A Yi 阿乙 (1976-), nome di penna dello scrittore Ai Guozhu 艾国柱, scrive spesso di crimini, ma definire le sue opere storie criminali, gialli o polizieschi, costituirebbe un’affermazione falsa e forviante, oltre che un torto agli intenti dell’autore. La devianza – solitamente, appunto, quella del reo – è sì ingrediente immancabile nei suoi lavori, ma non col fine di aderire a un genere. Da un lato, infatti, il mondo della legge e delle sue infrazioni è la materia che A Yi, avendo lavorato per cinque anni come poliziotto, meglio conosce; dall’altro, l’eccezionalità, le anomalie e gli imprevedibili che vanno in scena sul palco del crimine ben si adattano, spiega l’autore stesso, a esprimere quei significati (o anche quei vuoti di significato) su cui la vita quotidiana difficilmente offre occasione di riflettere. Ed è dunque alla luce delle sue conoscenze personali, e degli stimoli riflessivi insiti nel crimine, che la devianza dei rei diviene il tema preferito di A Yi.

A Yi non studia per diventare romanziere, ma si avvicina alla scrittura da autodidatta. Nato a Ruichang, città-contea della provincia del Jiangxi, la cui realtà rurale e periferica è spesso sfondo delle sue storie, A Yi lega al luogo natio un senso di confinamento, di limitatezza e di mediocrità. È qui che, anziché l’ambita università, frequenta l’Accademia di Polizia, per poi iniziare a lavorare come poliziotto e funzionario; fino al fatidico giorno in cui, come spesso racconta nelle interviste – e come ricorda anche un suo personaggio – una partita a carte gli rivela l’insulsaggine della propria vita, spingendolo a una svolta.

Rompendo col volere del padre, nonché col nomen omen che lo avrebbe voluto “Guozhu国柱, ovvero “pilastro del Paese”, A Yi, lettore vorace e ammiratore di autori come Dostoevskij, Kafka, Borges e Camus, decide di provare a fare delle parole – che già era abile a inanellare per i discorsi dei suoi superiori – un vero e proprio mestiere. Più che l’impiego come giornalista sportivo, o il lavoro di editing svolto per la rivista letteraria Tiannan 天南 (Chutzpah), il punto di partenza della sua carriera come autore di fiction è senz’altro il blog che inizia nel 2004, e a cui seguirà, quattro anni più tardi, la prima pubblicazione cartacea.

Il libro s’intitola, in modo del tutto appropriato, Hui gushi 灰故事 (Storie grigie), ed è una raccolta di trenta racconti, in cui già si evince la passione di A Yi per lo sperimentalismo e la letteratura pura, così come la sua predilezione per toni e argomenti “grigi”, ovvero per quegli accadimenti in cui l’essere umano rivela i suoi lati più inammissibili. Tra i testi maggiormente rappresentativi di questo primo volume figura il racconto qui proposto, “Adidasi” 阿迪达斯 (Adidas).

La seconda raccolta di racconti, pubblicata nel 2010, prosegue nel solco della sperimentazione formale e tematica della precedente. Il libro, intitolato Niao, kanjian wo le 鸟,看见我了 (Un uccello mi ha visto), prende il nome da una delle dieci novelle raccolte, in cui l’uccello in questione è testimone oculare di un omicidio e il racconto si sviluppa per giustapposizione di diverse narrazioni omodiegetiche.

Niao, kanjian wo le è presto seguita dalla pubblicazione di Guaren 寡人(Noi, 2011), una raccolta di aneddoti autobiografici, osservazioni e riflessioni, con cui l’autore esprime la propria visione del mondo contemporaneo, dai due romanzi Xiamian, wo gai gan xie shenme 下面,我该干些什么 (E adesso?) e Mofan qingnian 模范青年 (Il giovane modello), entrambi usciti nel 2012, e dalla raccolta di racconti Chuntian zai nali 春天在哪里 (Dov’è la primavera?), datata 2013.

La figura della donna quale incarnazione o tramite di una fascinazione deleteria, il tema del divario economico-culturale che permane fra città e aree rurali, sono elementi che caratterizzano la produzione di A Yi, a partire da “Adidas”, e dalle altre primissime “storie grigie”, sino a quelle raccolte nel suo libro più recente, Pianzi laidao nanfang 骗子来到南方 (Il truffatore è arrivato a sud, 2021).

 

Uno. Una rapina bizzarra.

Non so bene da dove iniziare questa storia, ma partiamo dalla stazione di polizia provinciale di via Qiushan. Il poliziotto teneva Li Xiaoyong per la collottola e lo accompagnava con parole taglienti: “Sai che i tuoi genitori avrebbero potuto comprarteli senza problemi? Sai che così sarai espulso?” Li Xiaoyong tremava e annuiva, versando lacrime amare.

Stando al proprietario del negozio dell’Adidas, il ragazzo, che sin dall’inizio avrebbe mostrato cattive intenzioni, si era aggirato tutto il pomeriggio a tastare questo e quel vestito, e infine, non avendo trovato l’occasione per mettere a segno il suo colpo, ne aveva preso uno ed era scappato via. Ma era stato visto da tutti, e due o tre persone erano riuscite a fermarlo. Invece, stando al resoconto di Li Xiaoyong, la sua intenzione inizialmente era solo quella di sentire fra le mani il vestito in questione. Più lo toccava, però, più se ne era infatuato, e il desiderio di possederlo era diventato tale da farlo uscire di senno.

Quando Li Xiaoyong era stato portato alla stazione,  l’agente stava leggendo i Racconti scelti di O. Henry, chiedendosi se fossero in realtà una ristampa de Il poliziotto e l’inno. Col Ventunesimo secolo, la stazione di polizia era diventata un cesso pubblico, piena di morti di fame e disperati messi alle strette dalla malavita, che trascorrevano le giornate alla stazione per aver sgraffignato qualcosa o schiaffeggiato qualcuno.

Ma quel caso sembrava diverso, e Li Xiaoyong era così terrorizzato dalla pena che lo aspettava che sarebbe stato pronto a sbattere la testa fino a farsela sanguinare, purché i poliziotti lo lasciassero tornare a studiare. “Sapendo che sarebbe andata così,” disse l’agente, “avresti agito in modo diverso?”

Li Xiaoyong esitò; non sapeva come rispondere.

 

Due. La confessione di Li Xiaoyong.

Vengo da una famiglia molto povera. La nostra casa di terra è sorretta da una trave di legno, ma non so quanto tempo durerà ancora, e ogni volta che piove ho paura che i miei possano morirvi schiacciati… Lei ha ragione, sono stato egoista; sono entrato all’università e ho succhiato le risorse dei miei sino al midollo, sicché non si sono mai potuti permettere di costruire una vera casa.

Mio padre pianta il riso in primavera e lo raccoglie in autunno; d’estate si taglia i capelli, e d’inverno prepara il carbone. Ha un bel da fare a vendere quel suo carbone, perché per raggiungere le città dove ha smercio, gli tocca scalare tre montagne e scarpinare per trenta miglia. Alle volte gli dicono che il suo carbone brucia bene, e così torna indietro a farne altro e, con quello in spalla, riparte per posti ancora più distanti. I primi tempi speravo sempre che tornasse a casa con qualcosa, ma lui sosteneva che il mondo di fuori non fosse meglio del nostro, che la gente indossasse vestiti più scadenti, e mangiasse meno di noi, avendo giusto un po’ di zucchero e sale. E mia madre, arrivata in montagna solo col matrimonio, confermava che le cose stavano effettivamente così, ovvero che la gente moriva di fame anche nel resto del mondo.

A quel tempo ero piccolo, e non immaginavo che al di là del nostro mondo potesse esserci altro. Pensavo che tutto il cielo fosse racchiuso fra quattro monti, e le fumate del carbone bruciato che si alzavano dalle cime mi sembravano già distantissime… Ovviamente conoscevo Tiananmen, la radiosa Tiananmen, su cui fa capolino il ritratto del presidente Mao. Ma non mi servirono grandi studi per capire che il ritratto di Mao, come le immagini del Bovaro e la Tessitrice1)La leggenda narra la storia d’amore fra un umile bovaro e un’eccellente tessitrice, nipote dell’Imperatore del Cielo, la quale, scesa fra i mortali, sposa l’uomo e ha con lui due figli. Divisa, tuttavia, per volere della Regina Madre, la coppia otterrà il permesso di ricongiungersi una sola volta l’anno, il settimo giorno del settimo mese lunare, giorno in cui in Cina ricorre infatti la Qixijie, ovvero la festa degli innamorati., erano tutti miti, in fin dei conti, cose che non esistevano. Quando terminai il quinto anno di scuola, mio padre chiese a un vecchio di scrivermi cinque caratteri. Io li riconobbi tutti, al che lui disse che poteva bastare, e anch’io allora ne ero convinto. Se adesso fossi ancora a casa a fare il contadino, mi sarei dimenticato anche quei pochi caratteri – del resto anche una zappa, se non usata, finisce per arrugginire.

Alle volte penso anche che, se adesso fossi un contadino, avrei senz’altro i calli alle mani e il viso abbronzato, al tramonto tornerei a casa con un secchio d’acqua appeso al bilanciere, ma ne rovescerei mezzo prima ancora d’arrivare. Lo penso sul serio, signore, io lo so che non è affatto facile.

Se fossi un contadino, mi coricherei al calar del buio e vivrei tutta la vita nello stesso posto. Una volta lessi un libro di Zhang Ailing, in cui diceva che lei non si sarebbe suicidata, né avrebbe fatto rumore, si sarebbe semplicemente lasciata appassire. Ecco, io farei la stessa fine. Nelle notti di campagna, in cui non s’ode altro che l’abbaio dei cani, mi lascerei appassire, e poi, come tutti i miei avi di cui non è rimasta traccia, sparirei sepolto sul monte.

Signore, la prego, non mi faccia tornare in quel posto.

 

Tre. La rovina di Li Xiaoyong.

Le dirò di più. Finché non ho iniziato a studiare, sono stato felice. I miei coetanei al villaggio, diplomatisi come me, erano tutti gloriosamente tornati a fare il bagno nel fiume, dove restavamo ammollo tutto il tempo che volevamo, finché la pelle raggrinziva. Alla sera, torce alla mano, andavamo a caccia di rane, che, abbagliate dalla luce, sgranavano gli occhi istupidite e si immobilizzavano. Noi allora le sollevavamo per una zampetta e, facendole dondolare, ne sollecitavamo un gracidare sommesso. Il villaggio però non restava mai senza rane, perché alla fine le liberavamo. Soltanto all’università scoprii che si potevano mangiare, ma io non ne mangiai mai, non potevo permettermele.

A quel tempo ci divertivamo un mondo, potevamo mettere i calzoni, come anche non metterli, potevamo alzarci o anche stare a letto, se ci imbattevamo in qualche cane sfortunato, gli incendiavamo la coda con un fiammifero e, se trovavamo dello sterco di mucca, lo facevamo esplodere con un petardo. Non credevo che al mondo potesse esistere qualcosa di più divertente, ero un povero ignorante…

Poi, un giorno, vidi una donna.

E fu lei la mia svolta.

Ovvero, la mia rovina… Signore, la prego, faccia che non sia la mia rovina!

Il giorno che la vidi era Capodanno ed ero andato a portare gli auguri in un villaggio vicino, che si trovava a cinque miglia dal mio. Inizialmente non avrei avuto intenzione di andarci, perché per strada nevicava, e lo zio che andavamo a trovare non era un mostro di simpatia, ma mio padre mi avrebbe preso a bastonate, e così, pur brontolando fra me, ero stato costretto ad andare. Per tutto il tragitto verso casa dello zio non avevo fatto che pensare a come trangugiare in fretta le tortine di riso, sbrigarmi a tornare indietro e andarmene a giocare a carte con quelli del mio villaggio.

A quel tempo la casa dello zio era già mezza cadente, rappezzata qua e là con la tela cerata, ed io, affatto tranquillo, mangiavo osservando la neve che, attraverso gli spifferi, s’insinuava all’interno. Le case di quel villaggio erano tutte così, non ce n’era una intera. La migliore era quella del capovillaggio; dicevano che avesse i soldi, ma in realtà non aveva fatto altro che inserire qualche pannello di vetro, giusto per venire incontro al gusto della nuora straniera.

Al tempo non avevo idea di come fosse lo stile straniero; lo collegavo soltanto alla cipria sul volto, al portare un cappello, alla pelle candida… Ma quando, mentre ero ormai sulla via di casa, vidi quella donna, mi sentii mancare. Le giuro, mi mise letteralmente fuori gioco.

Se ne stava seduta su uno sgabello fuori dalla porta e piluccava arachidi in modo stravagante, mangiando metà di ciascun seme e gettandone l’altra metà. Eppure a colpirmi non fu questo, né il suo viso e neppure il suo corpo, ma i vestiti che indossava… Non avrei mai immaginato che al mondo esistessero abiti simili.

Non avevo mai visto una maglia con una striscia bianca che correva lungo la manica. Al limite, avevo visto le toppe.

Non avevo mai visto un girocollo, soltanto maglie senza colletto o a collo quadrato.

Non avevo mai visto abiti rosso bandiera, solo stoffe azzurre come cieli spiegazzati.

Non avevo mai visto una cerniera, solo bottoni che puntualmente saltavano.

Non avevo mai visto vestiti con le scritte bianche, soltanto disegni di peonie.

Tutto ciò che non avevo mai visto lo vidi in quel momento. Rimasi lì sbalordito, mentre la neve scendeva, appoggiandosi sulle mie ciglia. Poi mi accorsi confusamente che la donna stava salutandomi con la mano – pareva quella della Bodhisattva Guanyin. Io allora la raggiunsi, e fu così che tutto ebbe inizio.

Con la testa avvolta in un panno da malata e un ghigno sul viso, non sembrava del tutto normale. “Sai cos’è questa?”, disse sorridendo e indicandosi i vestiti. Non avendone idea, scossi la testa. “Te lo dico io,” fece lei, continuando a sogghignare, “è roba dell’Adidas. Vedi queste lettere? A – DI – DAS… Lo sai cos’è l’Adidas? Io feci nuovamente no con la testa. “Bene,” sospirò, “d’ora in poi lo saprai.” Poi sospirò ancora e si corresse, “Anzi no, non saprai un bel niente. Dovrai studiare per saperlo.”

Non dissi nulla, ma, guidato da un’oscura forza, mi sorpresi a protendermi per toccare quei vestiti. Lei ne fu un po’ stupita, ma lo accettò di buon grado. Ancora oggi non dimentico la sensazione di quel tocco – fu come palpare il seno di una giovane madre, accarezzare l’erba primaverile, sfiorare l’acqua silenziosa, e il pesce in quell’acqua. La mia pelle prese a vibrare e, come attraversato da una serie di scariche elettriche, scoppiai finalmente a piangere.

Anche al negozio dell’Adidas stavo quasi per piangere. Conoscevo ormai bene quella consistenza setosa, che ritrovavo ogni notte, quando le mie dita – quasi dita di donna, musicista, o Bodhisattva – sfioravano con dolcezza quei drappi morbidi. Indugiavo a lungo nella freschezza promanata da quei vestiti, e mentre i miei polmoni si espandevano, i miei occhi brillavano e i miei pori, come minuscole finestrelle, si schiudevano uno dopo l’altro, mi sentivo come se stessi bevendo acqua fresca in un mezzogiorno estivo. Quei filati, quei gomitoli che agitavano i pugnetti tutti insieme, mi chiamavano a gran voce, invitandomi a toccare, accarezzare, sentire, esperire… È così che sono andate le cose. Al negozio specializzato ero immerso in tutto questo. Forse lei non ha mai provato una sensazione del genere, sa, divenne quasi un incubo… Mi immaginavo che un feroce paio di forbici potesse tagliuzzare quella stoffa fino a ridurla in brandelli, e ovunque sentivo il suo spietato zac-zac! A volte nei miei sogni ero solo – non c’erano villaggi, né donne, né vestiti – e, rivolto a strisce di stoffa sparse per terra, piangevo lacrime inconsolabili.

Era un tormento pari a una pena d’amore.

Iniziai a essere insicuro, a vergognarmi – la mia vita divenne un inferno. Era questa la ragione per cui menavo le mani notte e giorno; mio padre mi picchiava perché non andassi a scuola, e quando non mi picchiava lui, ero io a picchiarlo, per quanto sapessi di non poterlo sconfiggere. Il cuore traboccante d’odio e i denti digrignati, lo menavo per davvero, sperando di poter capitolare insieme a lui, al suo terilene blu e al nostro villaggio.

“Perché diamine non sono nato in Europa o a Hong Kong?!”, gridavo. “Sei nato qui perché sì, sei cresciuto qui perché sì, e morirai qui perché sì!”, ribatteva mio padre, esasperato, “Ti ammazzerò io, puoi giurarci, un giorno o l’altro ti ammazzerò di botte.”

Quando per poco non ci riuscì, mia madre si prese la testa fra le mani e la sbatté contro il muro. La botta non la uccise, ma senz’altro svegliò fuori mio padre, che finalmente si acquietò, prese a sospirare, smise di alzare le mani, e quasi non si riebbe mai più dalla fatica… Sono stato egoista, ed egoista è dir poco… Adesso ascolto sempre le previsioni meteo, perché ho il terrore che la pioggia possa distruggere la loro casa, che i miei possano morire sepolti nel crollo. È colpa mia, tutta colpa mia.

 

Quattro. L’improvvisa fine di una vita di continua lotta.

Successivamente i miei si erano recati al villaggio vicino a cercare quella donna, e avevano iniziato a insultarla ancor prima di raggiungerne la porta. “Smettetela di insultarla,” li aveva  redarguiti la suocera, “è pazza.” “Ma i pazzi vanno tenuti sotto controllo,” disse mia madre senza lasciarsi intenerire: “o finiranno per confondere i giovani e rovinarli!” In quel momento l’intero villaggio scoppiò a ridere, e la suocera della donna, prendendola per un orecchio, la obbligò a inchinarsi davanti ai miei.

Col tempo venni a sapere alcune cose su di lei; pazza la era senz’altro, altrimenti non avrebbe mai accettato di finire in quel misero villaggio. Ma credo che il giorno in cui la vidi fosse tutto sommato normale, perché mi aveva dato una pacca sulla spalla e aveva detto: “Smettila di toccare, studia piuttosto. Soltanto così potrai andartene da questo villaggio e da questa contea, raggiungere la città, il capoluogo, Pechino, Hong Kong, l’America… Questi vestiti sono fatti proprio in America, ma arrivano da Hong Kong. Sai come ci si va, in America? In aereo. E sai quanto ci vuole? Un giorno intero. E sai quanti miglia si fanno in un giorno di volo? Centottomila.”

E fu così che mi avvelenò, senza arrossire, senza affannarsi, senza bisogno di tante parole – senza sembrare una pazza. Io restai lì a mani vuote, divorato dallo sconforto. Sentivo che dovevo andarmene, ma non ci riuscivo; sapevo di poter restare, ma che non era cosa. Esitai. Piano piano, ebbi l’improvvisa visione di un mondo vastissimo, la cui maestosità mi lasciava affascinato e sbalordito. Pareva l’incombere di un’alluvione.

Poi lei mi scosse con una mano, e solo allora, riavendomi, me ne andai. Per strada ero come quegli uomini spediti in Siberia per la rieducazione tramite lavoro forzato – mi mancavano i miei cari, il mio paese natio, mi sentivo sottratto  a tutto ciò che amavo. Nevicava, e lentamente mi accorsi che a fluttuare in cielo erano proprio i vestiti rossi. Ridiscesero piano piano, restando ovunque appesi ai rami delle piante. Dai vestiti sbucavano teste sconosciute, che parlando avevano la stessa cadenza di quella donna folle, e si esercitavano a scrivere “Adidas”, “Adidas”…

“Adidas, Adidas…”, si chiamavano tra loro con affetto, trascurando di salutarmi.

Mi creda, signore, i miei studi sono stati una faccenda molto difficile – hanno esaurito le mie forze, prosciugato i seni di mia madre e il sangue di mio padre.

Ma passiamo oltre. Mi ricordo che quando entrai alle scuole medie per la prima volta, e sulle pareti imbiancate del campus trovai una mappa del mondo, fui sopraffatto dall’emozione. Come diceva la pazza, al cospetto della campagna che mi si parava davanti, delle città, delle metropoli, delle megalopoli, della capitale, di Hong Kong, dell’America, dell’oceano – l’oceano sconfinato, costellato di eventuali mercantili –, non ero che un punto minuscolo, infinitesimale. Quelle navi, compassi che tracciavano i loro cerchi, mi facevano sentire insignificante.

Non sapevo quanta forza avessi, ed ero molto infelice. Alla fine, portando una mano sulla mappa, mi dissi che il capoluogo di provincia era solo a mezzo dito medio di distanza, Pechino a due dita, Hong Kong a un polso e l’America a non più di un braccio. “È un prodigio,” avrebbe poi detto il nostro insegnante durante un banchetto, “questo ragazzo ha la stoffa dell’imperatore!”.

Mai si sarebbe immaginato che stavo solo inseguendo un vestito.

Un giorno, pensavo, mi sarei laureato, a poco a poco avrei fatto carriera, e finalmente avrei potuto vestire Adidas ogni giorno. E non solo io, anche mia moglie e i miei figli; di generazione in generazione avremmo tutti indossato Adidas. Il nostro insegnante aveva detto che avevo la stoffa dell’imperatore, e in effetti una cosa con gli imperatori l’avevo in comune: il desiderio di possesso. Loro desideravano possedere il paese, mentre io ambivo a possedere un vestito. Quel vestito era il mio paese e il simbolo della mia vita – se fosse stato prodotto sulla Luna, sarei andato sulla Luna; fosse stato fatto su Marte, sarei andato su Marte.

Ero pronto a scalare montagne di lame e a immergermi in mari infuocati pur di raggiungerlo.

Ma ho commesso un errore, signore. Ho trasgredito l’antico precetto che invita a “ottenere ciò cui ambisci seguendo vie lecite”, e me ne sono amaramente pentito…

Raggiunto il banco di registrazione, all’università del capoluogo, iniziai subito a chiedere dell’Adidas. Risero di me, quasi fossi un pezzente che ambiva a vesti imperiali, e non mi risposero nemmeno. Forse neppure loro ne sapevano granché; qualcuno disse che conosceva solo Afanti, ovvero Effendi, un leggendario eroe uiguro. Dopo tre mesi di ricerche, mi convinsi che nel capoluogo non esistesse alcun negozio Adidas e che avrei potuto proseguire la mia caccia solo qualora fossi stato ammesso per la laurea specialistica a Pechino… Finché proprio oggi pomeriggio, proprio qui, in via Qiushan, ho scorto quelle lettere inconfondibili: ADIDAS.

Prima di entrare in negozio, pietrificato dal terrore, mi sono attardato fuori senza osare entrare. Mi sentivo sporco, scompigliato, miserabile, mentre all’interno era tutto perfetto e immacolato come un paradiso. Anche i vestiti mi sembravano diversi, non somigliavano affatto a quello che vidi anni fa. Sono rimasto lì in piedi per un pezzo, poi il mio occhio interiore si è schiuso, ed ecco gomitoli e filati che mi chiamavano coi loro minuscoli pugnetti. Era un invito ad avvicinarmi e toccarli; tastandoli, avrei capito…

Ho inspirato profondamente, sono entrato tutto timoroso e sono andato a toccarli. Un commesso, ho notato, mi sbirciava di sottecchi, tradendo una certa irritazione. Determinato a non desistere, però, ho lasciato la mia mano sui vestiti, e la sensazione è stata identica a quella provata anni fa: i miei pori si sono aperti uno dopo l’altro, facendo entrare una brezza rinfrescante. Dalla felicità – ma anche dall’amarezza – mi veniva da piangere. Fantasticavo di avere soldi a palate e di poter acquistare l’intero negozio, inclusi i commessi vestiti Adidas… Ma tutto quello che vedevano loro erano le mie scarpe di tela che gridavano vendetta e i pantaloni rattoppati. La mia innegabile miseria e la loro atroce ostilità mi fecero sprofondare nell’imbarazzo.

Avevo tutta l’intenzione di andarmene, ma il desiderio di possesso che covavo in cuore era più forte di me.

“Desiderio di possesso”. Chi ha inventato quest’espressione è stato un genio. Proprio come un lupo famelico che desidera una donna, o un proprietario terriero che ambisce al denaro, sentivo questa forza dentro, che mi spingeva a possedere quel vestito o, non potendo farlo mio, a toccarlo il più possibile.

Mentre prendevo la mia decisione, ho pensato ai miei che dormivano innocenti nella loro casa di terra, destinati prima o poi a morirvi soffocati, e il naso ha iniziato a pungermi di lacrime… Ora come ora mi è difficile descrivere lo stato mentale in cui mi trovavo – ero insieme imbarazzato e smanioso, infuriato e senza alcuna vergogna.

Come un tossicodipendente pronto al furto, mi sono avvicinato lentamente e, a pugni chiusi, ho abbracciato un vestito. L’ho lisciato a più riprese, quasi stessi strofinando la pelle di un neonato, poi ho sentito una voce che mi chiamava, e così ho aperto bene le cinque dita, ho agguantato la stoffa e, stringendo il capo come una sciarpa di seta, me la sono data a gambe.

Mentre scappavo, correvo così forte che il vento mi fischiava nelle orecchie, e gli alberi lungo la strada sembravano arretrare rapidamente. In realtà però ero così agitato che la mia corsa era come una fuga da incubo: per quanto corressi, non mi spostavo di un solo passo. Catturarmi è stato un gioco da ragazzi.

Del resto, non appena ho realizzato di possedere quel vestito, sono come crollato.

 

Cinque. Ulteriori dichiarazioni da parte di Li Xiaoyong.

Signore, se non mi grazia, dovrò tornarmene a quella campagna, a quei campi, a quel fiume, a quel cimitero. E là finirò per essere seppellito…

Signore, sono stato accecato dall’avidità, da giovani molte cose non si capiscono, vorrei chiedere perdono ai miei, scusarmi con lei… Ma non posso tornare indietro così! Se mi presento così, ce l’avranno a morte con me, si arrabbieranno senz’ombra di dubbio, e se non moriranno loro, sarò io a morire…

Signore, non ho preso nulla, io non ho rubato nulla…

Se faccio il nome di qualcun altro, signore, potrei ottenere uno sconto di pena?

Ha presente la donna di cui le parlavo, signore? Quella che indossava roba dell’Adidas e canticchiava in inglese… Mia madre dice che è stata vittima del traffico di spose! Veramente, qualche volta ha tentato di scappare, ed è diventata matta a furia di botte.

Traduzione, note e introduzione a cura di Martina Renata Prosperi.

 

Immagine: Lo scrittore cinese A Yi (Dr), fonte

A Yi Adidas PDF

References
1 La leggenda narra la storia d’amore fra un umile bovaro e un’eccellente tessitrice, nipote dell’Imperatore del Cielo, la quale, scesa fra i mortali, sposa l’uomo e ha con lui due figli. Divisa, tuttavia, per volere della Regina Madre, la coppia otterrà il permesso di ricongiungersi una sola volta l’anno, il settimo giorno del settimo mese lunare, giorno in cui in Cina ricorre infatti la Qixijie, ovvero la festa degli innamorati.