Vita, morte e paradossi di un apostolo del liberalismo occidentale: una biografia intellettuale di Liu Xiaobo

Liu Xiaobo era una figura piuttosto nota, in Occidente. Perciò, quando si è consumata la sua morte, nel luglio dello scorso anno, un po’ tutti fra i giornali occidentali hanno voluto celebrarlo, raccontando gli episodi salienti della sua tragica parabola con una retorica spesso commossa se non addirittura appassionata. Così abbiamo letto ancora una volta di Liu Xiaobo, l’eroe di Tian’anmen, il professore che, nel 1989, era impavidamente tornato dagli Stati Uniti per unirsi alle rivolte studentesche, e che, dopo avere iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la violenza della legge marziale, aveva negoziato con i militari una via di fuga per evacuare gli studenti dalla piazza, salvando così moltissime vite umane. E abbiamo nuovamente letto di Liu Xiaobo, il Vaclav Havel cinese, il dissidente che, dopo aver passato anni a fustigare il governo cinese per il suo disprezzo dei diritti umani, nel 2008 aveva contribuito a vergare la Carta 08 – ispirata a quella firmata dai dissidenti cecoslovacchi nel 1977 – per chiedere al Partito Comunista Cinese di farsi da parte per trasformare la Cina in uno stato di diritto costituzionale, libero, democratico e pluralista. E poi ancora Liu Xiaobo, il Nelson Mandela cinese, l’attivista che, dopo essere stato condannato a undici anni di carcere dal governo cinese con l’accusa di “istigare alla sovversione del potere dello stato”, aveva detto ai suoi cerberi che non li odiava per questo e proprio per questo, nel 2010, era stato insignito del Premio Nobel per la Pace, in virtù della sua “lunga lotta non violenta per i diritti fondamentali in Cina”. Infine Liu Xiaobo, il martire già in odor di santità, il pacifista innamorato della fragile poetessa Liu Xia, che mentre moriva di cancro piantonato dalla polizia chiedeva al governo cinese di andare a curarsi all’estero, ma solo per portare in salvo la sua compagna da quella “prigione a cielo aperto che è la Cina di oggi”.1)Sharom Hon, “Liu Xiaobo: A moderate, constructive, brilliant intellectual robbed of his rights and dignity to the very end”, Hong Kong Free Press, 14/7/2017.
Insomma Liu Xiaobo era l’eroe perfetto, per i media occidentali, uno di quegli eroi che, come si suol dire, se non esistessero bisognerebbe inventarli. Ma attenzione: non voglio dire che Liu Xiaobo non fosse genuino, o che la sua storia fosse falsa, o che la sua battaglia e il suo sacrificio non avessero niente di mirabile. Ciò che voglio dire, piuttosto, è che Liu Xiaobo, per i media occidentali, ha sempre avuto una valenza più che altro simbolica, una funzione per così dire mitica, come dimostra la retorica piuttosto accalorata, ma in fondo rituale e piena di clichés, con cui questi lo hanno quasi universalmente celebrato. Il mito, infatti, è una narrazione che attraverso un canovaccio formulaico, delle immagini archetipiche, e una semplificazione netta del bene e del male, serve ad affermare, principalmente, l’identità e i valori di una determinata comunità. Pur prendendo spesso le mosse dalla realtà, nel mito ciò che conta non è tanto l’accuratezza della ricostruzione storica, o la sua complessità, quanto piuttosto la sua capacità di fornire degli schemi di significato immediati ed evidenti in cui potersi riconoscere a livello collettivo. Così, ciò che troviamo nella parabola di Liu Xiaobo è uno dei tanti canovacci più o meno interscambiabili con cui l’Occidente liberale, attraverso la narrazione paradigmatica del freedom fighter che sfida l’ennesimo regime (scontando per questo una terribile condanna, che però è necessaria a favorire la sua santificazione da parte dell’Occidente, spesso proprio grazie al Premio Nobel per la Pace), esemplifica i “nostri” valori liberali come bene assoluto demonizzando come male assoluto l’“altro” dispotico che governa, soggiogandola, l’altrui realtà sociale. Il problema, di questa trattazione, è che dice molto di quali siano i valori identitari occidentali – e di quali siano i disvalori rappresentati da chi questi valori li calpesta – ma ci dice poco, se non nulla, di chi fosse Liu Xiaobo. Liu Xiaobo, infatti, era prima di tutto un intellettuale. Ma c’è qualcuno, fra tutti quelli che lo hanno celebrato, che ha provato ad analizzare il suo pensiero? Quanti hanno provato a leggere, e a vagliare criticamente, gli innumerevoli scritti che Liu Xiaobo ha prodotto? Quanti hanno provato a capire, e a spiegare, come si articolavano le sue idee, come si erano formate, evolute, come erano state ricevute, che impatto avevano avuto sulla società cinese, quali erano i loro punti di forza, quali le loro debolezze? Pochi, mi pare. Eppure, io credo che siano queste le domande che dovremmo porci per comprendere un po’ meglio Liu Xiaobo, e per sondare il significato che le sue idee hanno avuto non solo qui da noi, ma anche in Cina; ammesso che, adesso ormai che è morto, qualcuno senta ancora la necessità di occuparsi seriamente di lui. Certo indagare queste questioni non è per niente facile, data da un lato l’estrema prolificità saggistica di Liu Xiaobo, e dall’altro la fitta aura simbolica in cui la sua figura è avvolta. Questo, tuttavia, è quanto cercherò di fare con questo articolo, nonostante le mie conoscenze ancora tutt’altro che complete della sua produzione intellettuale. Mi si perdoni se a tratti potrò risultare irriguardoso, e se enfatizzerò di più i difetti, rispetto ai pregi, delle idee di Liu Xiaobo: ma a evidenziare i pregi delle idee di Liu Xiaobo, trattandole anzi spesso come verità assiomatiche, ci pensano già in tanti. Il mio scopo, scrivendo questa breve biografia intellettuale, è quello di demitizzarlo – senza per questo voler negare o sminuire l’ideale democratico da questi perseguito e rappresentato – evidenziando come ci siano delle criticità negli schemi del suo pensiero che, a mio avviso, da un lato impediscono a chi si avvicina alla Cina dall’esterno di conoscerla in modo equilibrato, e dall’altro tendono a limitare parecchio la bontà delle sue proposte politiche e culturali per la trasformazione della Cina.

Liu Xiaobo nasce nel 1955 a Changchun, nel Jilin, ed è uno dei tanti che, adolescenti durante gli anni caotici e violenti della Rivoluzione Culturale, mutano nel corso della gioventù la loro fede originaria nell’ortodossia maoista in un radicale scetticismo anarcoide. Ammesso all’università all’inizio dell’Era Riformista, intraprende come molti intellettuali della sua generazione un percorso umanistico, che lo porta, nel 1986, a iniziare un dottorato in lettere all’Università Normale di Pechino. Sono gli anni della cosiddetta “febbre culturale”, una stagione di intense discussioni a livello nazionale in cui gli intellettuali cinesi, impegnati a ridisegnare la mappa dei valori sociali dopo il crollo dell’ideologia maoista, si interrogano in particolare sul ruolo che la cultura tradizionale cinese dovrebbe avere nell’ambito della modernizzazione avviata da Deng Xiaoping. Le posizioni, al riguardo, tendono idealmente a contrapporsi: da una parte c’è quella che sostiene che la Cina, per modernizzarsi, debba recidere senza molti rimpianti i legami con la propria tradizione, troppo arretrata e irrimediabilmente compromessa dai suoi perduranti elementi “feudali”, per abbracciare incondizionatamente non solo la scienza ma anche le idee e i valori sociali della modernità occidentale; dall’altra c’è quella che sostiene che “modernizzazione”, per la Cina, non debba essere per forza sinonimo di “occidentalizzazione”, e che la Cina, pertanto, debba trovare una propria via “autoctona” alla modernizzazione, ricostruendo la propria identità culturale attraverso il recupero e la rivalutazione degli elementi positivi della tradizione nazionale. Liu Xiaobo, prevedibilmente, appartiene al primo gruppo, di cui rappresenta senza dubbio la voce più radicale e intransigente. Ciò si può notare fin dalla sua prima uscita pubblica da intellettuale, un simposio sulla letteratura, tenutosi nel 1986, in cui Liu Xiaobo, mentre i presenti erano impegnati a celebrare i grandi progressi compiuti dalla letteratura cinese nei dieci anni della “nuova era” Post-Maoista, gela il pubblico presente affermando in modo drastico che al contrario, secondo lui, la letteratura cinese si sarebbe trovata in uno stato di grave crisi, causata proprio dal suo crescente rifugiarsi, in cerca di ispirazione e identità, nel grembo della tradizione nazionale. Una tradizione, quella cinese, che con le sue tendenze “razionalistiche, moralistiche e dogmatiche” era colpevole per Liu Xiaobo di avere provocato “l’impotenza spirituale dei cinesi” e la loro irreparabile sterilità creativa.2)Liu Xiaobo 刘晓波, “Weiji! Xin shiqi wenxue mianlin weiji” 危机!” 新时期文学面临危机 (Crisi! La letteratura della Nuova Era è entrata in crisi), Shenzhen Qingnianbao 深圳青年报, 3/10/1986.
Ciò che emerge in modo lampante, fin dall’inizio della sua carriera accademica, è come Liu Xiaobo intenda collocarsi, in modo netto, nel solco del pensiero del Quattro Maggio, di cui fa proprie le istanze più iconoclaste: “La questione su cui dobbiamo meditare”, dice in un passaggio del suo primo intervento, “non riguarda semplicemente lo sviluppo artistico della letteratura nella Cina contemporanea, quanto piuttosto lo sviluppo complessivo della cultura cinese di oggi, e riguarda la capacità o meno degli intellettuali cinesi di ereditare la tradizione del Quattro Maggio per assumersi il gravoso compito storico di diffondere e approfondire il movimento illuminista cinese, il cui fine è trasformare la radice cattiva del carattere nazionale estirpando la millenaria tradizione feudale.”3)Ibid. Ovvio che su queste premesse il campione del Quattro Maggio su cui Liu Xiaobo modella se stesso non possa essere altri che Lu Xun: “Influenzato dalla cultura più avanzata dell’Occidente, dall’alto della sua coscienza moderna Lu Xun ha dissezionato la tradizione cinese criticandola in profondità e rigettandola in toto, facendo sì che per la prima volta i nostri connazionali guardassero in faccia i vizi odiosi e pietosi del nostro carattere nazionale vedendo l’apatia di milioni di anime moribonde. Lu Xun, e con lui tutta la letteratura del Quattro Maggio, ci offre oggi uno splendido punto di partenza per compiere un’autoanalisi, un’autocritica e un’autonegazione. Il movimento illuminista cinese avrebbe grandi speranze, se solo un discreto numero di scrittori cinesi continuassero oggi su questa strada”.4)Ibid.
In sostanza, Liu Xiaobo prende dal Movimento per la Nuova Cultura del Quattro Maggio gli ideali progressisti e soprattutto emancipatori, e in particolare da Lu Xun la tendenza all’(auto)analisi spietata a livello collettivo e personale. Nello stesso tempo, però, eredita dal movimento anche i limiti del suo approccio critico “culturalista”, approccio che paradossalmente proprio negli anni Ottanta gli intellettuali cinesi avevano appena cominciato a mettere in discussione. Di questi limiti, il primo è la tendenza ad accusare come origine di ogni problema sociale della Cina la cultura cinese tradizionale. Tale cultura, identificata in linea di massima con la tradizione confuciana, sarebbe alla base di una mentalità arretrata, intrinsecamente antimoderna, che tenderebbe a corrompere con le sue strutture psicologiche “feudali” lo spirito di ogni cinese (il cosiddetto “carattere nazionale”).5)Liu Xiaobo salva dalla sua esecrazione generalizzata della cultura cinese tradizionale solo Zhuangzi, di cui in verità ammira profondamente lo spirito libertario, anticonformista e critico. Considera tuttavia il taoismo piuttosto sterile come dottrina sociale perché privo di un atteggiamento assertivo rispetto all’emancipazione e all’affermazione dell’individuo sulla società. Essa in particolare sarebbe responsabile, per Liu Xiaobo, dell’eterno dispotismo della società cinese, che si sarebbe riprodotto, senza variazioni significative, dalla Cina confuciana a quella comunista: laddove occorre notare che per dispotismo Liu Xiaobo non intende semplicemente la pratica di esercitare il potere in modo arbitrario e violento, ma la tendenza generale a privilegiare le esigenze dell’ordine sociale rispetto alle istanze personali del singolo. Il risultato secondo Liu Xiaobo sarebbe che in Cina l’uomo non sarebbe mai stato considerato come un fine in sé, ma come uno mezzo per realizzare gli obiettivi sociali, una tendenza che avrebbe provocato una perenne repressione della sfera emozionale dell’individuo che, prosciugato dal pragmatico razionalismo della società cinese della propria componente affettiva e creativa, sarebbe da sempre ridotto a vivere in una condizione di “disumanità” (feiren 非人) e “schiavitù” (nuli 奴隶). Bersaglio principale della sua critica, in questo senso, sono soprattutto gli intellettuali, i quali rappresenterebbero la quintessenza negativa del carattere nazionale a causa della loro tendenza a farsi schiavi “consapevolmente”(zijue nuxing 自觉奴性) del sistema politico-sociale. Accusati variamente di essere inerti, mediocri, pavidi e opportunisti, nonché inclini all’autoinganno, stolidamente ottimisti e incapaci di guardarsi dentro al fine di svolgere autocritica, per Liu Xiaobo gli intellettuali cinesi contemporanei, con la loro propensione a privilegiare il compromesso e l’armonia rispetto alla rottura e al conflitto, costituirebbero in ultima analisi i più fidati e docili alleati del regime comunista.6)Liu Xiaobo elabora le sue visioni sulla cultura e sulla società cinese, e sui valori della modernità occidentale di cui parlo nel seguente capoverso soprattutto in tre scritti, Xuanze de pipan: yu sixiang lingxiu Li Zehou duihua 选择的批判——与思想领袖李泽厚对话 (Critica della scelta: dialogo con il maître à penser Li Zehou), (Taibei: Fengyun Shidai Chuban Gongsi: 1989); Xing’ershangxue de miwu 形而上学的迷雾 (La nebbia della metafisica) (Shanghai: Shanghai Renmin Chubanshe, 1989); “Zhongguo zhengzhi yu Zhongguo dangdai zhishifenzi 中国政治与中国当代知识份子 (La politica contemporanea e gli intellettuali cinesi contemporanei) (Taibei: Tangshan chubanshe, 1990).
La seconda tendenza, a questa speculare, consiste invece nell’idea che la Cina si possa salvare da se stessa solo abbandonando tout court il proprio sistema sociale e culturale “tradizionale” – in buona misura assimilato da Liu Xiaobo al sistema sociale e culturale comunista – per imboccare viceversa la strada della cosiddetta “occidentalizzazione totale” (quanpan xihua 全盘西化), trasferendo cioè in blocco sul suolo cinese le istituzioni e i valori della modernità occidentale, che Liu Xiaobo identifica integralmente con le istituzioni e i valori del sistema liberale. Nello specifico, Liu Xiaobo legge la storia dell’Occidente come il processo evolutivo, necessario e universale, attraverso cui l’umanità si è affrancata progressivamente dalla gabbia della “metafisica” (termine con cui Liu Xiaobo designa qualsiasi sistema epistemologico che mira a inserire la società in un ordine ideologico e morale totalizzante), consentendo la liberazione dell’individuo e della sua “natura emozionale” (ganxing 感性) – unica fonte secondo lui della creatività umana – dalle costrizioni opprimenti della razionalità sociale (lixing 理性). La libertà individuale è infatti per Liu Xiaobo il fine ultimo della storia, nonché prevedibilmente il valore più alto e assoluto del suo sistema filosofico, un sistema che Liu Xiaobo forma originariamente rifacendosi a una linea di pensiero esistenzialista che trova i suoi riferimenti principali in Nietzsche e Sartre. Da questa linea di pensiero Liu Xiaobo ricava innanzitutto l’idea che la vita umana sia profondamente tragica, dal momento che non esiste alcun fondamento religioso-trascendentale né teleologia storica o utopia sociale che possano dare senso all’esistenza dell’individuo riscattandolo dalla sua irrimediabile limitatezza. L’unica soluzione, pertanto, è quella di accettare eroicamente di non avere alcuna certezza al di fuori del proprio essere limitato e impegnarsi di conseguenza a sviluppare al massimo il proprio sé imparando a vivere una vita pienamente autentica al di fuori delle convenzioni sociali. Da Nietzsche, in particolare, Liu Xiaobo riprende non solo la critica alla cosiddetta “morale dello schiavo” e l’appello alla distruzione degli “idoli” – temi che erano già stati fatti propri negli anni Dieci dagli intellettuali del Movimento per la Nuova Cultura -, ma attinge, in special modo, alla nozione del “dionisiaco” per affermare il valore di quegli elementi irrazionali, istintivi, sensuali e finanche aggressivi che costituiscono secondo lui gli impulsi autentici alla base della propria auto-affermazione soggettiva (allo stesso modo, come Nietzsche, Liu Xiaobo esalta il valore dell’arte come mezzo per liberare appunto le pulsioni vitali spontanee dell’individuo). Invece da Sartre, che come Nietzsche negli anni Ottanta in Cina è un pensatore estremamente in voga, riprende l’idea che l’unica via di salvezza dall’insensatezza e assurdità dell’esistenza sia quella di autodeterminarsi attraverso la scelta, esercitando fino in fondo la propria libertà di essere ciò che si vuole così da “portare a compimento la propria vita nella sua unicità” nonostante la possibilità che il proprio progetto sia destinato a un bruciante fallimento.7)Liu Xiaobo 刘晓波, “Dui ren de beiju de jieshi: shiyu beiju, zhongyu beiju” 对人的悲剧的解释——始于悲剧,终于悲剧  (Una spiegazione della tragedia umana: tragedia, dall’inizio alla fine), 1987. Questa idea che la libertà sia non solo un diritto, ma anche una tragica responsabilità etica, finirà per portare Liu Xiaobo in una direzione diversa rispetto a quella della liberazione estetica di matrice dionisiaca, instradandolo verso un destino di rinuncia e sacrificio da accettare nel nome delle proprie scelte personali. Intanto, proprio per questo profondo attaccamento al valore della libertà, Liu Xiaobo comincia a promuovere in questo periodo anche le istituzioni e i valori del liberalismo occidentale, ritenendo che solo il sistema della democrazia liberale di stampo anglosassone possa creare una società in cui è la società a esistere per l’uomo e non, come nel sistema cinese, l’uomo a esistere per la società, e in cui l’individuo viene dunque considerato, kantianamente, non come un mezzo ma come un fine.
È dunque in virtù dei suoi ideali democratico-liberali, ma anche delle sue aspirazioni nicciane a “vivere pericolosamente” e degli imperativi sartriani a costituire se stessi attraverso l’unicità delle proprie scelte, che Liu Xiaobo nel maggio del 1989 decide in fretta e furia di lasciare la Columbia University, dove si trovava come visiting professor, per precipitarsi a Pechino a partecipare ai moti democratici di Piazza Tian’anmen.8)È un’osservazione fatta da molti, fra cui Woei-Lien Chong, nel saggio “The Tragic Duality of Man: Liu Xiaobo on Western Philosophy from Kant to Sartre”, in A.J. Saich e K.W. Radtke (a cura di), China’s Modernisation: Westernisation and Acculturation, (Stuttgart: Steiner Verlag, Münchener Ost-Asiatische Studien, 1992), 111-163. Qui, a ogni buon conto, avviene la svolta che cambia in modo determinante il suo modo di pensare e di operare. Se fino a quel momento Liu Xiaobo si era fatto notare come critico culturale deliberatamente provocatore ed estremista, un tratto che gli era valso il soprannome, nelle cerchie intellettuali cinesi, di “cavallo nero” (heima 黑马), ossia più o meno di “mina vagante”, date le sue sparate sempre eccessive e bellicose,9)La più famosa di queste sparate, fatta in un’intervista a una rivista di Hong Kong nel 1988 e mai ritrattata, è quella che la Cina, per poter cambiare davvero, avrebbe bisogno di essere colonizzata per trecento anni. Tale dichiarazione ha contribuito ad alienare a Liu Xiaobo molte simpatie, anche fra coloro che potevano condividere in parte i suoi ideali democratico-liberali, e in seguito è stata brandita come una clava dal governo cinese per dimostrare il presunto antipatriottismo di Liu. ora, assumendo un ruolo di guida nelle proteste studentesche, acquisisce toni finalmente moderati, meditati, dialoganti e costruttivi. Nel “Manifesto dello sciopero della fame del 2 giugno”, per esempio, dichiara che il “movimento democratico” vuole “ottenere libertà, democrazia e diritti umani in modo pacifico, razionale, non violento e legale”.10)Liu Xiaobo, “Manifesto dello sciopero della fame del 2 giugno”, in Monologhi del giorno del giudizio (Milano: Mondadori, 2011), trad. it. di Valeria Varriano, 211-217. Nello stesso documento, afferma che la democrazia cinese deve essere costruita “con una mentalità cooperativa e con uno spirito di tolleranza di tipo democratico”.11)Ibid. Scopo del movimento, nelle intenzioni di Liu Xiaobo, deve essere quello di trasformare il sistema politico cinese trasformando prima di tutto la mentalità dei partecipanti e in generale di tutta la società cinese, della quale è necessario educare la “coscienza civica” e il senso di “responsabilità politica” così da creare una “nuova cultura politica” democratica per sostituire quella autocratica e tirannica che da migliaia di anni governerebbe la Cina. Il fine, perciò, per Liu Xiaobo non è meramente politico e sociale, ma è anche ad un tempo marcatamente esistenziale, dato che, come lui stesso invoca, l’aspirazione dei partecipanti deve essere quella di “pentirsi”, per emendarsi dei propri errori e delle proprie debolezze che sarebbero causa dell’arretratezza della Cina, al fine di cercare la “vera vita” in uno sforzo di redenzione personale e collettivo. Temi, quelli del pentimento e della redenzione, che Liu Xiaobo attinge con grande enfasi dalla cultura cristiana, della quale valorizza in primo luogo la nozione di peccato originale data la sua convinzione che ogni essere umano sia in una certa misura colpevole a causa delle proprie debolezze e che l’unica via per emendarsene sia praticare un incessante esame di coscienza al fine di riconoscere i propri limiti così da superarli fortificandosi (tale disposizione confessionale secondo Liu Xiaobo è un importante elemento di forza e progresso della civiltà occidentale, mentre al contrario i cinesi, non avendo mai creduto in un dio trascendente come quello cristiano, non avrebbero sviluppato una cultura confessionale e di conseguenza non sarebbero capaci di esaminare se stessi e dunque di cambiare i loro modi per far progredire la società). Questa fede nel valore dell’espiazione porta Liu Xiaobo a dare grande importanza al sacrificio personale come viatico per giungere alla redenzione personale e collettiva, e a nutrire una profonda venerazione nei confronti di quelle figure che, storicamente, hanno accettato la sofferenza del martirio nel nome di un ideale, a partire dalla figura di Gesù verso la quale Liu Xiaobo prova un forte senso di identificazione. In realtà, come ha giustamente rilevato Geremie Barmé, c’è in questa visione etica di Liu Xiaobo uno spirito profondamente cinese, dato che la tendenza all’autocritica, alla negazione del proprio “vecchio” sé debole e malato poiché corrotto dalla tradizione, insieme allo sforzo di ricreare un nuovo “io” riformando ad un tempo se stessi quanto la società cinese, costituisce l’ideale tipico dell’intellettuale cinese moderno erede del tradizionale letterato confuciano, per il quale la propria fortificazione etica è un tutt’uno con il progetto di rigenerare la società. È in virtù di questa dimensione sociale della propria autocoltivazione che, scrive Barmé, molti intellettuali cinesi “eroici ed individualisti” come Liu, nel Ventesimo secolo, hanno seguito un corso che va dall’“auto-liberazione all’auto-immolazione” (e in questo senso non può non venire il mente il primo grande modello di Liu Xiaobo, Lu Xun).12)Geremie Barmé, “Confession, Redemption, and Death: Liu Xiaobo and the Protest Movement of 1989”, in George Hicks (a cura di), “The Broken Mirror: China After Tiananmen” (London: Longmans, 1990), 52-99.
Se questa vocazione al sacrificio aiuterà probabilmente Liu Xiaobo a sopportare il peso del carcere, inflitto in seguito ai fatti di Tian’anmen con l’accusa di avere svolto attività di propaganda controrivoluzionaria, la sua insistenza a fare dell’autoanalisi e dell’autocritica i principi indispensabili per perseguire uno stile di vita autentico lo porterà invece a criticare in modo drastico, dopo il suo rilascio nel gennaio del 1991, la condotta del movimento democratico, accusando tanto se stesso quanto gli altri partecipanti di narcisismo e opportunismo, e gli studenti, in particolare, di essere stati privi di uno spirito veramente democratico. A questo punto, purgatosi dei propri errori, Liu Xiaobo può finalmente ricominciare da capo la sua personale fatica di Sisifo, iniziando la seconda fase della sua vita da intellettuale militante che sarà segnata in modo decisivo dalla scelta coraggiosa e ambiziosa di non andare all’estero in esilio e di rimanere invece in Cina per poter incidere nella realtà politica e sociale. Ciò naturalmente significa accettare condizioni di vita molto dure, dato anche che, avendo perso la sua posizione all’università ed essendogli proibito pubblicare in patria, diventa molto difficile per lui, negli anni Novanta, impegnarsi nella scrittura. È forse anche per questa ragione che Liu Xiaobo comincia a investire sempre di più, in questo periodo, nell’attivismo politico, anche se questo gli costerà nel corso del decennio ulteriori periodi di detenzione per i suoi frequenti appelli allo Stato-Partito di riformare le sue istituzioni politiche. Le cose cominciano in ogni caso a migliorare alla fine degli anni Novanta, e soprattutto negli anni Duemila durante il mandato di Hu Jintao e Wen Jiabao, quando da un lato le autorità cinesi firmano una serie di accordi internazionali che le sollecitano a prestare maggiore osservanza dei diritti civili sanciti dalla costituzione, mentre dall’altro l’emergere di internet come nuova arena pubblica ancora scarsamente pattugliata dal governo rende molto più facile pubblicare e far circolare le proprie idee, al di fuori dei canali ufficiali, dentro e fuori dalla Cina. Liu Xiaobo conquista allora una rinnovata visibilità diventando, fino al momento del suo nuovo e definitivo arresto nel 2008, un saggista prolificissimo, dedito a scrivere soprattutto su tre temi: primo, la tragedia di Piazza Tian’anmen, di cui si impegna a farsi testimone battendosi per far rivivere la memoria delle vittime oscurata dall’amnesia pubblica imposta dallo Stato-Partito; secondo, l’attualità politico-sociale della Cina contemporanea, di cui osserva e critica senza peli sulla lingua soprattutto gli abusi di potere della politica cinese e le ingiustizie da questa perpetrate ai danni della popolazione; terzo, le teorie del pensiero liberale, in cui trova le ricette per guarire la Cina dei suoi mali politici e sociali. Arrivati fin qui, però, è il caso di dire che, per quanto apprezzabili siano le esternazioni di Liu Xiaobo soprattutto a causa della loro audace franchezza, pure esse appaiono in una certa misura problematiche dato il consistente livello di semplificazione, se non addirittura stereotipizzazione, con cui articolano la loro visione della realtà politica, sociale e culturale cinese, i cui schemi fondamentali soggiacenti riassumerò brevemente qui di seguito.
Il tema di fondo che attraversa in genere un po’ tutti i saggi che Liu Xiaobo scrive a partire dagli anni Novanta è l’idea che il Partito Comunista sia una forza politica essenzialmente dispotica, che in maniera dispotica governa, dominandola, la società cinese, allo scopo primario se non esclusivo di garantire la conservazione del proprio potere e il mantenimento dei privilegi dei propri funzionari. I quali, perciò, esercitano il loro potere in maniera tirannica e arbitraria, favorendo l’insorgere di innumerevoli forme di schiavitù non solo materiali, ma anche morali e culturali, che privano i cinesi della loro libertà spogliandoli della dignità. Difatti, anche se Liu Xiaobo definisce il periodo inaugurato negli anni Novanta come post-totalitario, non vi riconosce alcun cambiamento davvero sostanziale nella prassi di governo del PCC, che anzi avrebbe mantenuto più o meno immutata la propria natura originaria in una fondamentale linea di continuità con la politica della Cina imperiale, del periodo Maoista e dell’era Post-Maoista. Semplicemente, il sistema sembra essere riuscito ad allungarsi la vita, in un’epoca in cui la fine della Guerra Fredda ha già emesso la sua sentenza di morte per le dittature comuniste di tutto il mondo, corrompendo la società cinese attraverso la seduzione del denaro e dei vantaggi materiali, che ha quasi indistintamente trasformato i cinesi, a partire dai giovani e dagli intellettuali, in cinici opportunisti conniventi col sistema. Inoltre, soffocando sistematicamente la libertà di stampa e di espressione, e intortando nel contempo la popolazione con ideologie fasulle come il nazionalismo e il consumismo, il Partito ha sepolto la società cinese in un sudario di menzogne, tanto più avvolgente quanto più i pochi coraggiosi che osano dire la verità sugli abusi del regime sono regolarmente intimiditi e perseguitati.
Se a cavallo fra i due decenni Liu Xiaobo tende ancora ad avere una visione apocalittica, secondo cui la società cinese sarebbe fatalmente corrotta e depressa dal potere politico, nel corso degli anni Duemila sposa invece in misura crescente una visione messianica secondo cui Partito e società sarebbero contrapposti in una sempre più stridente dialettica fra dispotismo e libertà, dei quali l’ultima sarebbe inevitabilmente destinata a prevalere, anche perché l’instaurazione globale del sistema liberale sarebbe per Liu Xiaobo nientemeno che il fine ultimo della Storia. Da una parte il Partito Comunista sarebbe dunque una forza politica illegittima, anacronistica, irrazionale e inefficace, che reprime con il suo potere le forze spontanee del progresso sociale ostacolando il corso naturale della storia, anche se, data la crescente autonomia e pluralismo della società avvenuta grazie al mercato e alla privatizzazione, essa non riesce più a esercitare un controllo capillare sulla stessa ed è quindi condannata alla sconfitta. Dall’altra abbiamo invece la gente comune, che costituisce la forza morale sana e legittima del paese e che, con le sue spinte dal basso, ha contribuito a riformare e a sviluppare la società favorendo la genesi, grazie anche ai molteplici spazi di espressione spalancati all’improvviso da internet, di un’emergente società civile che, per quanto ancora immatura, ha cominciato ormai a reclamare a gran voce giustizia e diritti, da cui arriverà presto o tardi la democrazia.13)Questi schemi risultano particolarmente chiari in due saggi pubblicati nel volume Monologhi del giorno del giudizio (Milano: Mondadori, 2011): “Cambiare il sistema politico attraverso il cambiamento sociale”, 16-23 (originariamente pubblicato su Guancha 观察 il 26 febbraio 2006) e Il neoilluminismo dell’era della riforma: l’esempio del muro della democrazia, 24-32 (originariamente pubblicato su Zhengming 争鸣 il 15 giugno 2008).
Si tratta come si può notare di una visione molto manichea, che certo è possibile spiegare, in modo più o meno sufficiente, con una semplice analisi di tipo soggettivista: per giustificarla, infatti, basterebbe pensare all’esperienza personale di Liu Xiaobo nei giorni della rivolta, quindi della repressione militare, e infine dell’incarcerazione: tutti episodi dolorosissimi che, rivelando in tutta la loro drammaticità gli aspetti più odiosi e violenti del regime, avrebbero giocoforza radicalizzato il suo antagonismo politico. A ciò bisognerebbe aggiungere la sua naturale propensione, manifestatasi ben prima dei fatti del 1989, a lanciare critiche estreme e generalizzate fondate su dicotomie essenzializzate (ora centrate sull’opposizione politica fra il dispotismo del Partito Comunista e la libertà del sistema democratico, prima sull’opposizione culturale fra la retrograda mentalità cinese tradizionale e l’emancipatrice cultura moderna occidentale). Tuttavia, per capire davvero a fondo perché Liu Xiaobo viene a strutturare il suo pensiero proprio secondo questi schemi, è molto più utile, a mio avviso, optare per una spiegazione oggettivista, tenendo conto nello specifico, alla luce delle teorie sociologiche di Pierre Bourdieu, dei caratteristici condizionamenti oggettivi che indirizzano le posizioni di Liu Xiaobo sulla base del concreto posizionamento che quest’ultimo assume all’interno del campo intellettuale cinese a partire dagli anni Novanta. In parole povere, le posizioni di Liu Xiaobo sono forgiate da un fondamentale paradosso: quello che da un lato egli rimane in Cina ma non può scrivere nei giornali cinesi e in ultima analisi non può dialogare con gli intellettuali della Repubblica Popolare né mantenersi con il proprio lavoro intellettuale in Cina, mentre dall’altro può pubblicare solo all’estero dove viceversa le sue idee sono particolarmente richieste, apprezzate e remunerate soprattutto in quegli ambienti che sono più ideologicamente avversi al regime comunista. E difatti, Liu Xiaobo trova spazio in massima parte in quei giornali pro-democratici e anticomunisti, situati soprattutto a Hong Kong e negli Stati Uniti, che fanno della denuncia della soppressione dei diritti umani e della violazione della libertà di parola in Cina il loro cavallo di battaglia: fra questi, troviamo in particolare riviste liberali di Hong Kong come Zhengming, Kaifang e Dongxiang, il giornale dei dissidenti cinesi in America Beijing Spring, l’organizzazione Human Rights in China con sede a New York e a Hong Kong, o addirittura l’organo di propaganda del Falungong, anch’esso negli Stati Uniti, Epoch Times. Per non dire che Liu Xiaobo negli anni Duemila riceve laute sponsorizzazioni e uno stipendio fisso dall’americano National Endowment for Democracy – agenzia istituita dall’amministrazione Reagan nel 1982 allo scopo di promuovere la diffusione mondiale delle “infrastrutture democratiche” e finanziata in larga parte dal Congresso degli Stati Uniti – con i cui fondi gestisce per anni la direzione della rivista online Democratic China e fonda nel 2003, rimanendone presidente fino al 2007, la costola cinese del Pen International, un’associazione volta come è noto a difendere la libertà di espressione degli scrittori denunciando i crimini compiuti contro di essi dai governi illiberali. Si capisce dunque bene come, alla luce di questa collocazione nella struttura oggettiva dei rapporti di potere che condizionano i processi concreti di formazione delle idee, perché Liu Xiaobo venga formando il suo pensiero come si è poc’anzi evidenziato, assolutizzando il dispotismo del regime, enfatizzando la volontà popolare a rovesciarlo, ingigantendo la soppressione dei diritti – in particolare di espressione – da parte del governo cinese, e viceversa esaltando il potere salvifico della nuova sfera pubblica sorta spontaneamente dal basso. Se le organizzazioni estere nel cui mantello Liu Xiaobo viene a operare trovano in lui la loro bandiera, l’icona dell’intellettuale perseguitato che con la sola forza delle proprie idee sfida quotidianamente il regime esemplificandone sulla propria pelle l’ottusità e la crudeltà, Liu Xiaobo riceve in cambio da queste ultime il proprio “capitale simbolico”, ovvero la specifica forma di riconoscimento come intellettuale-eroe impegnato a promuovere i valori universali di democrazia, libertà e diritti umani al prezzo della sua stessa libertà. Non c’è da sorprendersi, perciò, che sia lo stesso Liu Xiaobo a modellarsi secondo questi schemi, dipingendosi sovente come un novello Vaclav Havel impegnato a “vivere nella verità” per far cadere il castello di bugie costruito da un regime dalla maschera eternamente sovietica che prospera in gran parte grazie alla codardia e all’ignavia degli intellettuali cinesi.
Un forte livello di semplificazione lo possiamo trovare anche nel modo in cui Liu Xiaobo celebra, in termini assoluti, le virtù del liberalismo occidentale, celebrazione che finisce per diventare, in ultima analisi, un’apologia del capitalismo neoliberale se non addirittura dell’imperialismo americano. Per Liu Xiaobo, infatti, il sistema liberale “puro” è la soluzione universale di ogni problema politico, economico e sociale per qualsiasi paese, una formula perfetta, priva di alcun difetto né scompenso, che beneficia in egual misura tanto l’individuo quanto la società: “Il sistema liberale”, scrive al proposito, “ha come caratteristica peculiare quella di rispettare la dignità e l’indipendenza personale. Consegnando all’individuo il diritto di scegliere come progettare la propria vita, esso fornisce un ambiente giuridico uguale per tutti favorevole alla competizione sociale; stimolando al massimo grado lo spirito creativo dell’individuo, fa sì che la società guadagni un’incessante vitalità. Per risultato, aumentando la creatività e il benessere personale di ognuno, anche l’efficienza e il benessere complessivo della società inevitabilmente si accrescono”.14)Liu Xiaobo 刘晓波, “Geren ziyou zai Zhongguo jinxiandai de quexi” 个人自由在中国近现代的缺席 (L’assenza della libertà nella prima modernità cinese),  Guancha 观察 e Epoch Times 大纪元, 12/3/2007. Per Liu Xiaobo il fine primario del sistema liberale è la protezione della libertà individuale che, come abbiamo già visto, costituisce ai suoi occhi il valore più assoluto e il sommo bene dell’umanità. Nello stesso tempo, come si può intuire dal passaggio appena citato, egli sottolinea con insistenza come la tutela della libertà porti necessariamente anche alla realizzazione dell’uguaglianza (vedi per esempio l’aumento del “benessere personale di ognuno”). È, quello dell’uguaglianza, un valore che Liu Xiaobo mostra di avere molto a cuore, come si può vedere nei vari scritti in cui denuncia le ingiustizie economiche subite dai contadini cinesi a causa delle spoliazioni subite a opera dei funzionari corrotti e rapaci. Ma l’uguaglianza, per Liu Xiaobo, a conti fatti è sempre e solo uguaglianza di “opportunità”, resa possibile dalle uguali condizioni di partenza garantite a ogni individuo grazie all’imparzialità della legge, e mai deve essere invece uguaglianza di “risultati”, ottenuta attraverso l’intervento riequilibratore dello stato. Liu Xiaobo elabora questa convinzione mutuandola da Friedrich Hayek, il vate del pensiero neoliberale: “Nel conferire all’individuo il diritto alla libertà”, scrive parafrasando proprio Hayek, “il sistema liberale vi conferisce anche una responsabilità a essa commisurata. Avere facoltà di scelta significa anche doverne sopportare il peso e le conseguenze. ‘Libertà’ vuol dire rispetto per l’uomo, e così pure ‘responsabilità’. Dare libertà significa postulare che l’uomo libero abbia la capacità di intraprendere azioni razionali, la quale implica sia che l’uomo libero venga a godere dei vantaggi derivanti dal successo nella scelta, sia che sappia sopportare le perdite derivanti dal fallimento di quest’ultima. Il peso della scelta che la libertà conferisce all’individuo è la responsabilità verso il proprio destino che il sistema liberale dà a ogni individuo capace di scegliere”.15)Liu Xiaobo 刘晓波, “Ziyou: renxing, wenhua he zhidu de yuandian. Du Hayeke de ‘Ziyou xianzhang’” 自由:人性、文化和制度的元点——读哈耶克的《自由宪章》(Libertà: l’origine dell’uomo, della cultura e delle istituzioni. Una lettura de La società libera di Hayek), 1998. Qui, chiaramente, la responsabilità di scelta non è più quella sartriana di vivere seguendo fino in fondo i propri principi e valori esistenziali, ma è quella dell’homo oeconomicus che diventa interamente responsabile del proprio destino economico attraverso le proprie scelte effettuate nell’agone del mercato. Così grande è la fede di Liu Xiaobo nelle virtù del libero mercato e della privatizzazione, e con essa l’avversione nei confronti di qualsivoglia intervento regolatore dello stato, che welfare state e comunismo, nelle sue parole, finiscono quasi per confondersi. È la competizione spontanea, per Liu Xiaobo, che ha il compito di attuare “la selezione naturale” di chi vince e chi perde, portando in ogni caso dei vantaggi alla società: una visione criptodarwinista che sembra avere poco a che vedere, alla fin fine, con gli ideali di uguaglianza più volte professati.16)Ibid. Liu Xiaobo, insomma, finisce per sposare un’ideologia liberale conservatrice il linea con quella del Partito Repubblicano americano, ideologia che porta alle estreme conseguenze appoggiando incondizionatamente le guerre per la “libertà” di George W. Bush in Iraq e Afghanistan. In un articolo pubblicato da Epoch Times nel 2005, per esempio, loda la “ricostruzione democratica” avviata in questi due paesi congratulandosi: “Scomparsi finalmente due viziosi regimi, la gente che prima viveva in schiavitù ora ha avuto la libertà”.17)Liu Xiaobo 刘晓波, “9/11 si zhou nianji” 9•11四周年祭 (Quarto anniversario dell’Undici Settembre) Guancha 观察, 12/9/2005.
Insomma si può intuire abbastanza facilmente, dopo questa breve disamina, come le posizioni di Liu Xiaobo, con la loro critica radicale tanto del regime politico comunista quanto della mentalità cinese tradizionale, insieme alla loro idealizzazione della superiorità dell’Occidente e in particolare del “suo” sistema democratico-liberale, possano avere una facile presa sul pubblico occidentale. Già strutturate, di per sé, per essere fruibili da parte dei lettori occidentali, ratificate dalle istituzioni della cosiddetta “comunità internazionale”, e infine riverberate da decine di giornalisti che fanno da cassa da risonanza al credo liberale di Liu trasformandone la doxa in verità assoluta, esse in fondo tendono a riaffermare vecchi schemi orientalisti che, da Hegel a Wittfogel, dal periodo coloniale alla Guerra Fredda, vedono la Cina come il bastione di quel famoso “dispotismo orientale” che aveva trovato la sua prima, fortunata teorizzazione addirittura in Aristotele. Come sostiene Daniel Vukovic, anzi, dall’inizio dell’Era Riformista la Cina sarebbe diventata l’oggetto emblematico di un nuovo tipo di orientalismo che vedrebbe quest’ultima non più, come nel vecchio orientalismo coloniale, quale assoluta e irriducibile alterità, ma piuttosto come un’entità che, sebbene ancora non del tutto uguale a “noi”, sarebbe inesorabilmente destinata, grazie ai processi irreversibili innescati dalla modernizzazione e dal mercato, a diventarlo.18)Daniel Vukovic, China and Orientalism: Western Knowledge Production and the PRC, (London and New York: Routledge, 2012). Naturalmente questa narrazione liberale negli ultimi anni è stata messa in forte discussione a causa della persistente crisi delle democrazie occidentali e dall’ascesa mondiale della Cina divenuta più assertiva nel difendere l’eccezionalismo cinese sotto Xi Jinping. Per quanto ancora storpiata da una forza politica “cattiva” e “anormale” come il Partito Comunista, la Cina, partecipando ai flussi della globalizzazione, sarebbe avviata a trasformarsi in un paese libero, aperto e moderno, insomma un paese “normale” all’insegna dello schema liberale di democrazia, capitalismo e individualismo. In buona sostanza, esattamente la visione di Liu Xiaobo. Il limite di questa visione, tuttavia, è che con i suoi schemi prefissati essa finisce per procurare non pochi problemi alla nostra comprensione della Cina, generando nel contempo non pochi paradossi.
Il primo di questi problemi è che Liu Xiaobo, liquidando il sistema politico cinese come “dispotico”, ci rende più difficile, in realtà, vedere la natura di questo sistema per quello che è oggettivamente. Non v’è dubbio, infatti, che il Partito Comunista miri alla conservazione del proprio potere, così come non v’è dubbio che la sua supremazia assoluta, data l’assenza di contrappesi indipendenti, favorisca l’insorgere di molte pratiche dispotiche, aggravate certo da una mentalità non di rado “feudaleggiante” dei funzionari. Ma il Partito Comunista, oltre a questo, è anche una forza politica significativamente impegnata nella modernizzazione della Cina, un’apparato di leadership che guida la società cinese in un progetto di sviluppo a lungo termine che ha come fine il progresso della Cina, non importa quanto discutibile questo progetto possa apparire a molti di noi e quanti sacrifici esso imponga a larghe fasce della popolazione cinese nella sua realizzazione. È stato il Partito Comunista a liberare le energie creatrici della società cinese, piuttosto che a reprimerle, stimolando, a partire dall’inizio dell’Era Riformista, l’iniziativa individuale dei cinesi per imbrigliarla nelle attività produttive allo scopo di promuovere lo sviluppo economico nazionale. Ed è stato il Partito Comunista che, proprio a questo fine, ha istituito il sistema del mercato, per aumentare produttività ed efficienza dell’economia e, in particolare, per favorire la competizione a livello sociale. Paradossalmente, istituendo il mercato il PCC ha usato proprio la stessa ricetta invocata da Liu Xiaobo: ha dato ai cinesi non poche libertà, da esercitarsi prevalentemente nel mercato e attraverso il mercato, ma ha dato loro nel contempo anche moltissime responsabilità, una volta che, smantellato il sistema assistenziale socialista, li ha educati a competere, insegnando loro a “contare su stessi” per diventare artefici del proprio destino economico pienamente responsabili del proprio successo o fallimento materiale: ragion per cui non pochi studiosi negli anni Duemila hanno parlato di neoliberalismo per definire molti aspetti della nuova “governamentalità” del PCC. Queste libertà hanno coinciso anche, nel periodo in cui scriveva Liu Xiaobo, con un discreto aumento dei diritti: fragili, per carità, spesso revocabili, sempre negoziati, non uniformemente distribuiti fra le varie fasce della popolazione, e comunque il linea di massima assenti sul piano politico, ma non è questo il punto. Il punto, semmai, è che è stata la liberalizzazione dell’economia, più che il dispotismo del potere politico, a creare in Cina le ingiustizie e le discriminazioni più stridenti, formando nuove gerarchie sociali e nuove forme di violenza. Così se Liu Xiaobo ha ragione nel denunciare le violenze politiche dei funzionari, e con queste le molteplici violazioni dei diritti frutto della mancata indipendenza del sistema giuridico, pure concentrandosi esclusivamente su questi problemi ci dipinge soltanto un quadro molto parziale, omettendo di riconoscere che sono state proprio le pratiche del “liberalismo classico” da lui visceralmente appoggiato (leggasi capitalismo sfrenato?), a generare gran parte delle violenze caratteristiche della Cina dei primi anni Duemila. In questo modo, Liu Xiaobo perde secondo me l’occasione di spiegare davvero quali siano le concrete strutture della violenza nella Cina di questo periodo, un misto di potere autoritario, certo, mentalità paternalistica dei funzionari, pure, ma il tutto finalizzato a sostenere quelle dinamiche di sfruttamento capitalista di cui l’Occidente, un tempo, è stato inventore ed esportatore.
Un secondo problema emerge in relazione alla sua visione del liberalismo. Liu Xiaobo, da una parte, ha senza dubbio ragione quando denuncia la monopolizzazione delle risorse economiche da parte dei potenti come causa fondamentale delle tremende disuguaglianze sociali emerse in Cina con lo sviluppo del mercato. E ha perfettamente ragione quando rampogna tanto gli intellettuali che definisce “pseudo-liberali” quanto quelli della “nuova sinistra” – entrambi i gruppi impegnati a proporre ricette economico-sociali per ridurre le suddette disuguaglianze chiedendo più mercato i primi e più stato i secondi – accusandoli di essere muti quando si tratta di denunciare quello che secondo lui è la madre di ogni problema sociale, il potere assoluto del Partito.19)Liu Xiaobo 刘晓波, “Zhongguo ziyouzhuyi de dangdai kunjing” 中国自由主义的当代困境 (La crisi del liberalismo cinese contemporaneo), Human Rights in China 人与人权, 20/4/2007. Ma che cosa succederebbe, viceversa, se la Cina provasse a risolvere i suoi problemi di giustizia sociale con le ricette di Liu Xiaobo? Cosa sarebbe successo se la Cina avesse seguito la strada intrapresa negli anni Novanta da Boris Yeltsin, da lui spesso elogiato in compagnia di Gorbachev? Forse che la privatizzazione, in Russia, ha creato un sistema liberale e un’economia aperta? Più volte Liu Xiaobo ha indicato, ad esempio, che il rimedio per risolvere il problema delle appropriazioni indebite delle terre coltivate dai contadini da parte dei funzionari locali sarebbe quello di privatizzarle, garantendone ai contadini il diritto alla proprietà, e quindi anche alla compravendita. Ma cosa succederebbe, mettiamo, a un contadino povero e magari indebitato (cosa non rara) una volta che, dopo essere stato indotto a vendere il suo appezzamento, si trovasse a competere in piena libertà con milioni di altri contadini poveri senza avere uno straccio di terra a cui tornare in caso di insuccesso? Forse sapere che “libertà” è anche “responsabilità” lo consolerebbe di non avere più un mezzo di sostentamento? Come farebbero in questo caso i contadini a rivendicare i propri diritti? Un fatto abbastanza sorprendente, d’altro canto, è che Liu Xiaobo, simbolo emblematico delle aspirazioni democratiche cinesi, non sembra dare grande rilievo, nei suoi numerosi scritti, alla questione della rappresentanza. La libertà che sembra davvero fargli battere il cuore, citando un suo punto di riferimento molto importante, Isaiah Berlin, è quella “negativa” (protezione dai vincoli esterni, soprattutto dello stato), mentre nei confronti della libertà “positiva” (diritti alla partecipazione politica e all’inclusione sociale) Liu Xiaobo mostra una certa diffidenza, associandola alla coercizione dei movimenti di massa e alla tirannia della maggioranza. Non a caso, un modello politico verso il quale professa molta ammirazione è quello di Hong Kong sotto l’amministrazione coloniale britannica, nella quale, dice con approvazione, “pur non essendoci democrazia, c’era una completa libertà economica e di espressione”.20)Liu Xiaobo 刘晓波, “Ziyou: renxing, wenhua he zhidu de yuandian. Du Hayeke de ‘Ziyou xianzhang’” 自由:人性、文化和制度的元点——读哈耶克的《自由宪章》(Libertà: l’origine dell’uomo, della cultura e delle istituzioni. Una lettura de La società libera di Hayek), 1998. Il che solleva ovviamente una domanda: e chi potrebbe garantire, se la Cina diventasse mai un paese liberale ma non ancora democratico, il rispetto universale della libertà, e soprattutto dell’uguaglianza, in assenza di un meccanismo di rappresentanza? Evidentemente, bisognerebbe contare sugli intellettuali illuminati come Liu Xiaobo: “La qualità di una società moderna”, scrive con candore disarmante, “è determinata dalla capacità che, in un sistema che mette al primo posto la libertà, le élite minoritarie hanno di fare da contrappeso alla maggioranza. Le élite minoritarie hanno a cuore i gruppi deboli e criticano il potere politico, opponendosi nel contempo al gusto delle masse …  per giunta, controllano in modo critico il governo e indirizzano le masse.”21)Liu Xiaobo, “Zhu (Zhongguo) de zhexue” 猪(中国)的哲学 (La filosofia del maiale – e della Cina). Boxun 博讯, 30/4/2002
Insomma Liu Xiaobo, in questo passaggio, sembra paradossalmente tradire la tipica visione aristocratica che gli intellettuali cinesi moderni hanno ereditato dai letterati confuciani: sono le persone superiori, intellettualmente e moralmente, che hanno il compito di far progredire la società, e la libertà, come peraltro voleva anche il giovanissimo Lu Xun, è in questo senso il mezzo per garantire l’emergere del talento particolare degli individui più dotati. Eppure, Liu Xiaobo rimprovera spesso gli intellettuali liberali cinesi moderni e contemporanei per il fatto che, secondo lui, non hanno mai promosso un liberalismo “autentico”: tutti secondo lui, perfino l’insospettabile Hu Shi, avrebbero asservito il liberalismo alle finalità nazionaliste promuovendo la libertà individuale non come un fine in sé, ma come un mezzo per far progredire la nazione. Faccio notare questo non tanto perché voglio dimostrare come anche in Liu Xiaobo sia prevedibilmente presente, nonostante il suo rifiuto categorico della cultura cinese tradizionale, un inconscio culturale autoctono che informa in una certa misura le sue idee, quanto per evidenziare il limite della sua stigmatizzazione costante degli intellettuali cinesi visti come rappresentanti di un’eterna mentalità cinese dai tratti confuciani che favorirebbe la sottomissione dell’individuo all’ordine intrinsecamente dispotico dello stato e della società, fungendo quindi da ostacolo alla diffusione delle istituzioni e dei valori liberali. Se perfino gli intellettuali cinesi liberali, si potrebbe infatti obiettare, che sono quelli che in teoria conoscono meglio la natura delle società liberali occidentali dato che le studiano e molto spesso le frequentano, tendono ad accogliere il liberalismo occidentale con non pochi caveat, recependone i principi soltanto selettivamente, e respingendone per lo più il bagaglio di valori e di stili di vita individualisti che generalmente lo accompagnano, beh, allora perché mai dovrebbe accoglierlo senza riserve il resto della società cinese? Se esiste davvero, come pensa Liu Xiaobo, una “mentalità” cinese, questa sembrerebbe essere caratterizzata proprio da un certo scetticismo e disagio nei confronti di una concezione atomizzata dell’individuo sciolto da legami e vincoli sociali: e allora come ragionevolmente sperare che la Cina, nel trasformarsi, possa diventare una repubblica non solo democratico-liberale, ma pure organizzata secondo i valori individualisti di marca soprattutto angloamericana tanto cari a Liu Xiaobo? Tornando infine agli intellettuali cinesi, troppo spesso accusati da Liu Xiaobo di essere conniventi con il regime, forse bisognerebbe riconoscere che la ricerca del compromesso nel nome dell’armonia sociale, almeno per una parte di loro, non è per forza frutto di opportunismo o codardia, ma anche di un genuino senso di responsabilità nei confronti della collettività, dalla quale dipende, in ultima analisi, anche l’incremento del benessere individuale.
Un terzo problema è infine quello che concerne la domanda: ma a chi si rivolgono, veramente, gli scritti di Liu Xiaobo? Come abbiamo visto, a partire dagli anni Novanta Liu Xiaobo scrive tipicamente su riviste cinesi con sede all’estero e con posizioni fortemente ostili al governo cinese; inoltre, grazie alle sue audaci posizioni pro-democratiche, riceve apprezzamenti assai diffusi da parte degli organi di stampa occidentali. Il risultato, mi pare, è che Liu Xiaobo dà davvero l’impressione, in molti casi, di scrivere avendo in mente un pubblico situato al di fuori della Cina. Lo si può intuire, credo, dal fatto che i suoi saggi sulla società cinese sono spesso molto lunghi e informativi, come se si rivolgessero a dei lettori poco addentro alle dinamiche cinesi, e hanno un tono vagamente distaccato come se contenessero un filtro a separare Liu Xiaobo dalla realtà di cui discute. Se la mia impressione è corretta, emergerebbe a mio avviso un altro paradosso. Perché, se lo scopo di Liu Xiaobo è quello di far conoscere la Cina a chi se ne interessa dal di fuori, allora con la sua critica schematica, come ho già detto, non gli rende un gran servizio. La critica ha senso e potenza, anche se eccessiva ed estremista – anzi, proprio perché eccessiva ed estremista – solo se si rivolge al bersaglio della critica, che potrà decidere, nel caso, se il critico ha ragione e se è necessario far qualcosa. Ma Liu Xiaobo, nei suoi scritti post-89, non sembra più granché interessato a dialogare con i destinatari delle sue critiche, certo anche a causa delle ragioni oggettive che abbiamo più sopra evidenziato. Facciamo ad esempio un confronto con l’intellettuale cinese con cui Liu Xiaobo sente la più forte affinità, Lu Xun. Questi, negli anni Venti, si schermiva per il fatto che “dissezionava gli altri”, adducendo come giustificazione il fatto che “ancor più spietatamente dissezionava se stesso”. Lu Xun, com’è noto, lanciava ai cinesi e alle loro cattive abitudini delle critiche feroci e assolutizzate, dal momento che, come aveva mirabilmente affermato in uno scritto giovanile, “si affliggeva per le loro disgrazie ma si infuriava per la loro passività” e voleva perciò tentare ogni mezzo per sferzarne le coscienze intorpidite. Anche Liu Xiaobo, alla fine degli anni Ottanta, lanciava critiche feroci e provocatorie che sferzavano gli intellettuali e graffiavano le ipocrisie e le vanità della nazione, tanto è vero che, guardato con fastidio dalla maggior parte degli intellettuali, egli aveva invece un largo seguito fra gli studenti di cui infiammava la generazionale ribellione libertaria. Ma dieci anni dopo, disgraziatamente, Liu Xiaobo con gli intellettuali cinesi non ha più modo di scontrarsi, né lui stesso sembra essere molto interessato a coltivare i giovani. Se in molti dei suoi scritti esalta il ruolo emergente dei movimenti popolari per i diritti, sembra farlo più che altro per divulgarne l’esistenza e dimostrarne l’influenza, piuttosto che per ispirarli, né parimenti sembra intenzionato a scrivere ai giovani per ispirarne l’ideale democratico. Così l’impressione che se ne trae è che mentre Lu Xun scriveva per risvegliare, lanciando delle “grida” dall’esterno, le coscienze addormentate dei cinesi imprigionati nella “casa di ferro”, Liu Xiaobo sembra invece voler scrivere per lanciare delle grida da dentro la gabbia in cui lui stesso è imprigionato, al fine di lanciare un s.o.s. affinché chi sta fuori dalla Cina lo raccolga. Potrei sbagliarmi, ma a me sembra che a causa della loro scarsa propensione a parlare al cuore dei cinesi, gli scritti di Liu Xiaobo non abbiano un grande potere di convincerli della bontà delle sue idee e dei suoi valori. Tendenzialmente, mi sembra piuttosto che Liu Xiaobo venga apprezzato e sostenuto per lo più da coloro che già condividono i suoi progetti democratici e sono impegnati attivamente a promuoverli in prima persona, i quali tendono a fare di Liu Xiaobo un simbolo e un portabandiera delle loro istanze.
L’ultimo paradosso, infine, è quello fra tutti più drammatico. Per una triste ironia della sorte, infatti, il periodo in cui Liu Xiaobo con maggior lena e risonanza fustigava il governo cinese per le sue tendenze repressive, era anche il periodo in cui il governo cinese, per una particolare congiuntura storica, mostrava il maggior grado di indulgenza nei confronti del dissenso e della critica sociale. Certo negli anni Duemila Liu Xiaobo continuava a vivere in una condizione di libertà vigilata, subendo ripetute molestie da parte della polizia, ma nello stesso tempo poteva comunque girare più o meno liberamente per Pechino, frequentare altri intellettuali e attivisti, usare internet, spedire i suoi articoli alle riviste di tutto il mondo e finanche raccogliere adesioni per la firma della Carta 2008, nella quale si chiedeva al Partito nientemeno che di rinunciare ai propri privilegi per condividere in modo costituzionale il potere con altre forze politiche. Subito dopo le Olimpiadi di Pechino, però, l’aria ha cominciato a cambiare, e il governo ha cominciato a ridurre gli spazi che aveva informalmente concesso, fino a quel momento, alla libertà di espressione e all’azione della società civile, mostrando nel contempo una crescente insofferenza nei confronti dei valori liberali e delle “forze ostili” occidentali che li sostenevano. È stato Liu Xiaobo, a quel punto, a pagarne il prezzo più alto, ricevendo nel 2009 una condanna esemplare a undici anni evidentemente volta a dare un messaggio non solo a chi in Cina lottava per portare più democrazia e diritti umani, ma anche all’opinione pubblica occidentale che benediceva quelle battaglie. Forse quelli che avevano assegnato a Liu Xiaobo il Premio Nobel  per la Pace, pochi mesi dopo, avevano pensato fiduciosi che il prestigio internazionale conferito dal premio avrebbe giovato alla causa della sua scarcerazione, ma si erano sbagliati di grosso: anzi, non sia mai che il premio non abbia convinto le autorità cinesi, inorgoglite dall’affermazione mondiale del loro modello di sviluppo mentre il mondo occidentale cominciava ad avvitarsi in una crisi senza fine, a gonfiare ulteriormente il petto e a far vedere i muscoli. Mostrare i muscoli, d’altronde, è diventato in seguito un tratto prominente della politica di Xi Jinping, che ha fatto tornare indietro l’orologio della tolleranza con la sua imposizione di una stretta impietosa sulla società civile, sull’opinione pubblica e sui valori “occidentali”, e sembra avere per il momento sconfessato una volta per tutte il mito della “fine della storia” derivante dal trionfo globale della democrazia liberale che lo stesso Liu Xiaobo aveva con tanta convinzione divulgato. La Cina di Xi Jinping ormai dimostra di non voler fare nessuna concessione alle pressioni occidentali, e lo si è visto con chiarezza nei giorni della malattia e della morte di Liu, in cui i leader occidentali imploravano balbettanti che Liu Xiaobo venisse mandato a curarsi negli Stati Uniti o in Germania (come se il livello della medicina, nella Cina di oggi, fosse ancora fermo al periodo dei “medici scalzi”), mentre la stampa cinese dichiarava senza alcuna pietà né simpatia umana che Liu Xiaobo era un prigioniero comune e come tale andava trattato, sostenendo che, avendo sfidato il potere dello stato, egli presto verrà dimenticato senza lasciare traccia nella storia cinese.
E così, a partire dalla constatazione della spietatezza con cui il governo cinese ha liquidato la scomparsa di Liu Xiaobo, è arrivato finalmente il momento di mettere in luce quelli che secondo me sono gli aspetti più positivi del suo pensiero, in modo purtroppo piuttosto sbrigativo data la necessità di portare rapidamente a conclusione questo saggio. In sintesi, questi aspetti coincidono a mio avviso con la forte vocazione all’interiorità che Liu Xiaobo manifesta sin dagli inizi della sua carriera e che continua a portare avanti per tutta la sua vita intellettuale fino al momento della morte. Come già ho avuto modo di osservare, in Liu Xiaobo è presente un forte impulso a scavarsi dentro, a mettersi radicalmente in discussione, a scandagliare le proprie debolezze, a confessare le proprie manchevolezze per sforzarsi di rettificarle: questo impulso, tradottosi nella sua prima stagione accademica in egocentrica volontà di potenza, con la maturità intellettuale si apre all’accettazione umile della fragilità, l’esternazione della tenerezza, la manifestazione del sentimento di pietà, come ci rivelano sotto forma di frammenti, in questo speciale di Sinosfere, le poesie che ha tradotto Nicoletta Pesaro. È in questa introspezione, in questo mettersi a nudo, in questa spasmodica ricerca della trasparenza intellettuale ed etica, in questo costante sforzo di auto-trasformazione all’insegna dell’onestà verso se stessi e gli altri, piuttosto che nel suo fondamentalismo liberale e anti-comunista, io penso, che troviamo la risposta probabilmente più feconda ai comportamenti brutali dello stato, la cui violenza, oggi, è meno il frutto di un dispotico arbitrio feudale di quanto non lo sia di un’ossessiva e unilaterale ricerca della modernità e della potenza a essa associata. Questa brutalità, ancor più che nella repressione mirata di coloro che osano sfidare il potere statale, si manifesta tipicamente, nella Cina di oggi, nel non infrequente abbruttimento che la legge cieca della competizione tende a provocare nella popolazione trascinata in una gara senza fine senza aver modo di soffermarsi a pensare sulle implicazioni esistenziali di tutto questo sforzo. In fondo il messaggio etico di Liu Xiaobo – quel messaggio che scorre costante lungo tutta la sua vita intellettuale, benché spesso sommerso dalla marea delle sue astrazioni militanti – è piuttosto semplice: per avere la democrazia occorre diventare, per prima cosa, interiormente democratici. Il che vuol dire prima di tutto imparare a guardarsi dentro, a saper scegliere con coscienza, a essere onesti con sé stessi, al fine di dialogare, onestamente, con il prossimo. Ora le aspirazioni democratiche in Cina sembrano temporaneamente congelate, addormentate sotto la coltre di nazionalismo che Xi Jinping ha gettato sulla nazione per recuperare il consenso. Molti, probabilmente, hanno in effetti già dimenticato Liu Xiaobo. Ma magari un domani, non molto in là nel tempo, ci sarà qualche giovane che si ricorderà di di lui, e dopo avere setacciato pazientemente i suoi scritti, troverà il nocciolo del suo messaggio filosofico, e contribuirà a diffonderlo.

Immagine: Liu Xiaobo in compagnia degli altri Nobel per la Pace, foto di Nicoletta Pesaro

Vita, morte e paradossi di un apostolo del liberalismo occidentale PDF

References
1 Sharom Hon, “Liu Xiaobo: A moderate, constructive, brilliant intellectual robbed of his rights and dignity to the very end”, Hong Kong Free Press, 14/7/2017.
2 Liu Xiaobo 刘晓波, “Weiji! Xin shiqi wenxue mianlin weiji” 危机!” 新时期文学面临危机 (Crisi! La letteratura della Nuova Era è entrata in crisi), Shenzhen Qingnianbao 深圳青年报, 3/10/1986.
3 Ibid.
4 Ibid.
5 Liu Xiaobo salva dalla sua esecrazione generalizzata della cultura cinese tradizionale solo Zhuangzi, di cui in verità ammira profondamente lo spirito libertario, anticonformista e critico. Considera tuttavia il taoismo piuttosto sterile come dottrina sociale perché privo di un atteggiamento assertivo rispetto all’emancipazione e all’affermazione dell’individuo sulla società.
6 Liu Xiaobo elabora le sue visioni sulla cultura e sulla società cinese, e sui valori della modernità occidentale di cui parlo nel seguente capoverso soprattutto in tre scritti, Xuanze de pipan: yu sixiang lingxiu Li Zehou duihua 选择的批判——与思想领袖李泽厚对话 (Critica della scelta: dialogo con il maître à penser Li Zehou), (Taibei: Fengyun Shidai Chuban Gongsi: 1989); Xing’ershangxue de miwu 形而上学的迷雾 (La nebbia della metafisica) (Shanghai: Shanghai Renmin Chubanshe, 1989); “Zhongguo zhengzhi yu Zhongguo dangdai zhishifenzi 中国政治与中国当代知识份子 (La politica contemporanea e gli intellettuali cinesi contemporanei) (Taibei: Tangshan chubanshe, 1990).
7 Liu Xiaobo 刘晓波, “Dui ren de beiju de jieshi: shiyu beiju, zhongyu beiju” 对人的悲剧的解释——始于悲剧,终于悲剧  (Una spiegazione della tragedia umana: tragedia, dall’inizio alla fine), 1987.
8 È un’osservazione fatta da molti, fra cui Woei-Lien Chong, nel saggio “The Tragic Duality of Man: Liu Xiaobo on Western Philosophy from Kant to Sartre”, in A.J. Saich e K.W. Radtke (a cura di), China’s Modernisation: Westernisation and Acculturation, (Stuttgart: Steiner Verlag, Münchener Ost-Asiatische Studien, 1992), 111-163.
9 La più famosa di queste sparate, fatta in un’intervista a una rivista di Hong Kong nel 1988 e mai ritrattata, è quella che la Cina, per poter cambiare davvero, avrebbe bisogno di essere colonizzata per trecento anni. Tale dichiarazione ha contribuito ad alienare a Liu Xiaobo molte simpatie, anche fra coloro che potevano condividere in parte i suoi ideali democratico-liberali, e in seguito è stata brandita come una clava dal governo cinese per dimostrare il presunto antipatriottismo di Liu.
10 Liu Xiaobo, “Manifesto dello sciopero della fame del 2 giugno”, in Monologhi del giorno del giudizio (Milano: Mondadori, 2011), trad. it. di Valeria Varriano, 211-217.
11 Ibid.
12 Geremie Barmé, “Confession, Redemption, and Death: Liu Xiaobo and the Protest Movement of 1989”, in George Hicks (a cura di), “The Broken Mirror: China After Tiananmen” (London: Longmans, 1990), 52-99.
13 Questi schemi risultano particolarmente chiari in due saggi pubblicati nel volume Monologhi del giorno del giudizio (Milano: Mondadori, 2011): “Cambiare il sistema politico attraverso il cambiamento sociale”, 16-23 (originariamente pubblicato su Guancha 观察 il 26 febbraio 2006) e Il neoilluminismo dell’era della riforma: l’esempio del muro della democrazia, 24-32 (originariamente pubblicato su Zhengming 争鸣 il 15 giugno 2008).
14 Liu Xiaobo 刘晓波, “Geren ziyou zai Zhongguo jinxiandai de quexi” 个人自由在中国近现代的缺席 (L’assenza della libertà nella prima modernità cinese),  Guancha 观察 e Epoch Times 大纪元, 12/3/2007.
15 Liu Xiaobo 刘晓波, “Ziyou: renxing, wenhua he zhidu de yuandian. Du Hayeke de ‘Ziyou xianzhang’” 自由:人性、文化和制度的元点——读哈耶克的《自由宪章》(Libertà: l’origine dell’uomo, della cultura e delle istituzioni. Una lettura de La società libera di Hayek), 1998.
16 Ibid.
17 Liu Xiaobo 刘晓波, “9/11 si zhou nianji” 9•11四周年祭 (Quarto anniversario dell’Undici Settembre) Guancha 观察, 12/9/2005.
18 Daniel Vukovic, China and Orientalism: Western Knowledge Production and the PRC, (London and New York: Routledge, 2012). Naturalmente questa narrazione liberale negli ultimi anni è stata messa in forte discussione a causa della persistente crisi delle democrazie occidentali e dall’ascesa mondiale della Cina divenuta più assertiva nel difendere l’eccezionalismo cinese sotto Xi Jinping.
19 Liu Xiaobo 刘晓波, “Zhongguo ziyouzhuyi de dangdai kunjing” 中国自由主义的当代困境 (La crisi del liberalismo cinese contemporaneo), Human Rights in China 人与人权, 20/4/2007.
20 Liu Xiaobo 刘晓波, “Ziyou: renxing, wenhua he zhidu de yuandian. Du Hayeke de ‘Ziyou xianzhang’” 自由:人性、文化和制度的元点——读哈耶克的《自由宪章》(Libertà: l’origine dell’uomo, della cultura e delle istituzioni. Una lettura de La società libera di Hayek), 1998.
21 Liu Xiaobo, “Zhu (Zhongguo) de zhexue” 猪(中国)的哲学 (La filosofia del maiale – e della Cina). Boxun 博讯, 30/4/2002