiction del 1971, dove, esaminato lo sviluppo della narrativa cinese alla fine degli anni Sessanta, concluse che tutti gli autori cinesi, ossessionati dal malessere nella propria nazione, non avevano l’energia o la mente per rivolgere la loro attenzione fuori della Cina. Liu Xiaobo aggiunge un nuovo sintomo a questa malattia: guarda fuori della Cina esclusivamente per trovare argomenti a supporto della sua critica rispetto all’incapacità dei cinesi di emanciparsi da una tradizione razionalista e moraleggiante che sopprime l’individuo per il bene della collettività.
D’altro canto Liu si era imposto all’attenzione del mondo intellettuale cinese proprio per questa vena iconoclasta. A consacrare la sua fama era stato, infatti, l’intervento al convegno Dieci anni di letteratura del nuovo periodo organizzato dall’Istituto di Ricerche Letterarie dell’Accademia delle Scienze Sociali, successivamente pubblicato sul Quotidiano della Gioventù di Shenzhen con il titolo “Crisi! La letteratura della Nuova Era è entrata in crisi”.4)Liu Xiaobo 刘晓波, “Weiji! Xin Shiqi wenxue mianlin weiji!” 危机!新时期文学面临危机(Crisi! La letteratura della Nuova Era è entrata in crisi), Shenzhen Qingnianbao 深圳青年报, 3/10/1986. In questo intervento, per sua stessa ammissione dal tono “spontaneo e non sistematico”, Liu Xiaobo si scagliava contro la cosiddetta nuova letteratura, contro le opere che in quegli anni facevano parlare di rinascita della cultura cinese. A suo avviso, invece, si trattava di manifestazioni di una coscienza rivolta al passato, di una regressione concettuale caratterizzata dal rinnovato interesse per la cultura tradizionale. Questo “pericoloso e reazionario ritorno al tradizionalismo” andava combattuto con tutte le forze per spingere gli intellettuali a tornare nel solco tracciato dagli scrittori cinesi all’inizio del XX secolo:

Bisogna procedere a un’introspezione distaccata, fredda, sulle tendenze della nuova letteratura. Non è in discussione solo lo sviluppo delle belle lettere nella Cina di oggi, ma è necessario anche capire se gli intellettuali sono oggi capaci di continuare la tradizione del Quattro Maggio facendosi carico del pesante fardello storico di illuminare il pensiero e trasformare le tare nazionali sì da fare tabula rasa delle millenarie tradizioni feudali. (….) A  mio avviso il fatto che questi dieci anni siano stati elevati al rango di «scintillanti», a un nuovo picco della letteratura cinese in continuità con il Quattro Maggio, è legato a un modo di pensare tipico della tradizione cinese: guardare la storia da quell’unica prospettiva che definisce lo sviluppo paragonando il presente al passato evitando i paragoni sincronici con il mondo.5)Ibid.

Già nel 1987 Liu Xiaobo afferma con chiarezza che la Cina ha bisogno, per produrre una vera letteratura, così come per diventare un paese moderno, di rimuovere le cause culturali dell’arretratezza ideologica, motivo tanto della debolezza del tardo impero Qing quanto degli orrori della Rivoluzione Culturale. Nella sua visione, se gli intellettuali cinesi non sono stati in grado di produrre opere innovative è perché mancano di una coscienza individuale dettata dall’esperienza diretta della vita. La razionalizzazione, il dogmatismo e il filtro delle virtù morali tradizionali non permettono ai cinesi di crearsi una coscienza moderna e individuale. Per superare questo limite è necessario essere degli antitradizionalisti radicali e opporsi a qualsiasi limitazione della libertà.
Quella di Liu Xiabo è una posizione, estetica prima che etica, che va compresa nel contesto in cui si è sviluppata e di cui è figlia. Negli anni Ottanta il mondo intellettuale vibra di voglia di cambiare e mettersi in gioco. Dentro e fuori delle accademie si discute di massimi sistemi, dei limiti della tradizione o dei suoi pregi, dell’importanza della democrazia così come della sua inutilità, del valore del Confucianesimo come filosofia chiave di potenze emergenti come Singapore e della sua pericolosità. Nel contempo l’economia del paese sta affrontando un profondo cambiamento che spaventa e incanta con il suo aprirsi a inedite possibilità di profitto e a nuovi spazi di corruzione. Di questa crisi si fanno portavoce gli studenti che tra il 1986 e il 1987 scendono più volte in piazza per protestare contro le inadeguate condizioni professionali e di vita, in favore di procedure e istituzioni più democratiche. Non meno complessa è la situazione politica. Nel 1987 Hu Yaobang, uno dei più forti sostenitori della politica riformista, è rimosso dal suo ruolo di Segretario Generale del Partito e scompare dalla scena politica lasciando il suo posto a Zhao Ziyang, allora primo ministro del Consiglio degli Affari di Stato della Repubblica Popolare Cinese che, a sua volta, si “dimetterà” in seguito alla repressione delle manifestazioni di Piazza Tian’an men del 1989.
Un contesto vivace, all’interno del quale la voce di Liu Xiaobo è apprezzata per il suo anticonformismo, nonostante sia poco condivisa.6)Un divertente esempio di questo apprezzamento, che va al di là della condivisione delle sue idee, è il nome di “centunesima scuola” dato alla sezione della rivista Baija(le “cento scuole”) dove nel 1988 Liu Xiaobo pubblicò alcuni sui saggi. Il titolo della sezione era volto a sottolineare l’eterodossia del suo pensiero, che non poteva essere ricondotto a nessuna delle scuole mai esistite in Cina. Liu diventa la punta di diamante della nuova Cina, che legge opere straniere, esprime idee nuove, può confrontarsi ad armi pari con gli intellettuali stranieri. Inorgogliscono le lezioni di letteratura e filosofia che questo professore della Normale di Pechino, salito in cattedra subito dopo la laurea a soli 29 anni, tiene in università prestigiose come quella di Oslo o la Columbia, anche se in patria viene spesso allontanato dai circoli intellettuali per la veemenza delle sue critiche. Il Liu Xiaobo di questi anni è noto, ma non amato, né in Cina né all’estero. Senza entrare nei dettagli delle aspre critiche che, a partire dagli anni di soggiorno all’estero, Liu porta avanti contro tutto e tutti, è importante tenere presente che lui è felice di essere impietosamente franco (e supponente) e, per giunta, di essere solo. Nella sua visione la solitudine è la sola via per la libertà. Ma non va dimenticato che negli anni del suo successo la sua personalità sfrenata è tollerata anche in quanto funzionale a una certa politica del partito. I fatti del 1989 stravolgono questo panorama. I carri armati modificano le politiche del paese, condizionano l’atteggiamento e la vita di intellettuali e studenti, ma non cambiano Liu Xiaobo che, nonostante un iniziale cedimento, continua a parlare con la lingua di sempre.
Rimanere coerenti in un mondo che cambia è un’opzione che risulta difficile, scartata da molti, capace di risultare provocatoria in un mondo in cui l’incoerenza viene giustificata come ineluttabile. Liu Xiaobo, invece, opta per la coerenza proprio nel tentativo di indurre un ripensamento in chi ha abbandonato la sua originaria missione storica. Tuttavia trovandosi a lungo rinchiuso, e non solo metaforicamente, tra le mura di celle e abitazioni, egli finirà, almeno in parte, per perdere il contatto con la realtà. Il saggio qui presentato, inizialmente scritto nel 2000, è un importante esempio di questo processo.
Oggetto della sua polemica è tutta la classe intellettuale cinese, quella élite che dovrebbe farsi carico di illuminare una massa senza nome e senza coscienza, una massa capace di “sacrificarsi fino alla morte per un qualche ideale, anche utopico” ma anche di “diventare lo strumento di un arrivista e trasformarsi in un boia che non esiti a far scorrere fiumi di sangue”.
Al lettore di questo testo Liu Xiaobo chiede lo sforzo di superare la sua “cinesità”, da subito, proponendo uno stile che volutamente echeggia quello della saggistica in lingue a flessione con un periodare lungo e complesso, fatto di numerose subordinate e rimandi a parole di pensatori non cinesi. È un esempio della fitta rete di riferimenti il termine secolarizzazione, che rimanda alle riflessioni di Durkheim e Weber, ma anche di Hegel e Nietzsche, o il concetto di libertà attiva e passiva di Berlin, il cui riferimento viene però esplicitato, e lo stesso gioco con l’etimo della parola cinese “democrazia”.
La sensazione è quella di leggere un articolo che, dalla sintassi fino alla morfologia delle parole, sembra essere la traduzione di un saggio straniero. Di fronte a un testo stilisticamente ostico e linguisticamente specializzato, il traduttore non riesce del tutto a sottrarsi alla tendenza di renderlo leggibile nella lingua di arrivo. Questo probabilmente attutisce l’effetto voluto dall’autore, che provoca il lettore con continui anacoluti, riferimenti extra-testuali colti che precludono la comprensione del messaggio a quel popolo senza volto che l’intellettuale deve guidare. Si potrebbe pensare che questo testo possa essere maggiormente fruibile per i non cinesi, quei sinologi per i quali Liu Xiaobo non ebbe mai troppa simpatia, o per i cinesi abituati a letture in lingue straniere. Sicuramente l’accesso al testo è favorito a questo genere di lettore esterno al “grande firewall cinese”, ma una parte cospicua dei contenuti sono poco intellegibili per chi non vive in Cina. Si dà per scontata la conoscenza degli avvenimenti e delle personalità a cui si fa riferimento, mentre spesso si tratta persone e fatti di cui poco trapela fuori della Cina.
Questi elementi contribuiscono a fornire l’immagine di un uomo solitario e chiuso nel suo mondo, sicuramente pronto a sposare quelle iniziative pacifiche che possano sensibilizzare l’opinione pubblica – per esempio aderendo a numerose petizioni scritte nei primi anni 2000 – ma non a scendere a compromessi, neppure a quello di semplificare la sua scrittura per renderla più fruibile. Diversamente dalla sua poesia, l’elemento razionale nella sua saggistica ha un ruolo importante.
Una contraddizione per chi scriveva nella tesi di dottorato:

C’è libertà estetica solo quando le inclinazioni individuali superano i principi oggettivi, quando la forza delle emozioni supera i dogmi della ragione.7)Liu Xiaobo 刘晓波, “Shenmei de chaoyue” 审美的超越(La trascendenza dell’esperienza estetica), in Shenmei yu ren de ziyou 审美与人的自由(Estetica e libertà umana) (Beijing: Beijing Shifan Daxue Chubanshe, 1988), 1.

Motivato a portare avanti la sua missione storica, Liu Xiaobo è un uomo pronto a morire per la fedeltà alla propria causa e che trova, pertanto, in Gesù un suo modello:

Gesù è quindi il prototipo dell’uomo che muore per fedeltà alla propria causa: di fronte alle seduzioni del potere, del denaro e della bellezza, Gesù dice «no»; di fronte alla minaccia di essere crocifisso, Gesù dice ancora “no”!

La cosa importante è che, quando Gesù dice «no», non prova odio o desiderio di vendetta, ma al contrario è ricco di tolleranza e infinito amore; non incita a sostituire una forma di violenza con un’altra, ma sostiene la lotta passiva non violenta e, mentre porta la croce sulle spalle, dice tranquillo “no”.8)Liu Xiaobo 刘晓波, Weile huozhe he huochu zunyan: guanyu zhongguoren de shengcun zhuangtai” 为了活著和活出尊严关于中国人的生存状态, Boxun 博讯, 18/7/2004. Traduzione italiana “Per la vita e la dignità del vivere”, in Monologhi del giorno del giudizio, 165, trad. di Valeria Varriano.

Quando nel 1998 scriveva queste frasi nell’Istituto di Rieducazione di Dalian, Liu Xiaobo aveva chiaro che l’epilogo per chi rimane fedele a una causa potesse essere solo il martirio.

Valeria Varriano

 

La Filosofia del maiale

Nella Cina del nuovo secolo, a parte il nuovo e incompiuto “Monumento del millennio”, non c’è nulla di nuovo. La mediocrità che antepone a tutto il profitto è penetrata fino al midollo, a tal punto che la linea di demarcazione tra giustizia e dissolutezza è stata quasi cancellata dall’avidità. La promessa dell’agiatezza ha comprato le anime corrotte e oggi non si trova più un funzionario pulito, né un centesimo che sia frutto di guadagno, né una parola sincera.
Si potrebbe dire che la mediocrità è una caratteristica della modernizzazione perché la modernizzazione è di per sé secolarizzazione, e la secolarizzazione a sua volta è la legittimazione della ricerca del profitto; non si può avere una secolarizzazione che non si curi del profitto.
È vero che il sistema democratico nato nel processo di modernizzazione – con regole decise dalla maggioranza – è di certo un gioco di secolarizzazione, e perfino di mediocrizzazione, incentrato sullo scambio di interessi, ma questo scambio necessita di regole chiare, e quando è equo si basa sul sostegno offerto contemporaneamente all’esterno della legge e all’interno della coscienza. In Cina, invece, il profitto ha sostituito coscienza e legge, diventando il solo sostegno alla cosiddetta dottrina del “nero e spesso”9)L’espressione traduce il titolo di un testo di Li Zongyu (Houheixue厚黑学in originale) scritto nei primi anni della Repubblica di Cina, nel 1917, dove l’autore argomentava provocatoriamente che il vero eroe è un uomo con una faccia spessa come una cinta muraria e il cuore nero come il carbone, come quello dei “cattivi” della tradizione tipo Cao Cao. La sua formulazione è stata considerata dai posteri una lucida analisi del lato oscuro ed egoista della natura umana che fornisce i mezzi per arrivare a risultati importanti in modo spregiudicato. e a un sistema politico assolutista. In secondo luogo il pilastro fondamentale del sistema democratico è la libertà, un valore di innata nobiltà che trascende il secolarismo. Senza un orientamento etico in cui la libertà è prioritaria, la democrazia non solo può condurre a tirannie come quella hitleriana, e a dittature di singoli o di partiti create in nome del popolo, ma può anche indurre ad equiparare la bellezza, la nobiltà e la dignità della natura umana alla mediocrità di una maggioranza anonima.
Secondo le regole democratiche la maggioranza gode di una naturale legittimità, una volta che si mobilita è capace di sacrificarsi fino alla morte per un qualche ideale, anche utopico, così come può diventare lo strumento di un arrivista e trasformarsi in un boia che non esiti a far scorrere fiumi di sangue.
In Cina non manca certo una tradizione di “grande democrazia” caratterizzata dalla ribellione delle masse, mentre non c’è mai stata una tradizione democratica che metta la libertà al primo posto: è difficile ci sia libertà se manca il pane. Contro la mediocrità, che antepone a tutto il profitto, la nobiltà, che pone la libertà prima di ogni cosa, può provenire solo da un’élite minoritaria che possiede alti valori morali. Solo la libertà può evitare che questa minoranza venga divorata dalla maggioranza mediocre e dal profitto mondano.
Dopo la scomparsa dell’antica classe nobiliare, la qualità della società moderna è definita dalla capacità delle minoranze di controbilanciare le maggioranze all’interno di organizzazioni istituzionali in cui la libertà è prioritaria. Le élite minoritarie si preoccupano dei deboli, criticano il potere, resistono ai gusti delle masse e quindi mantengono una natura critica indipendente verso il potere politico e i piaceri della maggioranza, controllano in maniera critica il governo e guidano le masse. Sono loro che permettono il continuo miglioramento della qualità di una società.
Se modernizzare comporta la secolarizzazione della vita quotidiana e democratizzare rende mediocre la vita politica, è ovvio che le masse desiderino una felicità secolare e mediocre. E se la mettessimo semplicemente in questi termini noi saremmo già moderni e democratici; un po’ di grettezza e di mediocrità in più e saremmo perfetti. La cosa più comica e triste insieme è che invece non abbiamo né democrazia né modernità, ci stiamo ancora confrontando con un potere dispotico, ma la società tutta, inclusa l’élite, è già incredibilmente gretta e visibilmente mediocre.
Li Peng, che in patria non è neppure in grado di leggere correttamente i suoi discorsi e non ha successi di cui vantarsi, quando va all’estero, incapace di mantenere il controllo, è facile agli scoppi d’ira. Allora dà una pessima immagine di sé modificando all’ultima ora impegni organizzati da tempo quando, durante le visite ufficiali, i governi stranieri non assecondano la sua richiesta di mettere fine a manifestazioni di protesta indette contro di lui. Per Li Peng visitare la residenza di Goethe è una cosa da niente, mentre l’importante è che gli si attribuisca il rispetto dovuto a chi governa un paese potente. E poi, a dirla tutta, questa tappa del viaggio è solo un modo per atteggiarsi a uomo di cultura, non certo un omaggio sincero a un grande poeta.
Il poliglotta Jiang Zemin invece è proprio bravo a recitare, e infatti, dopo l’ispezione delle truppe dei tre corpi militari in occasione del cinquantenario della fondazione della Repubblica Popolare, nell’anno zero del nuovo millennio è subito salito sull’incompiuto “Monumento del millennio” a offrire sacrifici agli antenati. Dopo aver messo fine alle “tre importanze”10)L’espressione, pubblicata su diversi quotidiani del partito a partire dal novembre 1995, fa riferimento al dover attribuire importanza allo studio, alla politica e alla rettitudine. ha quindi dato inizio alle “tre rappresentanze”,11)Secondo questo principio, oggi inserito anche nella costituzione, il Partito Comunista deve rappresentare le forze d’avanguardia della produzione, la cultura più avanzata e  gli interessi fondamentali della parte più ampia possibile del popolo”. ha represso il Partito Democratico, annientato il Falungong ed è andato più volte in tour all’estero armato dell’autostima di un sovrano di una grande nazione. Ha goffamente strimpellato l’aria “le acque del lago Hong” sul pianoforte di Mozart, e inoltre, impaziente, ha afferrato a mano tesa la medaglia conferitagli da un capo di stato straniero e se l’è appuntata sul petto da solo.
Zhu Rongji, verso il quale nutrivano grandi aspettative le masse nazionali e persino le società straniere, durante la conferenza stampa del giorno della nomina a primo ministro, ha stupito tutti i presenti con la fiera dichiarazione di esser pronto ad affrontare ogni genere di pericolo senza timore della morte. In una successiva visita negli Usa ha ricevuto una straordinaria accoglienza e si è comportato da leader di un grande stato.
Inoltre, una volta, solo due anni dopo, in una conferenza per la stampa nazionale si è vantato tronfio di avere molta più esperienza di lotta per la libertà democratica della Segretaria di Stato americana Margaret Albright. In un’altra occasione ha risposto ai giornalisti: “la corruzione non l’avete anche voi in Germania? E nel gestirla non avete forse ucciso tante persone quante noi?”. Lo scorso luglio poi, durante la visita in Germania, adducendo l’argomento che [nelle elezioni di Taiwan] girano fondi neri e il presidente è eletto da meno del 40% dei votanti, ha dichiarato sprezzante al mondo intero: “le elezioni di Taiwan sono una barzelletta per la democrazia”. E questa sua “barzelletta” è diventata a livello internazionale la battuta comica migliore sulla sua conoscenza dell’ABC della democrazia.
Negli incontri tra amici capita spesso di sentire freddure sulla terza generazione del PCC, ma dopo gli scherzi e le risate si sospira: com’è possibile che, in una crisi in cui la legittimità etica del regime comunista è quasi completamente svanita, loro, pur avendo talmente perso il sostegno dell’opinione pubblica da suscitare la comune ilarità, dopo il massacro [di Tian’an men] siano riusciti a rimanere stabili sullo scanno più alto del potere politico per dieci anni? Non è forse questa una vergogna per l’élite colta del paese?
Sì, è un’onta, ma non perché uno stupido comanda il saggio, non perché un codardo comanda l’eroe o un vile guida il nobile. La vergogna è che un popolo di un miliardo e trecento milioni di persone non abbia altra scelta che obbedire a dei mediocri. In realtà è la debolezza dei governati stessi, e in modo particolare dell’élite, che crea governanti dozzinali. Per contro un governante mediocre che possiede un potere assoluto renderà moralmente ed intellettualmente mediocre tutta la società. Il gioco tra élite e governanti per ottenere una doppia vittoria deve essere un gioco misero da persone con un basso quoziente intellettivo la cui regola è “pensare solo al tornaconto”. Chi ha un quoziente intellettivo alto non riesce a giocare o lo fa con grandi intrighi, complotti e brutalità.
Jin Yong, fondatore della rivista Mingbao e noto scrittore di romanzi di cappa e spada di Hong Kong, dovrebbe avere una comprensione dei vantaggi della libertà di stampa più profonda e articolata di quella di un qualche operatore del mondo dell’informazione in Cina, eppure una volta accettato l’incarico di direttore dell’Istituto di Letteratura di una certa università della Cina continentale12)Nel 1999 Jin Yong è stato nominato direttore dell’Istituto di Letteratura dell’Università del Zhejiang. ha proclamato nel suo discorso: “Non esiste da nessuna parte una libertà di stampa assoluta. In Occidente la cosiddetta libertà di stampa non è altro che quella dei proprietari dei media, chi lavora per i media non è libero”. E, cosa ancora più difficile da comprendere, egli ha inaspettatamente esortato i giornalisti ad imparare dai soldati dell’Esercito di Liberazione la naturale vocazione all’obbedienza assoluta.
In fin dei conti solo un giornalista famoso, provetto autore di romanzi di cappa e spada, poteva riuscire in un simile coup de théâtre. Qualcuno potrebbe chiedersi: come è possibile che Jin Yong, famoso giornalista che ha beneficiato per i suoi successi della libertà di stampa di Hong Kong, dica simili vergognose corbellerie senza tener conto della sua decennale esperienza giornalistica? Come è possibile che il cavaliere solitario di Hong Kong toccato il suolo continentale si sia immediatamente trasformato in un soldatino obbediente dell’Esercito di Liberazione?
È una magia speciale della Cina continentale: qui non c’è modo di far sopravvivere nobiltà morale e buonsenso. La mediocrità, che uniforma ogni cosa, lima ogni differenza al punto che, di fronte al potere assoluto istituzionale, letterati confuciani dalla conoscenza enciclopedica, ricconi pieni di soldi, star ultrapopolari, alti funzionari che nascondono la verità alle masse, si comportano tutti allo stesso modo: i loro muscoli ben allenati danno prova della deferenza totale dei loro volti e dell’assenza di spina dorsale dei loro corpi.
Il cavaliere Jin giunto da Hong Kong è stato certamente codardo, ma è più facile da sopportare della meschinità dell’élite della Cina continentale. L’attribuzione dei premi “Fiume azzurro” della rivista Dushu (Leggere) annunciata a inizio giugno è l’esempio più recente. Questa rivista professa di sostenere posizioni non governative, un’affermazione dubbia di per sé perché nella Cina di oggi non esiste organizzazione editoriale che sia formalmente indipendente, e la casa editrice Sanlian che la pubblica non fa eccezione.
Ma tornando ai premi: il presidente onorario della giuria Fei Xiaotong ha vinto il “premio speciale d’onore”, il direttore della rivista Dushu, Wang Hui, quello “per la migliore opera”, il giurato Qian Liqun quello per “il migliore articolo”. Inoltre un certo numero di opere dei giurati sono state segnalate, selezionate, e purtroppo alla fine scelte.
Già permettere a opere del presidente onorario, del direttore e dei membri della giuria di partecipare alla gara è una violazione delle norme generalmente accettate. Il vero scandalo, tuttavia, è che abbiano vinto dei premi! Probabilmente non vi è gara al mondo in cui l’arbitro possa anche essere contemporaneamente giocatore, possa scendere in campo e vincere una partita. E qualora gli imbrogli non si riuscissero ad evitare del tutto, perlomeno sarebbero nascosti. Osare comportamenti scorretti alla luce del sole, come quelli del premio “Fiume azzurro”, sarebbe severamente e giustamente sanzionato, mentre qui “una lampante imparzialità procedurale” è stata sfacciatamente sostituita da una non meglio definita “giustizia intrinseca” che non è chiara a nessuno.
Che pennivendoli come Fei Xiaotong o Wang Hui13)In realtà Fei Xiaotong (1910-2005) e Wang Hui (1959-) sono due intellettuali di grande spessore con una certa notorietà anche fuori dalla Cina; il primo ha posto già negli anni Quaranta le basi per lo sviluppo della sociologia cinese, il secondo è forse l’esponente più noto della cosiddetta “nuova sinistra”. si comportino così sarebbe già sufficientemente scandaloso, ma non ci si aspettava certo che Dushu pubblicasse sul Zhongguo qingnianbao (Giornale della gioventù cinese) un comunicato ufficiale per difendere un’azione che viola il buonsenso e le regole minime dell’imparzialità accademica. Un cavillare sofista che cita le leggi per intimorire, come la litania del direttore Huang Ping il quale, intervistato, parla del più e del meno senza affrontare la questione. Ma di questo se ne può ridere e lasciar perdere, perché Dushu negli ultimi anni ha ormai perso smalto, non ha più la volontà di affrontare la vita infernale che spetta a chi si oppone strenuamente e, indossata la maschera di giornale indipendente, si è oramai aggregato alla magnifica danza dei cosiddetti “leitmotiv ideologici” dove si sente comodo e a suo agio.
È invece stupefacente che un professore come Qian Liqun – negli anni Novanta tra i più amati dagli studenti, sempre attento a fare ogni sforzo per mantenere pulita la sua reputazione, che ha sempre professato di “sostenere una scrittura indipendente” ed ha effettivamente scritto articoli molto belli – inaspettatamente, senza il minimo buonsenso, abbia accettato, senza manifestare disagio rispetto alle obiezioni della società, uno dei premi di cui era membro della giuria. Egli ha addirittura dichiarato, da giudice vincitore del premio che lui stesso attribuiva, che questa volta non c’era stata corruzione tra i giurati.
Fungere da giudice di un premio importante è di per sé un grande onore che, in termini di risorsa simbolica, può portare enormi benefici intangibili. Vincerlo è un altro tipo di onore a cui segue un profitto economico. L’uomo non può essere troppo avido, l’avidità tende a superare i limiti, a violare le regole, si supera il minimo buonsenso e ci si rende ridicoli. Queste sono verità semplici e lampanti; com’è possibile che lui non le abbia capite?
Una volta un amico mi disse: “oggi per comprare uno studioso cinese bastano centomila yuan”. Allora io pensai parlasse in modo troppo categorico, ma dopo il caso del premio di Dushu, la ricetta è chiara: oggi basta un premio di centomila yuan per un’opera, e di trentamila per un articolo.
Un amico straniero mi chiede continuamente “com’è possibile che nell’arco di una sola notte sia caduto il silenzio sull’enorme massacro del Quattro Giugno, a cui tanti hanno partecipato e per cui tanti sono morti? I carnefici sono davvero riusciti ad uccidere la giustizia? Com’è potuto accadere?” In altri momenti sono rimasto senza parole con cui replicare, ma se me lo chiedesse oggi potrei raccontargli del premio “Fiume azzurro”.
Una nazione con una élite che, quando è tentata dal denaro, si dimentica dell’integrità, potrebbe mai essere capace di dare importanza alla giustizia dimenticando il profitto?! Senza dubbio è stata lanciata, senza alcuna vergogna, una sfida all’imparzialità sociale e alla conoscenza accademica. In Cina quasi tutti hanno il coraggio di lanciare simili sfide alla moralità e alla giustizia, mentre sono pressoché scomparsi gli uomini onesti che abbiano il coraggio morale di sfidare una realtà indecente.
Il terrore sanguinario del Quattro Giugno ha gettato la Cina nel pantano della regressione da cui è difficile uscire. Sebbene nel 1992 il “viaggio a Sud” di Deng Xiaoping abbia rotto il silenzio di morte, e nonostante “il miracolo dell’atterraggio dolce” creato dalla mano di ferro di Zhu Rongji sia riuscito a posticipare l’esplosione di una crisi economica profonda, tuttavia non è stato assolutamente eliminato nessuno dei fattori sistemici della crisi. In campo culturale, politico ed ideologico predominano l’atmosfera opprimente del silenzio di morte e la propaganda sui tempi di “pace e di prosperità” che va a braccetto con la corruzione galoppante e con la repressione delle opinioni dei dissidenti.
Con l’arrivo e la diffusione in Cina della cultura di Taiwan e di Hong Kong, gorgoglio rumoroso della cultura di massa locale, compagna dei “leitmotiv ideologici” imperniati sulle “tre importanze” e sul patriottismo, la gente pensa di condurre una vita di piacere e benessere, felice e libera da preoccupazioni. Deng Xiaoping ha comprato la memoria della gente con la sua “vita negli agi” e a finire nel dimenticatoio non sono state solo innumerevoli tragedie storiche: le immagini del recente massacro sono state sbiadite fino a sembrare quasi irreali.
In questa atmosfera di apatia e amnesia di tutta la nazione, le élite hanno creato la “filosofia del maiale” che collabora con l’ideologia dominante con la scusa di professionalizzare la ricerca e “localizzare” il sapere. Legatasi saldamente all’egemonia del discorso che pone “l’edificazione economica al centro”, questa filosofia usa tutta la sua saggezza al servizio “della pace e della prosperità”, della dimostrazione che mantenere la stabilità sia il solo modo per sviluppare l’economia e che scappatoie del tipo “diritto all’assenza della storia” siano razionali. In poche parole argomenta su come far dormire i maiali sazi e far mangiare i maiali svegli, su come mantenerli al massimo in uno stadio in cui alla sazietà segua la dissolutezza, senza alcuna possibilità di avere altre e più importanti ambizioni.
Nel panorama istituzionale della Cina di oggi ogni indirizzo riformatore è di tipo politico e i discorsi delle teorie umanistiche devono obbligatoriamente fare da eco al dispotismo del sistema.
Come si può rendere la riforma economica un terreno vergine del tutto privo di qualunque trattamento inquinante della politica? Come è possibile usare in modo pretenzioso teorie straniere per giustificare la codardia?
Compongono la cinica filosofia del maiale in ambito economico la teoria nazionalistica del “centro forte” e le scienze economiche centriste dei “fedelissimi del generale” e dei “memorialisti del re”, in ambito politico teorie come quella di Liu Zaifu e Li Zehou dell’“addio alla rivoluzione” o quelle della “nuova sinistra” e delle fazioni pro-mercato e, infine, in ambito culturale la “localizzazione” dell’accademia, che teorizza la necessità di creare concetti cinesi per emanciparsi da quelli occidentali nel dominio delle scienze umane, e un nazionalismo folle, nascosto in ogni angolo.
Fa riflettere che élite provenienti da ogni dove, senza mettersi d’accordo prima, si siano unite per raggiungere uno stesso obiettivo, siano entrate nel porcile in maniera del tutto involontaria, casuale e spontanea, senza riuscire a controllarsi, quandanche lo avessero voluto, così come accadde ad alcune di loro undici anni fa quando entrarono spontaneamente a fare parte del “movimento dell’89”.
Quasi in una sola notte, in modo naturale, c’è chi da membro dello stato maggiore con potere decisionale si è trasformato in un general manager o un presidente di un consiglio di amministrazione, capace di ottenere lauti bottini grazie all’audacia di azioni che mettono la giustizia in un angolo (come è successo alle élite dell’epoca di Zhao Ziyang, che sono state scacciate dai livelli più alti della gestione politica). Altri da poeti d’avanguardia sono diventati venditori di libri e broker culturali incattiviti, da registi d’avanguardia si sono trasformati in invitati d’onore, seduti in tribuna durante la celebrazione del cinquantenario della fondazione della Repubblica e in finanziatori per le scuole del “Progetto Speranza”14)Progetto Speranza è il nome di un’iniziativa legata alla Lega della Gioventù Comunista cinese che si è occupata di costruire edifici scolastici nelle regioni povere del paese. costruite dalla Lega della Gioventù Comunista nelle regioni povere (come Zhang Yimou e Chen Kaige).
Altri ancora, da liberali che guardavano all’Occidente, sono diventati nazionalisti che si oppongono all’egemonismo occidentale o membri della “nuova sinistra” (come i vari Gan Yang e Li Tuo), e, tra i pochi intellettuali che continuano a sostenere valori di orientamento liberale, alcuni arringano dicendo che l’eredità liberale deve molto al conservatorismo anglosassone, secondo il quale la “libertà passiva” è il solo liberalismo ortodosso possibile. Il loro “copione teatrale” sostiene che il Quattro Giugno sia la prova più recente della sconfitta del radicalismo politico e della pratica della “libertà attiva”.
Nel suo Malati di cinismo Hu Ping ha fatto un’analisi penetrante della “libertà passiva” con caratteristiche cinesi. Prenderò in prestito il senso generale della sua analisi. La traduzione stessa delle due parole proposte da Isaiah Berlin per denominare due tipi di libertà rivela una debolezza inconsapevole. Le espressioni di Berlin “negative liberty” e “positive liberty” potevano essere rese in cinese o come “libertà negativa” e “libertà affermativa”, o come “libertà passiva” e “libertà attiva”: noi, ovviamente, abbiamo finito per scegliere le seconde espressioni, che abbandonano l’idea della negazione e lanciano un facile richiamo mentale alla passività, alla fuga. Letteralmente “libertà passiva” è sinonimo di “fuggire la realtà”, somiglia a frasi del saggio “Contro il liberalismo” di Mao Zedong, del tipo: “Ci si disinteressi di tutto quello che non ci riguarda direttamente, anche se si sa bene che è sbagliato, e se ne parli il meno possibile; si giochi sul sicuro, sperando solo di non commettere errori”.
Solo con la trasformazione del liberalismo occidentale in cinismo, grazie agli scritti dei nostri liberali, si è potuto finalmente avere il “liberalismo dalle caratteristiche cinesi”. Ed è sotto la protezione della “libertà passiva con caratteristiche cinesi”, che l’indifferenza verso la politica – caratterizzata da frasi del tipo “diritto alla mancanza della storia”, “far svanire l’ideologia”, “dare prominenza al sapere accademico”, “allontanarsi dalla realtà e tornare ai libri”, “non parlare di politica” – è diventata l’assurda motivazione del rifiuto dell’élite di affrontare la crudele realtà del dispotismo.
Dal momento che il liberalismo ortodosso ritiene che il governo migliore sia quello che interviene di meno, che la politica migliore sia quella che meno ha a cuore la gente e che “libertà passiva” indichi la “libertà di non intervenire negli affari degli altri e non costringerli a fare qualcosa” e non quella “di agire di propria iniziativa” non c’è bisogno di combattere per ottenere una qualunque cosa.
Come risultato fantomatici intellettuali liberali hanno fregiato del nome di liberalismo filosofie volte al distacco dal mondo, del tipo di quelle di Laozi e Zhuangzi. Sono filosofie del maiale al cento per cento: spingono gli uomini a entrare, a scappare dentro le porcilaie per mangiare e basta!
Queste filosofie tradizionali promuovono l’allontanamento dal mondo, infiocchettano la codardia con frasi di ispirazione taoista come “l’uomo imita la Via, la Via imita la natura”, usando la gentilezza per vincere la durezza, mentre le élite attuali abbelliscono e difendono la loro fuga codarda e opportunista con il liberalismo. Il cinismo del­l’antichità sarà pure separato da migliaia di anni da quello a “caratteristiche cinesi”, ma i due si capiscono con tacita intesa.
La verità storica è che se in alcuni luoghi c’è libertà, non importa se passiva o attiva, è perché qualcuno ha preso l’iniziativa di lottare perché ci fosse. Anche la libertà del tipo di quella inglese, di cui alcuni intellettuali si dilettano a parlare, è stata ottenuta solo grazie alla “gloriosa rivoluzione”.
Il massacro sanguinario ha castrato l’iniziativa dei cinesi, ha ucciso l’entusiasmo politico della lotta attiva per la libertà, lo spirito di ribellione dei giovani, e soprattutto ha spaventato le élite intellettuali e studentesche. Le fughe in tanti paesi del mondo ci hanno privati della migliore occasione di sostenere la nobiltà umana. Dopo l’era maoista sono andati in esilio uno dopo l’altro simboli importanti di moralità e giustizia che lottavano per la libertà. Una grande emorragia e uno spreco di risorse morali che non solo ha permesso al PCC di eliminare facilmente oppositori politici diretti, ma ha anche fatto percepire ai semplici partecipanti del movimento dell’89 che il loro fervore per la giustizia e la morale, così come il loro sacrificio, siano semplicemente serviti agli interessi e alla fama di qualche personalità in esilio, e inevitabilmente questo li ha fatti sentire umiliati, imbrogliati da una minoranza elitaria che li avrebbe presi in giro.
Poiché in una società completamente dispotica le risorse morali invisibili sono il solo sostegno su cui si può fare affidamento per resistere al regime che possiede tutte le risorse visibili, nel momento più sanguinoso la moralità e la giustizia possiedono la maggiore forza di ispirazione e coesione. Se nel terrore sanguinario ci sono simboli di grande virtù morale che si ergono a sfidare la forza bruta, allora il sentimento popolare avrà un cuore intorno a cui aggregarsi, il massacro dei carnefici del Partito Comunista sarà solo una sconfitta temporanea dovuta a cause esterne. Ma noi non abbiamo avuto la forza e la nobiltà per fermare le valvole dell’oscurantismo. La perdita e lo spreco di risorse morali, determinato dalla viltà e dalla miopia dell’élite, hanno causato un invisibile e interiorizzato senso di sconfitta, un senso di frustrazione e persino di disperazione che durerà a lungo. Chi ha visto la vanità della vita è possibile che consideri la morale e la giustizia come inutile spazzatura o come mezzi per ottenere fama e ricchezza, ed è possibile che diventi un arrivista.
La sola cosa che non è cambiata in questi dieci anni sono i maoisti o i gruppi di estrema sinistra espulsi dai livelli più alti della politica già nei primi anni Ottanta. Il Quattro Giugno e i grandi cambiamenti dell’Europa dell’Est hanno fornito loro la forza sufficiente per tornare a difendere l’eredità politica di Mao Zedong. Questi hanno pubblicato, durante tutti gli anni Novanta, quattro lunghi memoriali che presentavano i cambiamenti conseguenti al programma di Riforma e Apertura, esaminati dall’alto angolo di visione di un’estrema sinistra che mette in guarda contro le “evoluzioni pacifiche” e chiede di garantire la tranquillità del potere al PCC, di difendere il sistema socialista e di lavorare per il benessere delle masse degli strati sociali più poveri.
L’estrema sinistra che dispone di abbondanti risorse economiche per le sue tre riviste nazionali Zhenli de zhuiqiu (La ricerca della verità), Dangdai sica (Correnti di pensiero contemporaneo) e Zhongliu (Corrente centrale), spesso dal fronte di battaglia delle sue discussioni denuncia, senza nominarle apertamente, iniziative politiche importanti come lo sforzo di Zhu Rongji di fare entrare la Cina nel WTO o l’ultimo capolavoro di Jiang Zemin “le tre rappresentanze”. Non si fa scrupoli neppure di ricorrere allo stile delle “nove critiche”, rivolto in epoca maoista contro il “revisionismo” di Krusciov, per criticare l’intenzione di Jiang Zemin di “rappresentare gli interessi fondamentali della parte più ampia possibile del popolo” affermando di voler trasformare il Partito Comunista da avanguardia proletaria a partito borghese dell’“intero popolo”.
I maoisti sono sempre stati molto attivi, non hanno mai cessato di dare battaglia alla “centralità del pensiero di Jiang Zemin”, ma mai nessuno ha osato esercitare una pressione politica nei loro confronti e ispezionare o fermare le loro pubblicazioni, poiché la natura stessa del potere del PCC ha stabilito che la “sinistra” sia nel giusto sempre più della “destra”, e sia sempre più sicura di quest’ultima.
Non c’è neppure da preoccuparsi che la “nuova sinistra”, fondata da alcuni studiosi che hanno vissuto all’estero, molto apprezzata negli ultimi anni, possa essere pericolosa. Nella situazione attuale, in cui gli intellettuali liberali non dispongono di alcun luogo dove sostenere le loro posizioni (è difficile che la rivista diretta da Liu Junning Gonggong Luncong riesca a sopravvivere, e si possono immaginare le future evoluzioni dopo l’espulsione di Liu Junning dall’Accademia delle Scienze Sociali, la “nuova sinistra” non solo può esprimersi su organi di opinione importanti come Dushu e Tianya, ma ha beneficiato anche dell’entrata nel mercato della grande rivista teorica Shijie (Visuali) diretta da Li Tuo. La rivista ha un bel design, solo che la sua linea politica, che prevede “venga governata come una grande famiglia”, per cui gli articoli di grande valore sono tutti realizzati dai “fratelli”, suscita molti dubbi.
E gli intellettuali liberali?
Il loro modo di comportarsi è la messa in pratica della “libertà passiva” di cui abbiamo detto prima. In un’ampiezza di movimento determinata da una corda a volte stretta ed altre larga, le relazioni tra loro e il sistema il più delle volte sono tiepide, ma in casi rari si assiste anche ad un’intesa reale sotto le mentite spoglie di un disaccordo. Da anonimi vogliono ribellarsi, da famosi fare i soldi, da ricchi e celebri vogliono essere amnistiati, o perlomeno mantenere lo status quo, ecco perché si prova un certo imbarazzo per queste divisioni o per la differenza tra le loro parole e i loro atti.
Anche se ai liberali piace collocarsi all’interno della società civile, definire indipendenti le loro ricerche e i loro scritti, in realtà non si riesce a trovare qualcuno che non viva grazie a un lavoro statale. Lo stato accorda loro tutti i benefici della previdenza sociale, dal salario al titolo professionale, dalla posizione accademica alla casa dove vivono o alle cure mediche. Per presenziare a seminari e conferenze di ogni tipo, correndo da un podio all’altro, da un paese a un altro, è necessario disporre della legittimità conferita da una posizione ufficiale. Uno dei metodi più utilizzati da chi gestisce il potere per esercitare pressione su di loro è minacciare di espellerli da enti pubblici o di licenziarli (vedi il caso di Liu Junning espulso dall’Accademia della Scienze Sociali e Qin Hui che è stato licenziato dall’Università Qinghua). Ecco, quindi, che se da una parte i loro discorsi pubblici e quelli privati fanno proseliti per il liberalismo, e a volte non esitano a denunciare, persino con una certa audacia, le debolezze dei despoti, tuttavia nel contempo nel loro modo di vivere seguono regole che non hanno il minimo sentore di liberalismo, sono persino capaci di dimenticare l’integrità per il denaro, non danno la minima prova di giustizia, moralità e onestà, non corrono il minimo rischio di provocare i superiori.
Per questo negli ambienti intellettuali liberali, sottoposti a ripetute pressioni del governo, non si è capaci di combattere alla luce del sole per proteggere il proprio diritto alla libertà di parola, e ancor meno si è in grado di creare gruppi di pressione della società civile organizzati o semi-organizzati; e certo, poi, non si è più capaci di difendere l’equità sociale facendo petizioni collettive per giovani contadini a cui hanno tagliato la lingua. Il loro liberalismo si limita al nascondersi da soli in uno studio dove ciascuno gestisce da sé i propri interessi, porta avanti una resistenza per iscritto da bordocampo, in ordine sparso, senza assolutamente mai perdere la faccia apertamente nelle azioni, senza rompere quel paravento che le due parti conoscono bene. La realtà è che, nel lungo gioco che da tempo conducono con il sistema esistente, i liberali hanno stabilito internamente una linea di difesa invisibile che, se non superata, dovrebbe garantire loro l’incolumità fisica e il mantenimento dei diritti acquisiti. Se il governo fa pressione, mi ritiro; se la pressione aumenta, vado ancora più indietro, se diventa ancora più violenta, allora sto un po’ di tempo in silenzio. L’appello del 1999 firmato da dieci celebrità del mondo della cultura, tra i quali Dai Huang e Shao Yanxiang, per la difesa dei semplici cittadini, che a suo tempo suscitò un certo entusiasmo, e che fu battezzato il “J’accuse” cinese, una volta presentato non ha ottenuto un ampio sostegno pubblico, per cui è stato soffocato all’apertura della Nona Assemblea Popolare Nazionale con la repressione del Partito Democratico. “L’accusa” è diventata silenzio ed è finito tutto in un nulla di fatto. L’esperienza dell’élite liberale sembra aver dimostrato l’esistenza di questa regola invisibile: il governo non gioca la sua mano assassina purché non ci siano appelli pubblici all’azione o alla resistenza collettiva. La linea da non superare individuata dalle élite liberali non è altro che una forma di autolimitazione provocata dall’interiorizzazione del terrore esterno ed equivale a una tacita promessa fatta al governo.
Ma viene da porsi una domanda: questa linea invisibile senza nessuna garanzia legale è sicura?
La Cina è ancora oggi un paese in cui lo stato di diritto è meno forte dell’assolutismo, qualunque gioco si faccia non esistono regole che chi governa debba osservare. Il potere di definire e fissare le regole di creazione di questa linea difensiva è completamente nelle mani di chi governa. Per cui al confine invisibile che gli intellettuali hanno stabilito al loro interno, in realtà non corrisponde alcuna frontiera definita e il tracciato di questa linea mobile rimane opera di detentori del potere che non obbediscono a una legge visibile ma ai loro sentimenti soggettivi di sicurezza nell’esercizio del potere. Se la loro paura supera il limite da loro sopportabile – e non importa se il pericolo esterno sia reale e se sia a un livello tale da sovvertire il loro regime – prendono delle decisioni del tutto irrazionali. È quindi constatabile che, per quale che sia la linea stabilita dalle élite liberali, questa non sarà mai reale, mai sarà garanzia di sicurezza, né una forza in grado di limitare in qualche modo le azioni di chi governa.
In fondo in Cina nessuno è al sicuro in modo assoluto. Se non si vuol citare a riprova il fatto che creare un partito o esprimere delle opinioni può essere considerato un crimine, va detto che anche i padroni, che si arricchiscono sotto la protezione della filosofia del periodo di “pace e prosperità”, rischiano di vedere svanire la loro fortuna nello spazio di una notte. Se alcuni cinesi non esitano a spendere decine di migliaia di dollari e a mettere a rischio la loro vita pur di fuggire clandestinamente verso l’Occidente è perché fondamentalmente non si sentono sicuri. Quindi la linea di sicurezza definita dai piccoli e grandi burocrati e dei piccoli e grandi uomini d’affari non vale nulla proprio come quella dell’élite liberale, visto che sono entrambe autodefinite. Si tratta solo di espedienti per tirare avanti alla bell’e meglio.
In questo senso non c’è alcuna differenza sostanziale tra la condotta delle élite liberali e di quelle al soldo del potere, dato che entrambe devono erigere archi di trionfo che si differenziano solo per grandezza. Su uno c’è scritto “Vendesi volontariamente sorriso, corpo e persona”, su un altro “Vendesi sorrisi e corpo, non persone”. Su un altro ancora “Vendesi, non per scelta, sorrisi, ma solo sorrisi, non corpi”. Si può dire che non importa se si tratta di pennivendoli, e accoliti di ogni genere, o di persone che resistono e sotto la coercizione del sistema autodefiniscono linee da non superare; in ogni caso tutti si prestano alle esigenze di quella ideologia dominante che è il socialismo con caratteristiche cinesi, e aggiungono una pennellata armoniosa alla Filosofia del Maiale della Cina continentale.
Nella collusione tra codardia dell’élite, terrore politico e seduzione del profitto, le regole materialistiche del primato dell’economia e della materialità, fiorite a poco a poco a partire dagli anni Ottanta, hanno completamente sostituito i sogni spirituali e la moralità come elementi dominanti dell’animo umano. La Filosofia del Maiale, per la quale l’economia è la sola cosa importante e il profitto viene prima di tutto, con il pretesto della riflessione ha iniziato una critica contro il radicalismo e la resa dei conti con l’idealismo; l’indifferenza nata dal trasformare in cinesi teorie delle scienze sociali straniere si è sostituita all’entusiasmo per le idee liberali, e tutti, senza eccezione, incluso persino il moralismo estremo che si propone di resistere alla cultura di massa di quella che è stata definita “letteratura di resistenza”, partono dalla premessa di collaborare con il sistema esistente.
La Cina degli anni Novanta è brutta e marcia sia dal punto di vista della ricostruzione o della rinascita della cultura nazionale, che da quello dell’elevazione o rafforzamento dell’universalismo della natura umana. La mediocrità brutta e marcia è ormai il segno distintivo di quest’epoca.
Il problema non è nell’importanza attribuita all’economia e alla ricchezza materiale nel mondo reale, perché la modernizzazione comporta essa stessa delle forti tendenze verso la secolarizzazione; come Max Weber ha puntualizzato, il processo di “disincanto” della modernità è una forma di secolarizzazione. È senza dubbio del tutto legittimo e razionale considerare come un’esigenza spontanea, individuale e di massa, la preminenza attribuita dai cinesi al profitto economico e al piacere materiale, soprattutto considerando che nell’epoca maoista hanno sperimentato una mancanza di beni materiali da vita monacale e una rivoluzione tanto violenta da entrare nel profondo delle loro anime. È passato poco tempo da quando siamo stati espropriati con la forza persino del semplice diritto di perseguire una felicità secolare, e nessuno ha il diritto di privare di nuovo la gente comune di questo diritto con la violenza adottata da Mao Zedong.
Ma l’edonismo che mette al primo posto l’economia, comparso tra le élite cinesi, non è il prodotto naturale delle difficoltà dell’esistenza, quanto piuttosto la conseguenza artificiale della sottomissione a un terrore istituzionalizzato. Frutto nascosto della riflessione critica sugli anni Ottanta, è una forma di codardia diffusa di cui è difficile parlare, che la gente disprezza, è una fuga di fronte all’ordine politico terrorista, una tattica di sopravvivenza ben calcolata. Quindi la sostituzione del discorso ideologico con quello accademico, della partecipazione politica con l’economia, dei diritti umani con la produttività, della cultura d’élite con quella di massa, ha dettato la nuova moda cinese negli anni Novanta, ma sotto tutto questo permane il terrore e la corruzione su cui il potere politico basa il suo dominio.
In realtà nel mondo di oggi in cui i valori liberali e la loro organizzazione istituzionale costituiscono la corrente dominante, l’opposizione alla dittatura del partito unico dovrebbe godere di abbondanti risorse morali, ed essere considerata legittima e giusta. Invece in Cina, con la soppressione del movimento dell’89 che aveva visto una mobilitazione nazionale basata su una legittimazione etica, con la graduale erosione delle risorse morali, anche il movimento di rivendicazione della libertà, sotto i principi guida della filosofia “della pace e prosperità”, è passato dal dare priorità alla morale a darla all’economia, al puro profitto, e giustizia ed equità non sono neppure più contemplati. Non importa se si tratta di mobilizzare forze popolari ostili al dispotismo esterne al sistema o spingere forze riformiste illuminate all’interno del sistema, è comunque necessario in primis far sì che si percepisca che i loro interessi non saranno lesi. Non sono la morale e la giustizia, ma il profitto ad aver disegnato la linea con cui si misura ogni cosa. Quando si sa che se si partecipa a un movimento antidittatoriale si rischia di perdere tutto, persino la vita propria e quella dei propri cari, nessuno è pronto difendere moralità e giustizia.
Certe élite in esilio, quando criticano i governi occidentali per essersi venduti al PCC con la promessa di ordini di beni e mercati in cui vendere, e per aver messo gli interessi commerciali al di sopra dei diritti umani, non dovrebbero porsi delle domande sul comportamento di noi cinesi? Mettendo su una bilancia morale e profitto a cosa noi diamo più valore? Davvero pensiamo che ci staremmo comportando meglio dei governi occidentali? Che staremmo mettendo la morale prima al profitto? Non dovremmo farci un esame di coscienza? Quante delle risorse morali accumulate con il sangue abbiamo già consumato? La qualità della nostra tempra morale e la nostra intelligenza politica sono degni del prezzo pagato dai nostri predecessori e dell’enorme sostegno che ci ha dato la comunità internazionale? La sicurezza che ci ha portato l’esilio non ha fatto di noi un ornamento decorativo per un sistema inumano? Non stiamo anche noi dando un contributo forzato all’ordine dispotico della “stabilità vince su tutto”?
La bruttezza della Cina di oggi è la perfetta combinazione dell’orrore del terrore del despotismo con la turpitudine della debolezza della codardia umana e della sconcezza della cupidigia.
Ovviamente io non affermo che sia del tutto assente un’intellighenzia liberale che osi rompere quel paravento, ma sostengo che una persona come Li Shenzhi15)Li Shenzhi, noto studioso liberale, in occasione del Cinquantenario della RPC ha pubblicato un saggio che viene considerato un modello per il pensiero liberale cinese. sia un caso isolato che l’élite liberale nel suo insieme non osa imitare. Non dico neppure che in questi anni l’intellighenzia liberale non abbia fatto nulla, intendo solo indicare la situazione reale in cui si trova. In questi anni ha riportato innegabili successi nella riscrittura della storia, nella puntualizzazione di problemi correnti, nella propaganda delle idee liberali. In un coro nazionalista in cui cantano insieme il belletto culturale del noto scrittore Yu Qiuyu,16)Yu Qiuyu è una delle più note figure culturali e letterarie cinesi contemporanee. Le sue opere, best-seller in tutta l’Asia, raccontano in forma abbellita molteplici aspetti della cultura cinese tradizionale. Nel 2004 Yu è stato selezionato dall’Università di Pechino e dal gruppo China Talent come uno dei dieci migliori talenti artistici rappresentanti della cultura cinese, e nel 2005 è stato l’unico studioso cinese invitato a partecipare al Forum sul patrimonio culturale mondiale dell’UNESCO. il video, girato da Chen Kaige per Mtv, dell’alzabandiera per la celebrazione del cinquantesimo anno dalla fondazione della Repubblica, e l’eleganza politica del contributo economico di Zhang Yimou alle scuole del Progetto Speranza, le loro parole franche suscitano indignazione, ridestano la razionalità, risvegliano il mondo.
Per tragica che sia stata la sconfitta del Quattro Giugno essa ha comunque mostrato la bontà, il senso di giustizia e lo spirito di sacrificio della gente comune. Dopo tutto la morte di un giovane diciassettenne ha risvegliato la coscienza profondamente addormentata [dei suoi genitori n.d.t.], di due intellettuali cresciuti negli insegnamenti del Partito Comunista, e li ha convinti a unirsi al gruppo delle vittime; ha permesso alla gente di comprendere la natura dispotica del partito, l’ha spinta a non credere più alla legittimità morale del dominio del Partito Comunista e alle sue scuse ideologiche. Ha portato ad un movimento di opposizione civile pubblico, che è andato avanti senza fermarsi, che è riuscito per la prima volta dalla presa del potere del PCC a far sì che un vecchio comunista, di sua volontà, per ragioni morali, abbandonasse il ruolo, e i relativi benefici, di segretario generale del partito e ha indotto un gran numero di élite interne al sistema a seguire la via della rivolta. Di tutto questo rimarrà il ricordo eterno di un nobile fervore libero e onorevole. O, in altri termini, oggi come domani tutto questo rappresenterà l’incoraggiamento morale più prezioso nella nostra vita, perché ha fornito alla nostra nazione mediocre e codarda un’occasione per comportarsi con coraggio, dignità e nobiltà.
Nel dispotismo del partito unico, dove ancora si può essere arbitrariamente privati dal potere dei diritti fondamentali, per edificare un sistema di libertà in cui tutti abbiano il diritto di essere egoisti e di cercare la felicità secolare, è necessario contare sulla nobiltà e sull’altruismo del senso di giustizia dell’umanità. Per ottenere una libertà passiva che eviti interferenze e obblighi imposti da altri è necessario avere uno spirito libero che sappia prendere l’iniziativa di lottare con positività.
Abbiamo bisogno di pane ma per essere veri uomini abbiamo ancor di più bisogno di libertà.
Gli uomini che non si rassegnano a una vita da maiali, questi stolti che non cambiano idea e vogliono ancora riunire insieme le risorse morali della Cina con il loro coraggio e il loro senso morale, devono possedere una nobiltà innata e essere capaci di conservare la speranza di fronte a una situazione, quasi disperata, di rovina morale.

Dongxiang, settembre 2000

Liu Xiaobo (traduzione di Valeria Varriano)

Immagine: dettaglio de Il Giardino delle Delizie di Hieronimous Bosch, da Wikimedia Commons

L’eresia della coerenza e la filosofia del maiale PDF

Valeria Varriano insegna all’Università di Napoli L'”Orientale” dove si occupa di didattica del cinese mandarino e si interessa allo studio della cultura popolare cinese contemporanea, in particolare televisiva. Per Mondadori (Milano, 2011) ha tradotto l’unica raccolta di saggi di Liu Xiaobo finora apparsa in Italia, dal titolo Monologhi del giorno del giudizio.

References
1 Liu Xiaobo 刘晓波, “Gaige shidai de xin qimeng: yi Xidan Minzhu Qiang wei li,” 改革时代的新启蒙以西单民主墙为例,Zhengming争鸣, 07/2008. Per la traduzione italiana vedi “Il neoilluminismo dell’era della riforma: l’esempio del Muro della democrazia”, inMonologhi del giorno del giudizio (Milano: Mondadori, 2011), trad. it. di Valeria Varriano, 28.
2 Liu Xiaobo 刘晓波, Houji”後記(Postfazione), Zhongguo zhengzhi yu Zhongguo dangdai zhishifenzi中國政治與中國當代知識份子(Politica cinese e intellettuali cinesi contemporanei) (Taibei: Tangshan chubanshe, 1990). Vedi anche “Postfazione aPolitica cinese e intellettuali cinesi contemporanei”, in Monologhi del giorno del giudizio, 105, trad. it. di Valeria Varriano.
3 Ibid.,  111.
4 Liu Xiaobo 刘晓波, “Weiji! Xin Shiqi wenxue mianlin weiji!” 危机!新时期文学面临危机(Crisi! La letteratura della Nuova Era è entrata in crisi), Shenzhen Qingnianbao 深圳青年报, 3/10/1986.
5 Ibid.
6 Un divertente esempio di questo apprezzamento, che va al di là della condivisione delle sue idee, è il nome di “centunesima scuola” dato alla sezione della rivista Baija(le “cento scuole”) dove nel 1988 Liu Xiaobo pubblicò alcuni sui saggi. Il titolo della sezione era volto a sottolineare l’eterodossia del suo pensiero, che non poteva essere ricondotto a nessuna delle scuole mai esistite in Cina.
7 Liu Xiaobo 刘晓波, “Shenmei de chaoyue” 审美的超越(La trascendenza dell’esperienza estetica), in Shenmei yu ren de ziyou 审美与人的自由(Estetica e libertà umana) (Beijing: Beijing Shifan Daxue Chubanshe, 1988), 1.
8 Liu Xiaobo 刘晓波, Weile huozhe he huochu zunyan: guanyu zhongguoren de shengcun zhuangtai” 为了活著和活出尊严关于中国人的生存状态, Boxun 博讯, 18/7/2004. Traduzione italiana “Per la vita e la dignità del vivere”, in Monologhi del giorno del giudizio, 165, trad. di Valeria Varriano.
9 L’espressione traduce il titolo di un testo di Li Zongyu (Houheixue厚黑学in originale) scritto nei primi anni della Repubblica di Cina, nel 1917, dove l’autore argomentava provocatoriamente che il vero eroe è un uomo con una faccia spessa come una cinta muraria e il cuore nero come il carbone, come quello dei “cattivi” della tradizione tipo Cao Cao. La sua formulazione è stata considerata dai posteri una lucida analisi del lato oscuro ed egoista della natura umana che fornisce i mezzi per arrivare a risultati importanti in modo spregiudicato.
10 L’espressione, pubblicata su diversi quotidiani del partito a partire dal novembre 1995, fa riferimento al dover attribuire importanza allo studio, alla politica e alla rettitudine.
11 Secondo questo principio, oggi inserito anche nella costituzione, il Partito Comunista deve rappresentare le forze d’avanguardia della produzione, la cultura più avanzata e  gli interessi fondamentali della parte più ampia possibile del popolo”.
12 Nel 1999 Jin Yong è stato nominato direttore dell’Istituto di Letteratura dell’Università del Zhejiang.
13 In realtà Fei Xiaotong (1910-2005) e Wang Hui (1959-) sono due intellettuali di grande spessore con una certa notorietà anche fuori dalla Cina; il primo ha posto già negli anni Quaranta le basi per lo sviluppo della sociologia cinese, il secondo è forse l’esponente più noto della cosiddetta “nuova sinistra”.
14 Progetto Speranza è il nome di un’iniziativa legata alla Lega della Gioventù Comunista cinese che si è occupata di costruire edifici scolastici nelle regioni povere del paese.
15 Li Shenzhi, noto studioso liberale, in occasione del Cinquantenario della RPC ha pubblicato un saggio che viene considerato un modello per il pensiero liberale cinese.
16 Yu Qiuyu è una delle più note figure culturali e letterarie cinesi contemporanee. Le sue opere, best-seller in tutta l’Asia, raccontano in forma abbellita molteplici aspetti della cultura cinese tradizionale. Nel 2004 Yu è stato selezionato dall’Università di Pechino e dal gruppo China Talent come uno dei dieci migliori talenti artistici rappresentanti della cultura cinese, e nel 2005 è stato l’unico studioso cinese invitato a partecipare al Forum sul patrimonio culturale mondiale dell’UNESCO.