Da questo assaggio preliminare dell’immaginazione straordinaria di Erbe selvatiche, si comprende l’eccezionalità dell’opera e il posto speciale che essa occupa fra i lavori di Lu Xun.1)La seguente è la settima lezione contenuta nel volume Quindici lezioni sulle opere di Lu Xun di Qian Liqun (Lu Xun Zuopin shiwu jiang 鲁迅作品十五讲 (Beijing: Beijing Daxue chubanshe, 2003, 116-136). Tutte le traduzioni delle citazioni tratte dai componimenti di Erbe selvatiche, da altre opere di Lu Xun e da altri autori sono mie [N.d.T.]

L’autore spiegò ai suoi giovani amici che quest’opera ha due livelli di significato; uno consiste nel fatto che, come ricorda Zhang Yiping, «[…] la sua filosofia è tutta compresa nel suo Erbe selvatiche»;2)Zhang Yiping 章衣萍, Gumiao zatan (wu) 古庙杂谈(五) [Chiacchiere dell’antico tempio (5)], originariamente pubblicato in Jingbao fukan 京报副刊 il 31 marzo 1925, citazione da Zhang Yiping: suibi sanzhong ji qita 章衣萍集:随笔三种及其他 [Zhang Yiping: tre tipi di saggi e altri] (Shanghai: Hanyu da cidian chubanshe, 1993), 93. l’altro è quello esposto da Lu Xun in una lettera a Xiao Jun: «Erbe selvatiche è pervaso da un avvilimento eccessivo, perché l’ho scritto dopo aver battuto la testa contro molti muri. Spero che tu ti distacchi dalla sua influenza avvilente».3)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 12, Shuxin·341009·zhi Xiao Jun 书信·341009·致萧军 [Epistolario, 341009, A Xiao Jun], 530. Da un lato sottolinea che in Erbe selvatiche c’è la sua «filosofia», dall’altro spera che i giovani «si distacchino» dal suo influsso. Come intendere quella che sembra una contraddizione?

Vediamo prima come Lu Xun considera i suoi scritti:

Ciò che dico spesso è diverso da ciò che penso, […] ciò che immagino per me è diverso da ciò che immagino per gli altri. Il motivo è che siccome i miei pensieri sono eccessivamente oscuri, e in più non si può sapere se sono giusti, allora posso solo sperimentarli su me stesso, non oso invitare altra gente.4)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 11, Liang dishu·Diyi ji·Ersi 两地书·第一集·二四 [Due terre, Parte prima, 24], 79-80.

I lettori che prediligono i miei lavori talvolta commentano dicendo che i miei scritti dicono la verità. A dire il vero è un complimento eccessivo, dovuto alla loro preferenza nei miei confronti. Io non intendo, naturalmente, ingannare la gente, ma nemmeno ho detto sempre, fino in fondo, tutto ciò che ho nel cuore; in linea di massima, mi basta che il lavoro sia consegnabile per considerarlo finito. Certo, spesso disseziono gli altri, ma più spesso e ancor più spietatamente lo faccio con me stesso, e quando ne pubblico un po’, gli appassionati di calore umano subito lo trovano freddo e insensibile; se mi rivelassi fin nell’intimo dell’animo, non so proprio come andrebbe a finire. Allora a volte penso anche di allontanare gli altri da me: a quel punto, quelli che rimarrebbero senza avermi a sdegno, fossero pure dei mostri, sarebbero comunque miei amici, amici veri. E se non ci fossero nemmeno quelli, starei bene anche da solo.5)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Xiezai “Fen” houmian 写在《坟》后面 [Scritto dopo «La tomba»], 283-284.

Le dichiarazioni di Lu Xun ci avvertono di fare attenzione al fatto che, da un lato, egli si impegna a trattare la vita umana con onestà e coraggio, a esprimere se stesso in modo autentico, mirando a quella libertà di scrittura in cui «si scrive senza remore ciò che si vuole scrivere»; dall’altro però, non può scrivere e parlare senza farsi alcuno scrupolo, senza trattenersi un po’, senza celare qualcosa; questo perché vede lucidamente che la Cina contemporanea «non è ancora un’epoca di sincerità e di autenticità»6)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 6, Wo yao pianren 我要骗人 [Io inganno], 488. e, allo stesso tempo, dubita profondamente persino dei propri pensieri più intimi. In un certo senso, si può dire che Lu Xun scrive nel tentativo contraddittorio di mostrare e celare, dire e non dire: è esattamente tra manifesto e nascosto, detto e non detto che si realizza il vero Lu Xun. Pertanto, leggendo le sue opere, bisogna fare attenzione a quello che ha suggerito il suo caro amico giapponese Wataru Masuda: «I lati di sé che egli mette in rilievo all’esterno non sono il vero Lu Xun; per lo meno, non corrispondono a Lu Xun nella sua totalità e, sebbene costituiscano certo la parte maggiore, bisogna sapere che egli aveva anche delle parti profonde che non metteva in mostra fuori di sé. Lui stesso distingueva chiaramente gli aspetti da mettere in rilievo all’esterno e gli aspetti da non mettere in rilievo all’esterno».7)Zeng Tianshe 增田涉, Lu Xun de yinxiang·Siliu·Lu Xun de maodun yu suochu de Zhongguo shehui 鲁迅的印象·四六·鲁迅的矛盾与所处的中国社会 [L’impressione di Lu Xun, 46, Le contraddizioni di Lu Xun e la società cinese], in Lu Xun huiyi lu “zhuanzhu” 鲁迅回忆录“专著” [Memorie di Lu Xun. “Monografie”], Vol. 2, 1431. Ma quali sono questi aspetti da mettere o non mettere in rilievo all’esterno? «Benché i suoi pensieri siano prevalentemente oscuri, tuttavia la guida che lei fornisce ai giovani è, sotto ogni aspetto, tutt’altro che arrendevole, pessimistica, disperata»8)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 11, Liang dishu·Diyiji Beijing·Wu 两地书·第一集北京·五 [Due terre, Parte prima: Pechino, 5], 23.: in base a quest’affermazione di Xu Guangping, che conosceva profondamente Lu Xun, gli «aspetti da non mettere in rilievo all’esterno» sono principalmente quei pensieri, menzionati nelle prime due citazioni, «eccessivamente oscuri» e «freddi» che spesso lo assillavano. Non mettere in rilievo, naturalmente, non significa non dire: questa esperienza di vita “oscura” e “fredda” è implicita in numerose opere di Lu Xun; tuttavia, è in Erbe selvatiche che compare in maniera alquanto centrale, e quando Lu Xun dice che la sua filosofia è tutta in questa raccolta, sottolinea proprio questo. Ma si tratta di un’opera pensata e scritta «per me stesso» e non «per gli altri»; essa è l’esperienza esistenziale di un “individuo solitario” e si affronta «allontanando gli altri», da solo. Per questo lui spera anche che i giovani si «distacchino» dalla sua influenza: Lu Xun dubitava anche di se stesso e si sentiva responsabile nei confronti dei lettori (specialmente di quelli giovani). «Nel ricercare [la strada giusta], ho paura che i miei frutti ancora acerbi vadano ad avvelenare proprio le persone che li prediligono».9)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Xiezai “Fen” houmian 写在《坟》后面 [Scritto dopo «La tomba»], 284.

Erbe selvatiche è il testo più “personale” di Lu Xun, è la poesia della sua anima; esso mostra più degli altri la verità e la profondità dell’animo di Lu Xun, rivela in maniera più approfondita la sua esistenza individuale. Capiamo, quindi, la sua peculiarità rispetto alle altre opere dell’autore: Erbe selvatiche è l’esistenza di una vita individuale, è un discorso letterario personale, e appartiene soltanto a Lu Xun. Quanto a noi lettori, se desideriamo o no, se siamo o non siamo in grado di entrare nel mondo di Erbe selvatiche, se ne accettiamo o rifiutiamo la filosofia, anche questo dipende interamente da una scelta che ognuno di noi deve fare autonomamente.

Inoltre, Erbe selvatiche rivela solo una parte dell’esperienza ontologica «oscura» e «fredda» di Lu Xun, di certo non lo rivela fin nell’intimo dell’animo; questo non solo perché Lu Xun, come abbiamo letto prima, non dice sempre, fino in fondo, tutto ciò che ha nel cuore ma, quel che è più importante, perché le esperienze di vita scolpite per sempre nella nostra memoria e che appartengono veramente solo a noi stessi sono incomunicabili e, se si prova a esternarle a voce o per iscritto, esse ne risultano deformate, distorte. Per questo, all’inizio dell’Introduzione di Erbe selvatiche, Lu Xun scrive:

Quando rimango nel silenzio, mi sento pieno; faccio per aprir bocca, ed ecco il vuoto.

1

Dunque, che tipo di esperienze, quali pensieri e discorsi, propri di Lu Xun, emergono da Erbe selvatiche?

Leggiamo Il commiato dell’ombra (Ying de gaobie 影的告别, 1924).

Quando si dorme fino a dimenticarsi del tempo, può succedere che l’ombra venga a congedarsi, con queste parole –

«Quando si dorme fino a dimenticarsi del tempo»: apparentemente non c’è tempo, e non c’è memoria. Ma, proprio come nei sogni, se si sprofonda sempre più giù, alla fine ad affiorare è il fondo della vita, il ricordo e l’idea della vita originaria in sé; e allora l’“ombra” e il “corpo” si separano.

È già abbastanza strano ed enigmatico così; per giunta, poi, l’“ombra” si congeda di propria iniziativa e comincia a parlare: cosa starà per dire?

C’è qualcosa che non mi piace nel paradiso, non ci voglio andare; c’è qualcosa che non mi piace nell’inferno, non ci voglio andare; c’è qualcosa che non mi piace nel vostro futuro mondo dorato, non ci voglio andare.

D’altronde, sei tu che non mi piaci.

Amico, non ho più voglia di seguirti, non voglio rimanere qui.

Non voglio!

Ahimé, non voglio, preferisco errare in un posto che non esiste.

In cinque battute ci sono undici “non”; in sette frasi viene ripetuta quasi la stessa struttura sintattica (le prime tre frasi sono identiche, le quattro successive leggermente diverse). Questo è un tipo di sintassi che non esiste nelle opere di letteratura cinese antica ed è assente anche in quelle della letteratura moderna.

«Non, non, non…», questa voce ostinata, risentita e lamentosa insieme, che ci insegue battendo come un martello sui cuori dei lettori, e che ci fa sentire solo terrorizzati, è come quella energia incalzante descritta da Lu Xun, che riesci a sentire nel «silenzio intenso» e che «striscia tra i cadaveri come un serpente velenoso, è come uno spirito implacabile che corre nel buio».10)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 3, Zagan 杂感 [Pensieri sparsi], 50.

Questa voce, che può scaturire solo dalla parte più profonda dell’animo umano e alla quale non c’è modo di sottrarsi, è la voce della vita, che non può essere cancellata dal tempo né dimenticata. È una semplice negazione, “non”, ma riesce a esprimere uno spirito e una volontà soggettivi tanto forti, così come un rifiuto assoluto e incondizionato dell’altro.

Per prima cosa, viene rifiutata l’esistenza di tutto ciò che la gente crede essere il paradiso o vede come l’inferno.

Allo stesso modo, l’«io» rifiuta il cosiddetto «mondo dorato», quel futuro precostituito che la gente immagina come infinitamente bello, radioso.

«D’altronde, sei tu che non mi piaci». Quel «tu» è il sé che si identifica con il gruppo, che pensa e si esprime in base alle convenzioni, alla consuetudine e al senso comune, che si conforma al modo di pensare e di sentire di tutti gli altri. Esattamente ciò che l’«io», lo spirito libero e indipendente dell’individuo, intende rifiutare e da cui tenta di svincolarsi.

In sostanza, si tratta del rifiuto di tutto ciò che è esistito e che esisterà e di tutto ciò che è stato già stabilito, è il rifiuto dell’“esistente”.

«Preferisco errare in un posto che non esiste»: questo «non esiste» si contrappone a “ciò che esiste”; allo stesso modo, la condizione di movimento continuo della vita che si esprime nell’«errare» è l’opposto della condizione di vita immobile espressa dal «rimanere qui». Questa è la scelta dell’«io», che rifiuta l’“esistente” e sceglie il “non esistente”, rifiuta di «rimanere qui» e sceglie di «errare»: la sua vita scivolerà per sempre in ciò che «non esiste».

Sono soltanto un’ombra, ti lascerò e affonderò nel buio. Però il buio può inghiottirmi, però la luce può cancellarmi.

Però non voglio errare tra buio e luce, preferisco affondare nel buio.11)Ho ritenuto opportuno inserire questo brano del Commiato dell’ombra, assente nell’originale, per rendere più comprensibile il commento che segue, relativo ad esso. [N.d.T.]

Ma chi è questo «io»? È l’esistenza di un’“individualità spirituale” separata dal gruppo e separata dalla forma corporale: «Sono soltanto un’ombra». E allora, quale sarà la sorte dell’«io»?

L’«io», essendo un’ombra, vive in simbiosi con le tenebre, ma si oppone a esse, ovvero oppone resistenza alle convenzioni esistenti, esprime il suo valore proprio creando scompiglio fra le tenebre, perciò «il buio può inghiottirmi»; contemporaneamente, «la luce può cancellarmi» perché esso svanirà inevitabilmente allo scomparire delle tenebre. L’unico, inevitabile destino dell’«io» è quello di essere «inghiottito» e «cancellato».

Potrebbe forse «errare tra buio e luce»? «Non voglio»: l’«io» non vuole assolutamente scegliere un’esistenza ignobile.

I tre «però» uno dopo l’altro descrivono tutto il dilemma esistenziale di un’individualità spirituale indipendente quale è l’«io».

«Solleverò solo la mano nero cenere a fingere un brindisi, e da sola me ne andrò quando ci si dimentica del tempo». Questa è l’immagine dell’«ombra» che si presenta davanti a noi: benché abbia il cuore addolorato e colmo di indecisione e dubbi, vuole festeggiare, per poi partire tutta sola.

Ma se è vero che è pronta ad andarsene per conto proprio, tuttavia non può farlo senza esitazione: che momento scegliere per partire? «Se è il tramonto la notte mi sommergerà, altrimenti sarò cancellata dal giorno, se adesso è l’alba».

«Amico, è il momento»: deve prendere una decisione, e la decisione finale è di andare verso il buio: «Errerò verso il buio in un posto che non esiste».

Al momento della partenza, «Tu vuoi anche un dono da me», il che determina la domanda «Ma cosa posso offrirti?», ovvero la questione di “cosa possiedo”. «Buio e vuoto, ancora, senza fine»: ho solo il buio, solo il vuoto, «Solo “buio e vuoto” sono “reali”». «Ma io voglio che sia solo buio, che si cancelli nel tuo giorno; ma io voglio che sia solo vuoto, per non occupare affatto il tuo cuore». Questi «voglio» sono la risposta ai «non voglio» e ai «non» di prima: dal rifiuto di tutto ciò che c’è e che ci sarà, alla scelta di ciò che non esiste (buio e vuoto) si è compiuto un periodo storico.

È così che voglio amico –

Andarmene via da sola, senza di te, ma anche senza altre ombre nel buio. Solo io sommersa dal buio, quel mondo sarà soltanto mio.

Attenzione al capovolgimento. Quando se ne va via per conto proprio e da solo viene inghiottito dal buio, l’«io» raggiunge il vuoto e il nulla totali; ma è proprio in questa impresa e distruzione solitarie che conquista il tutto più grande: «avvolto in questo grosso batuffolo di ovatta nera senza confini»,12)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 5, Ye song, 夜颂 [Ode alla notte], 193. «quel mondo sarà soltanto mio». È in questa esperienza di vita del buio che si realizza la trasformazione dal «non esistente» all’«esistente»: il processo che dal rifiuto dell’«esistenza» del mondo esterno porta a un’«esistenza più grande» nella «non esistenza» della propria vita è forse anche più significativo.

L’esperienza di vita del buio qui menzionata è un’esperienza fortuita che difficilmente si riesce a fare durante la vita; come ha affermato uno studioso, è una sorta di abbandono alla vita, è la vita nel suo stato puro e inesprimibile, una condizione «così serena e piena, calma e coraggiosa, sicura di sé e dignitosa». È come cadere in un buco nero della vita che assorbe tutta la luce e la tiene nascosta al suo interno, dove è una specie di luce intrinseca, essenziale, una «luce colma di oscurità».13)Wang Qiankun 王乾坤, Lu Xun de shengming zhexue 鲁迅的生命哲学 [La filosofia di vita di Lu Xun] (Beijing: Renmin wenxue chubanshe, 1999) 321-322, 336-340. Lu Xun stesso scrive: «Chi ama la notte deve avere orecchie per sentirla e occhi per vederla, e dall’oscurità, saper vedere tutta l’oscurità», «chi ama la notte allora riceve la luce dalla notte».14)Vedi nota 11. E Lu Xun era proprio un amante della notte, per cui non solo Il commiato dell’ombra, ma l’intera raccolta Erbe selvatiche trabocca di «tutta l’oscurità» che ha sentito e visto con «orecchie per sentirla e occhi per vederla», e della «luce della notte». È questo che dobbiamo notare e afferrare prima di tutto quando leggiamo Erbe selvatiche.

In effetti i due argomenti trattati nel Commiato dell’ombra, ovvero il rifiuto dell’ombra e la sua scelta, con tutto ciò che ne consegue, costituiscono un filo conduttore essenziale di tutta la raccolta.

2

Mendicanti (Qiuqizhe 求乞者, 1924)

Leggendo questo testo, la prima cosa che si avverte è la “polvere” onnipresente.

[…] calpesto la polvere cedevole. […]

Si alza un vento leggero […] c’è polvere dappertutto.

[…] polvere, polvere […]

La polvere riempie tutto lo spazio e ci tappa il cuore, fin quasi a penetrarci nell’anima. È la monotonia, la gravità, la pesantezza opprimente della vita, è il “senso di aridità”. Come scrive Lu Xun: «Qui è il deserto. Senza fiori, senza poesia, senza luce, senza colori. Senza arte e senza piacere, e persino senza curiosità. Sabbia pesante…;15)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Wei “Eguo geju tuan” 为“俄国歌剧团” [Alla Compagnia lirica russa], 382. non c’è un minimo di vitalità, mancano del tutto i piaceri della vita, manca la «curiosità», dunque il desiderio e lo slancio creativo.

Oltre alla «polvere» c’è un «muro».

Cammino lungo un muto alto e cadente, […] C’è anche qualcun altro, ognuno va per conto proprio.

È il simbolo dell’alienazione reciproca fra le persone, quella separazione spirituale che non è soltanto storica e sociale, ma è propria del genere umano; pertanto, gli uomini vanno sempre «ognuno per conto proprio». L’inizio di Mendicanti ci trasmette, dunque, non solo il senso di pesantezza opprimente e di alienazione della vita, ma anche un’esperienza di vita solitaria che rasenta la disperazione: di nuovo, il buio e il vuoto racchiusi nel suo cuore.

E quindi abbiamo il “chiedere l’elemosina” e il “rifiuto di dare l’elemosina”.

Un ragazzino mi chiede l’elemosina. Indossa vesti imbottite, e non ha l’aspetto addolorato, ma è muto, e tende la mano in un gesto pieno di finzione.

Allora io odio questo suo gesto. E poi forse non è affatto muto, e quello è soltanto un modo per chiedere l’elemosina.

Io non do l’elemosina, non ho spirito di carità, anzi io sono al di sopra di coloro che danno l’elemosina: io do noia, diffidenza, odio.

Però poi chiedere l’elemosina e rifiutare di darla gli si ritorcono contro.

Mi domando in che modo chiederei l’elemosina: se con la voce, con quale tono?  fingendomi muto, con quali gesti?

[…] Io non otterrò l’elemosina, non otterrò nemmeno spirito di carità; otterrò noia, diffidenza e odio da chi sta al di sopra del dare l’elemosina.

Questo “rifiuto” indirizzato a se stesso è totale, ed è agghiacciante quella «noia, diffidenza e odio» che nemmeno lui può evitare.

«Chiedere l’elemosina» e «dare l’elemosina» hanno chiaramente un significato simbolico. Innanzitutto, il “dare l’elemosina” può essere inteso come simbolo di sollecitudine, di partecipazione, di compassione, di amore: la gente «elemosina» sempre la partecipazione e l’amore degli altri nei propri confronti e «dà» agli altri partecipazione e amore. Sembra quasi un istinto degli uomini, ma Lu Xun lo mette in discussione perché vuole capire cosa vi si nasconde. Ne Il viandante c’è uno sviluppo simile: il piccolo pezzo di stoffa che la «ragazza», mossa da compassione nei suoi confronti, regala al «viandante» naturalmente simboleggia sollecitudine, compassione e amore. Il «viandante» inizialmente lo accetta felice perché, in quanto combattente solitario del mondo spirituale, è naturalmente desideroso di amore, di compassione, di sollecitudine; tuttavia, dopo averci riflettuto un po’, lo rifiuta in maniera decisa e intende anche «maledire» chi «dà l’elemosina». In seguito, Lu Xun ha spiegato che siccome tutto l’amore e la compassione, qualsiasi obolo ricevuto diventano un fardello a livello emozionale, è facile che si rimanga coinvolti con chi ci fa l’elemosina e «non si può essere del tutto distaccati»; per questo scrive: «È facile che la resistenza inciampi ogni volta nell’“amore” (compresa la gratitudine), [per questo] quel viandante, ricevuta l’elemosina del cencio dalla ragazzina, non riesce quasi più a proseguire».16)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 11, Shuxin·250441·Zhi Zhao Qiwen 书信·250411·致赵其文 [Epistolario, 250411, A Zhao Qiwen], 442. Ciò significa che, per conservare libertà e indipendenza di pensiero e d’azione assolute, il combattente solitario deve necessariamente troncare tutti i coinvolgimenti sul piano emozionale, compreso l’amore e l’affetto, e dunque né “chiedere l’elemosina” né darla agli altri. Perciò possiamo intendere il «chiedere» e il «dare» l’elemosina come una sintesi dei rapporti tra gli uomini: le persone hanno sempre qualcosa da “chiedere” e, allo stesso tempo, da “donare” all’“altro”; ma avere qualcosa da “chiedere” agli “altri” porta inevitabilmente a dipendere dagli “altri”, fino al punto di non poterne fare a meno, viceversa, fare l’elemosina porta l’altro a dipendere, a non poter fare a meno di noi. E così, dietro il «chiedere l’elemosina» e il «dare l’elemosina», Lu Xun ha visto i rapporti di dipendenza tra gli uomini. Si tratta di una visione davvero acuta e peculiare, tanto più che nella realtà la «richiesta di elemosina» è spesso fasulla. Infatti Lu Xun, in sostanza, è empaticamente comprensivo e compassionevole nei confronti degli sventurati costretti a chiedere l’elemosina, perché lui stesso aveva provato il dolore di «cadere in miseria da una vita agiata»17)Come abbiamo sottolineato più volte, Lu Xun è sempre stato dalla parte degli sfortunati, ovvero dei deboli, difendendo nella maniera più vigorosa il loro diritto all’esistenza e allo sviluppo; quel che lui sottolineava però, era il rafforzamento autonomo dei deboli, senza aspettare che glielo concedesse qualcuno. È in questo senso che egli esprime odio anche nei confronti del “dare l‘elemosina”. e aveva patito l’umiliazione di dover «chiedere l’elemosina»; il problema sta nel fatto che i “mendicanti” cinesi, o non hanno affatto la reale necessità di chiedere aiuto, oppure si trovano in disgrazia senza esserne consapevoli, pertanto non sono «per niente afflitti», anzi, «inseguono lagnandosi, quasi fosse un gioco», fino al punto di «fingersi» muti come «modo per chiedere l’elemosina»: Lu Xun scopre che dietro alla richiesta di «elemosina» c’è anche l’«ipocrisia» e la «messa in scena». Ed è proprio questa doppia stortura di non sapere cosa sia il dolore (la sventura) ma, allo stesso tempo, recitare la parte degli addolorati (degli sventurati) a suscitare il turbamento emotivo di Lu Xun, che dà «noia, diffidenza e odio»! Quindi abbiamo un altro “rifiuto” in stile Lu Xun, il rifiuto di “sollecitudine, solidarietà, compassione e amore”, per scegliere ancora il «vuoto e nulla».

Chiederò l’elemosina con il distacco e il silenzio…

Almeno, otterrò vuoto e nulla.

Respingere in blocco tutti i bisogni psicologici (come fare l’elemosina, l’affetto, la compassione e simili) e troncare tutti i rapporti affettivi (come «lo spirito di carità») che potrebbero causare debolezza interiore; forgiare un cuore gelido, di pietra, rispondere all’odio («la noia, la diffidenza, l’odio») con il doppio dell’odio, affrontare l’oscurità con il doppio dell’oscurità; ottenere, dal rifiuto di tutto («il distacco e il silenzio»), dal tragico destino che lo accomuna ai suoi oppositori, la soddisfazione della «vendetta». Quindi ci ritorna in mente Wei Lianshu, protagonista di Il solitario, e «l’uomo scuro» in La forgiatura delle spade: la scelta di Lu Xun è un’arma a doppio taglio che oltre ad avere un effetto letale potentissimo nei confronti dei nemici, nuoce, inutile dirlo, anche a se stesso, andando a formare l’altro lato della sua interiorità, quello «tossico» e «sinistro». Tutto ciò che è indirizzato ai suoi oppositori gli si ritorcerà contro, per questo Lu Xun scrive che anche lui otterrà «la noia, la diffidenza e l’odio di chi sta al di sopra del dare l’elemosina»; è davvero di un’atrocità agghiacciante e forse è proprio questo il motivo per cui Lu Xun sottolineava ripetutamente che i giovani non dovevano leggere Erbe selvatiche: la sua scelta “autodistruttiva” esige un prezzo troppo alto da pagare e, in più, è anche molto difficile da replicare, a meno di ottenere solo una “pallida imitazione”.

3

Leggiamo, più rapidamente, altri componimenti.

Speranza (Xiwang 希望, 1925)

Anche questo componimento parte dall’esperienza di vita personale, dalle proprie sensazioni rispetto alla vita.

Il mio cuore è oltremodo solo.

Eppure, il mio cuore è tranquillo: senza amore né odio, senza dolore né gioia, e senza suoni né colori.

Devo essere invecchiato. Ho i capelli grigi, non è forse un fatto? Non è un fatto che mi tremano le mani? Allora, certamente anche le mani della mia anima tremano, sicuramente anche i suoi capelli sono grigi.

Si sta parlando dello stato di «tranquillità» della vita. Lu Xun menziona la «pace» in diversi punti di Erbe selvatiche: all’inizio de Il buon inferno perduto è descritta la «pace» dell’inferno: «Tutte le flebili grida degli spiriti, ma con un ordine», e anche in Un simile combattente vi si fa riferimento: «non si odono grida di guerra: è pace». La «pace» è una condizione di tranquillità e ordine; è quando, per citare l’espressione contenuta in Del guardare le cose ad occhi aperti, «non vi sono problemi, non vi sono mancanze, non vi sono ingiustizie, perciò non vi sono soluzioni, non vi è riforma, non vi è opposizione».18)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Lun zhengleyan kan 论睁了眼看 [Del guardare le cose ad occhi aperti], 238. Per Lu Xun, ciò non è altro che un’«epoca di temporanea normalizzazione della schiavitù» in cui una finta «pace» superficiale nasconde le contraddizioni e le sofferenze autentiche, profonde; perciò anche i lamenti, le «grida» soffocate degli «spiriti» diventano «flebili». Lu Xun dice di odiare questa terra «che si adorna» con le erbe selvatiche19)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 2, “Yecao” Tici 《野草》题辞 [Introduzione a Erbe selvatiche], 159. e ancor più la sua «pace». A suo avviso, l’aspetto più spaventoso di questa «pace» in cui «non si odono grida di guerra» è la «tranquillità» che produce nell’animo degli uomini, «senza amore né odio, senza dolore né gioia, e senza suoni né colori»: anche questo soffoca e logora la vitalità; perciò Lu Xun avverte l’“invecchiamento” della vita, e non solo fisiologico (all’epoca aveva solo 45 anni), ma «certamente anche le mani della mia anima tremano, sicuramente anche i suoi capelli sono grigi». L’“invecchiamento dell’anima” che Lu Xun scopre all’interno di questa «tranquillità» è una proposizione toccante, ed è anche ciò che intende rifiutare.

Quindi comincia di nuovo a ripercorrere il passato: prima il suo cuore era «pieno di canti sanguigni», e anche di speranza; «d’un tratto si sono svuotati», e non ha potuto che usare lo scudo dell’«illusoria speranza» per opporsi all’«assalto della notte nel vuoto, sebbene dietro quello scudo ci fosse sempre la notte nel vuoto», e così ha «consumato poco a poco la sua giovinezza». Ma per un tempo ha nutrito ancora la speranza nella «giovinezza fuori» di sé: «le stelle, il chiaro di luna, le farfalle cadute morte, i fiori al buio, la voce di malaugurio del gufo, il canto insanguinato del cuculo, l’incertezza del riso, la danza dell’amore…», anche se «tetra e vaga», ma «è pur sempre giovinezza». Adesso, però, scopre all’improvviso che tutt’attorno è il «deserto» (ovvero la «pace»): «Possibile che anche la giovinezza fuori di me è passata, che tutti i giovani del mondo sono invecchiati?» È costretto a una graduale ritrattazione, un processo in cui la speranza viene rimossa, svuotata un po’ alla volta.

Ho posato lo «scudo della speranza», allora «ho sentito il canto della “Speranza” di Petöfi Sandor»:

Cos’è la speranza?… Una sgualdrina,

Che tutti gli uomini ugualmente abbraccia.

Se per lei sprechi il tuo tesoro più bello,

La gioventù: allora ti abbandona!

Quella della mendacità e vanità della «speranza», in realtà, è anche una scoperta di Lu Xun e rientra anch’essa in quel processo che dall’«esistente» arriva al «non esistente».

Ma, per arrivare alla “non esistenza”, bisogna fare ancora un passo avanti: ammettere che «la disperazione è vana, esattamente come la speranza».

Secondo la logica generale, la «speranza» è una mendacità assoluta, cioè incondizionata, libera da qualsiasi limitazione, che quindi può (e probabilmente lo farà) cambiare direzione e volgere in «disperazione»; ma, come suggerisce un commentatore, in Lu Xun «il riferimento inerente alla disperazione è ancora la “speme”, «la “speranza” viene riconosciuta ancora una volta attraverso la negazione».20)Wang Qiankun 王乾坤, Lu Xun de shengming zhexue 鲁迅的生命哲学 [La filosofia di vita di Lu Xun], (Beijing: Renmin wenxue chubanshe, 1999), 325. Perciò, per rinunciare fino in fondo alla «speranza», si deve contemporaneamente rinunciare alla «disperazione»: solo vanificandole e svuotandole del tutto si può pervenire al «nulla» assoluto.

Pertanto, abbiamo di nuovo l’impresa solitaria.

Non mi resta che lottare da solo contro questa notte nel vuoto, e anche se non troverò la giovinezza fuori di me, riuscirò almeno a scuotere via la vecchiaia che è in me.

Quel «lottare contro» è una lotta fisica, non implica alcuna «speranza» o «disperazione» sul piano spirituale, è esattamente come «creare scompiglio fra le tenebre»: né prevede le «conseguenze», né è alla ricerca del «senso»; inoltre, è portata avanti solo «da me» e non ha niente a che fare con gli altri. Anche questo è un rovesciamento totale dal «nulla» al «tutto» molto simile alla condizione descritta in Il commiato dell’ombra: «Solo io sommersa dal buio, quel mondo sarà soltanto mio».

La fine del componimento, tuttavia, si lascia dietro ancora una frase spaventosa.

Ma dov’è la notte? […] e davanti a me non c’è nemmeno una notte vera.

L’«io» si appresta a intraprendere da solo l’opposizione, ma all’improvviso la scoperta: l’avversario non c’è più!

Questo ci porta al prossimo componimento, del quale Lu Xun scrive: «Un simile combattente (Zheyang de zhanshi 这样的战士, 1925) è nato dalle impressioni suscitate in me dai letterati e gli uomini di cultura che supportano i signori della guerra».21)Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 4, “Yecao” Yingwen yiben xu 《野草》英文译本序 [Prefazione all’edizione inglese di Erbe selvatiche], 356.

Nell’ambito della polemica con Chen Yuan del gruppo di Critica Moderna (Xiandai Pinglun), Lu Xun parla più volte di questo suo «blocco», di questo suo «sbattere contro un muro», cioè paragona gli attacchi di letterati e uomini di cultura nei suoi confronti a un “muro” che c’è, ma non si può vedere né toccare: un “muro fantasma”. In Un simile combattente, questa impressione viene sublimata nelle «schiere immateriali».

Ma egli solleva il giavellotto.

[…]

Si accasciano tutti a terra; ma è solo un cappotto, vuoto al suo interno. […]

Ma egli solleva il giavellotto.

Egli avanza a grandi passi fra le schiere immateriali, rivede lo stesso cenno del capo, bandiere di ogni tipo, ogni genere di cappotti… .

Ma egli solleva il giavellotto.

Alla fine egli invecchia e muore fra le schiere immateriali. Alla fine egli non è un combattente, invece la materia immateriale è vincitrice.

La prima cosa a cui la gente fa attenzione sono le «bandiere» e i «cappotti» delle «schiere immateriali», che recano «tanti bei nomi: filantropi, studiosi, letterati, anziani, giovani, esteti, gentiluomini…» e «tanti bei motivi: sapienza, morale, cultura nazionale, opinione pubblica, logica, giustizia, civiltà orientale…». Possiamo dire che i termini qui riuniti, che includono tutto ciò che è magnifico e di cui quelli del primo gruppo indicano una sorta di status e quelli del secondo gruppo dei valori, sono stati monopolizzati; ciò significa che Lu Xun, «combattente» dello spirito, si trova a fronteggiare un discorso monopolizzato dietro il quale si nasconde il monopolio del metro di misura dello status sociale e del criterio di giudizio dei valori fondamentali della società. Inoltre, la peculiarità di queste parole monopolizzate è la separazione tra la loro essenza letterale e loro essenza reale, per cui esse sono estremamente inautentiche e ingannevoli. Il monopolio dei termini che indicano lo status e i valori significa, da un lato, la creazione e il monopolio di un ordine linguistico e sociale ingannevole e, dall’altro, che coloro che hanno il monopolio del discorso lo utilizzano per mitigare e adescare, reprimere e scansare i dissidenti come il «combattente» dello spirito: se si vuole far parte di quest’ordine, si deve assolutamente giurarvi fedeltà, altrimenti, rifiutandolo, si andrà incontro all’emarginazione. E Lu Xun, quasi senza esitazione alcuna, ha fatto la sua scelta:

[…] egli ha solo se stesso, e impugna il giavellotto dei selvaggi.

[…]

Sorride, e con un tiro sbieco li colpisce dritto al cuore.

Il rifiuto e l’opposizione nei confronti del discorso esistente, monopolizzato e ingannevole, sullo status e sui valori (e dell’ordine del linguaggio e della società che vi stanno dietro) sono i più estremi; è anche questa una scelta del «non esistente» e, ancora una volta, è un’impresa solitaria che si affronta completamente soli. Per un intellettuale, che fa della parola la propria modalità di esistenza principale, questo tipo di rifiuto e di opposizione posseggono un valore speciale ed essenziale.

Epitaffio (Mujie wen 墓碣文, 1925)

Leggiamo prima cosa c’è scritto sulla lapide.

… gelare in mezzo ai canti fervidi; nel cielo vedere l’abisso. In tutti gli occhi vedere il nulla; nell’assenza di speranza ottenere la salvezza. …

Si faccia attenzione ai due gruppi di concetti: «canti fervidi», «cielo», «tutti», «speranza» rappresentano la logica e le esperienze reali scaturite dal pensiero convenzionale della maggior parte delle persone; detto altrimenti, sono l’esperienza del «tu» (il “corpo”) in Il commiato dell’ombra; queste, tuttavia, sono false. Lu Xun invece guarda con occhi diversi, col cosiddetto “terzo occhio”, per questo ciò che vede e che sente sono il «gelare», l’«abisso», il «nulla», l’«assenza di speranza», che sono chiaramente un rifiuto e una ribellione nei confronti delle logiche e delle esperienze convenzionali precedenti, e che però sono più veri. La proposizione «nell’assenza di speranza ottenere la salvezza», invece, chiarisce che solo dopo aver rinunciato alle false logiche ed esperienze del tutto «esistente» e aver raggiunto il nulla del «non esistente», si può «ottenere la salvezza».

Ma un simile «combattente», così diverso dalla società convenzionale, sarà inevitabilmente solo: «…c’è uno spirito errante, si trasforma in un serpente, dalla zanna velenosa. Per non mordere gli altri, morde se stesso, e infine trova la morte.» Anche qui c’è un ribaltamento: tutta la diffidenza, il rifiuto, la ribellione nei confronti dell’esperienza, della logica e dell’ordine attuali, sono diffidenza, rifiuto e ribellione che mirano a se stesso (come un serpente che «morde se stesso»), ed equivalgono proprio a quello “svuotamento totale”, a raggiungere il «vuoto» e il «nulla» totali di cui abbiamo detto prima. Solo dopo si potrà passare alla ricerca del suo «sapore», ovvero «cavarsi il cuore e mangiarlo, per conoscerne il sapore» cioè, partendo dall’esistenza dell’uomo, perseguire quella condizione di autenticità non ancora guastata dall’esperienza, dalla logica e dall’ordine esistenti.

Ma «si può conoscere questo sapore?», «Come conoscere questo sapore?»: questa condizione di autenticità non la si può conoscere, non vi è modo di conoscerla. Questo è lo sviluppo estremo dello spirito che dubita di se stesso. «Rispondimi. Altrimenti, vattene! …»: di fronte al quesito eterno, a questo «sapore» che non si assaporerà mai, l’uomo può solo «scappare via» alla svelta.

Vibrazioni di una corda disfatta (Tuibaixian de chandong 颓败线的颤动, 1925)

Si tratta forse delle pagine più strazianti di Erbe selvatiche. L’amara esperienza di quest’anziana donna simboleggia e rivela i rapporti effettivi del combattente dello spirito col mondo in cui vive, il mondo reale: pur avendo donato generosamente tutto ciò che aveva, recando con sé un’umiliazione enorme, essa viene spietatamente messa al bando dalla generazione più giovane per la quale si è sacrificata (persino dai bambini innocenti) e addirittura dalla società tutta. Questa sorte ha per Lu Xun un significato particolarmente drammatico in quanto è ciò che ha determinato la messa in dubbio della sua scelta storica di «reggere sulle proprie spalle la chiusa delle tenebre» e condurre i giovani «alla luce». La reazione emotiva e la scelta che tale sorte scatena sono di una forza davvero sconvolgente.

[…] si alza impassibilmente, una statua d’ossa. Apre il portone, e con un passo esce nella notte fonda, lasciandosi alle spalle tutte le maledizioni e le crudeli derisioni.

Qui c’è un rovesciamento: all’inizio è la società ad abbandonarla, adesso è lei che rifiuta e abbandona la società.

Sta in piedi nella distesa selvaggia completamente nuda, una statua di pietra, e in un istante tutto il passato le diventa chiaro: la fame, la sofferenza, lo stupore, l’umiliazione, la gioia, e quindi trema; le avversità, le offese, le implicazioni, e quindi ha uno spasmo; la morte, e si calma… Di nuovo in un istante mischia tutto: affetti e rotture, sollecitudine e vendetta, cura e distruzione, benedizioni e maledizioni… Quindi solleva più che può le mani al cielo, e dalle labbra esce un linguaggio umano e bestiale, che non esiste al mondo e perciò senza parole.

I rapporti affettivi tra la «combattente» e il mondo reale qui riflessi sono estremamente complessi: in quanto eterodossa abbandonata dalla società, vuole «rompere» con essa e nutre anche desideri di «vendetta», «distruzione» e «maledizioni»; tuttavia non può recidere completamente i legami affettivi; anche qui, come prima, non riesce a liberarsi di sentimenti come «affetto», «sollecitudine», «cura» e «benedizioni». Dietro questo contraddittorio intreccio di sentimenti, la sua situazione è ancora più contraddittoria e scomoda: la società l’ha abbandonata, ma anche lei ha rifiutato la società, pertanto non fa più parte di questo sistema sociale e non può, né vuole utilizzare alcuna lingua di tale sistema per esprimersi; ma di fatto lei “esiste” in questa società e, che si tratti di rapporti sociali o di legami affettivi, rimane invischiata al suo interno, per cui non appena apre bocca per parlare, rischia di ricadere nel suo linguaggio, nella sua logica e nelle sue esperienze: non c’è modo di liberarsi da questo indicibile sconcerto, e così, sprofonda in una condizione di “perdita del linguaggio”. «Quindi solleva più che può le mani al cielo, e dalle labbra esce un linguaggio umano e bestiale, che non esiste al mondo e perciò senza parole». Non può (e non vuole) esprimersi con il linguaggio di questo mondo e della sua società e dunque può usare soltanto un linguaggio «che non esiste al mondo e perciò senza parole»: anche questa è una scelta, straordinariamente profonda e anche molto tragica, del «non esistente». La vera voce di un intellettuale critico in maniera genuinamente indipendente affiora dal silenzio. Il cosiddetto linguaggio «che non esiste al mondo e perciò senza parole», ovvero quella lingua non ancora guastata dall’esperienza e dalla logica del mondo umano, può esistere solo in un mondo non umano in cui non c’è alienazione. Perciò:

Quando emette il linguaggio senza parole, quel suo corpo disfatto, imponente come una statua, ma oramai devastato, vibra tutto. Vibra poco, quanto squame di pesce ognuna che si alza e si abbassa, come acqua che bolle sul fuoco violento; anche l’aria sussulta, come le onde del mare selvaggio in tempesta.

Allora alza gli occhi al cielo, e anche il linguaggio senza parole si spegne nel silenzio. Resta solo la vibrazione, che irradia come la luce del sole, e fa roteare le onde dell’aria che, come in un uragano, si sollevano burrascose e si infrangono sulla sconfinata distesa selvaggia.

Questo paragrafo magnifico prospetta una condizione straordinaria: un mondo in realtà più autentico, che si raggiunge dopo aver rifiutato tutto ciò che è “umano” ed essere ritornati al “non umano”, una «sconfinata distesa selvaggia» che «si spegne nel silenzio». In una certa misura, si tratta davvero del mondo interiore di Lu Xun: un mondo più vero, come quell’oscurità sconfinata in cui l’«ombra» del Commiato dell’ombra possiede una libertà, un’abbondanza e una grandezza illimitate. A mio avviso, questo è il testo che possiede più di tutti le caratteristiche distintive della scrittura di Lu Xun e, francamente, quello che mi commuove e mi emoziona di più.

Per ultimo, leggiamo insieme Il viandante (Guoke 过客, 1925), testo in cui si può dire che Lu Xun compendia la propria filosofia di vita.

Ecco come ci imbattiamo nel «viandante»:

Fra i trenta e i quarant’anni, aspetto provato e ostinato, sguardo cupo, baffi neri, capelli spettinati, la giacca corta e i calzoni neri tutti laceri, ai piedi nudi scarpe logore, di fianco appesa una sacca, appoggiato a un bastone di bambù alto quanto lui.

Questo tipico esempio di «viandante», che attraversa di fretta l’aperta campagna e che naturalmente nell’aspetto ci ricorda Lu Xun stesso, fa parte del gruppo degli “uomini scuri” che comprende vari personaggi delle sue opere; potremmo persino dire che è lo stesso Lu Xun ad autonominarsi un «viandante». Dalla sua comparsa, il viandante non fa altro che andare avanti; poi incontra il vecchio, che gli fa tre domande, e lui dà una risposta negativa a tutte e tre:

“Come ti chiami?” – – “Non lo so.”

“Da dove vieni?” – – “Non lo so.”

“Dove vai?” – – “Non lo so.”

Queste sono le “domande del secolo”: le domande con cui tutta l’umanità (tanto i filosofi occidentali quanto quelli orientali) si confronta nel XX secolo e alle quali Lu Xun risponde sempre «non lo so», una risposta che ha già di per sé un grande significato. Ma forse ancor più importante è la scelta che il «viandante» fa fra le tre strade possibili. La prima è quella che «torna indietro», e il «viandante» la rifiuta in maniera categorica, dicendo «se torno indietro, non vi sarà posto senza titoli, non vi sarà posto senza padroni, senza esilio e prigioni, non vi sarà posto senza sorrisi sui volti e lacrime negli occhi. Li odio, non torno indietro!» Questo è il limite fissato dal «viandante»: non potrebbe assolutamente tollerare alcun tipo di schiavitù e di oppressione, non potrebbe in alcun modo sopportare alcuna ipocrisia. La seconda possibilità, consigliatagli dal vecchio, è di fermarsi «per riposare», ma il «viandante» dice di non poterlo fare. Alla fine non gli rimane che «andare avanti».

Ma «cosa c’è avanti»? A quest’ulteriore domanda i tre personaggi rispondono ognuno in modo diverso: per la ragazza davanti c’è un bel giardino, risposta che probabilmente incarna la fiducia e l’attesa del futuro tipici dei giovani; invece per il vecchio davanti c’è la tomba e dunque non è necessario proseguire in quella direzione; ma il «viandante», nonostante sappia bene che c’è solo la tomba, dice di voler andare avanti lo stesso. Questo mostra che la scelta del «viandante» non è dovuta al richiamo della speranza perché egli, da tempo oramai, sa che la speranza non è altro che una sgualdrina. E allora, perché vuole andare avanti? Cosa lo spinge ad andare sempre avanti? Egli dice:

[…] quella voce che ho avanti mi dice di andare.

Anche il vecchio aveva udito quella voce in passato, ma non vi aveva dato ascolto e quindi essa aveva smesso di chiamare. Il viandante però non riesce a respingere quella voce davanti a lui che, come scrive Xue Yi in Linguaggio senza parole, è l’«imperativo categorico» della sua vita:22)Xue Yi 薛毅, Wuci de yanyu 无词的言语 [Linguaggio senza parole] (Shanghai: Xuelin chubanshe, 1996), 12. può mettere in dubbio tutto, tranne il fatto di andare avanti; si può discutere di tutto, di come procedere, degli esiti del procedere, ma non del fatto che bisogna procedere. Questo è il limite della vita sul quale non si può cedere! Ed è anche la principale differenza tra Lu Xun e tutti gli altri. Alcuni camminano verso l’utopia di un mondo ideale che li attende, ma si fermano se sentono che le prospettive non sono poi così rosee, o nel momento in cui abbandonano di propria iniziativa l’ideale utopico. Altri sono pienamente fiduciosi nella strada che percorrono e hanno le idee chiare anche sul modo in cui procedere; uno di questi, ad esempio, era Hu Shi. Il «viandante» di Lu Xun no; per lui solo una cosa è certa: andare avanti, anche senza alcuna certezza sui risultati e sulle modalità del procedere.

[…] non posso! Devo andare. È meglio che vada… . (E subito, sollevato il capo, si avvia deciso verso ovest.)

(La ragazza sorregge il vecchio mentre entrano nella casa di terra, poi chiude la porta. Il viandante si fa strada incespicando nella natura selvaggia, la penombra della sera lo segue.)

«Devo andare»: questo è il limite o l’imperativo categorico della sua vita, è la lotta della vita, l’unica scelta possibile e l’unico punto fermo nel «vuoto» e nel «nulla» totali che vengono dal guardare a fondo e rifiutare tutto quanto. In seguito Lu Xun avrebbe sintetizzato questo spirito del viandante di «andare sempre avanti» nell’«opporsi alla disperazione»:

Il senso di Il viandante […] è quello di voler andare avanti pur sapendo bene che davanti vi è la tomba, cioè opporsi alla disperazione, perché io penso che opporre resistenza quando si è disperati sia molto difficile, e ancor più coraggioso e grandioso di combattere perché si spera in qualcosa.23)Vedi nota 14.

Quindi, per ultima, Lu Xun scrisse l’Introduzione (Tici 题辞, 1927) di Erbe selvatiche.

«Quando rimango nel silenzio, mi sento pieno; faccio per aprir bocca, ed ecco il vuoto»: il mondo «pieno» di Lu Xun esiste nel «silenzio», nel  «(discorso) non esistente».

«La vita passata è morta. Questa morte mi rallegra, perché da essa so che è stata viva. La vita morta è marcia. Questo marciume mi rallegra, perché da esso so che non è ancora vuota.» È la morte che consente a Lu Xun di comprendere il valore della propria vita: conosce la vita dalla morte, vive guardando alla morte, la consapevolezza e la conferma del valore della vita gli vengono all’inverso, dalla morte. Perciò, egli «si rallegra» della vita.

Amo le mie erbe selvatiche, ma detesto questo suolo che con esse si adorna.

Il fuoco sotto terra si agita e corre dappertutto; appena il magma sprizzerà fuori, brucerà tutte le erbe selvatiche, e anche gli alberi, allora non marcirà più nulla.

Ma io sono sereno, sono contento. Riderò e canterò.

Lu Xun «ama» le erbe selvatiche perché sono la sua vita, ma contemporaneamente spera che, quando «sprizzerà fuori», il «fuoco della terra» le «brucerà tutte»: la distruzione della propria vita confermerà che un mondo nuovo è finalmente arrivato; ed egli ne «riderà» e «canterà».

«Andate, erbe selvatiche, legatevi alla mia introduzione!» Evidentemente, con la scrittura di Erbe selvatiche, Lu Xun sperava di concludere una fase della propria vita; l’opera, quindi, preannuncia anche un nuovo periodo della sua esistenza.

A questo punto possiamo fare un piccolo riepilogo. In Erbe selvatiche si può vedere la condizione raggiunta da Lu Xun quando si allontana o quando viene allontanato da tutto il mondo accademico e dalla società intera: rifiuta, rinnega tutti i discorsi, le logiche e le esperienze monopolizzate, tutto ciò «che c’è stato» e «che ci sarà» e tutti i «paradisi», gli «inferni», i «mondi dorati», il «chiedere l’elemosina» e il «dare l’elemosina», la «speranza» e la «disperazione», la «sapienza, morale, opinione pubblica, giustizia»… Il che vuol dire interessarsi in maniera disperata dell’ordine linguistico, ideologico e sociale esistenti, mettendoli in dubbio, negandoli e rifiutandoli nella loro totalità; è lo svuotamento totale dell’«esistente» o, per usare una formulazione buddhista, ripudiare ogni forma di “attaccamento”. In questo modo ha raggiunto la disperazione totale e non possiede che il «buio», il «vuoto», il «distacco», il «lottare contro»…, inoltre in questi realizza la più grande iniziativa e la più grande distruzione personali. Messa così, Lu Xun è davvero «eccessivamente oscuro». Però dobbiamo anche fare attenzione alla resistenza che c’è nella sua disperazione: il mondo «buio», «vuoto» che raggiunge non è affatto così “vuoto” come si potrebbe pensare ma, in realtà, straordinariamente ricco, un «esistente» ancora più grande. È un processo di vita per cui dal rifiuto di tutto l’esistente si perviene alla non esistenza, al vuoto, e poi, dalla non esistenza e dal vuoto, si perviene a un’esistenza, a una realtà più grande. Ecco perché Lu Xun alla fine scrive: «ma io sono sereno, sono contento. Riderò e canterò.» Se si vede solo il Lu Xun che affronta il buio, senza riuscire a vedere la «serenità» e la «contentezza», il «riso» e il «canto» che vi stanno dietro, allora non si può capire veramente Erbe selvatiche: sebbene l’impresa di Lu Xun sia in sé estremamente ardua, tuttavia essa permette alla sua vita di pervenire ad una condizione più ricca, più profonda, più libera. Quando si legge Erbe selvatiche, è necessario cogliere entrambi questi aspetti, per vitare equivoci.

Alla fine Lu Xun riassume di nuovo la sua filosofia di vita nell’«opporsi alla disperazione»: l’imperativo categorico di «andare avanti» eternamente, senza fermarsi mai, senza prevedere «conseguenze» e senza nutrire speranze, è proprio quell’energia che ha consentito alla sua vita di essere in continua evoluzione.

Traduzione di Monia Conte

Qian Liqun, Opporsi alla disperazione PDF

Immagine: particolare da Erbe selvatiche, di Wu Guanzhong, pittura del 2008.

References
1 La seguente è la settima lezione contenuta nel volume Quindici lezioni sulle opere di Lu Xun di Qian Liqun (Lu Xun Zuopin shiwu jiang 鲁迅作品十五讲 (Beijing: Beijing Daxue chubanshe, 2003, 116-136). Tutte le traduzioni delle citazioni tratte dai componimenti di Erbe selvatiche, da altre opere di Lu Xun e da altri autori sono mie [N.d.T.]
2 Zhang Yiping 章衣萍, Gumiao zatan (wu) 古庙杂谈(五) [Chiacchiere dell’antico tempio (5)], originariamente pubblicato in Jingbao fukan 京报副刊 il 31 marzo 1925, citazione da Zhang Yiping: suibi sanzhong ji qita 章衣萍集:随笔三种及其他 [Zhang Yiping: tre tipi di saggi e altri] (Shanghai: Hanyu da cidian chubanshe, 1993), 93.
3 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 12, Shuxin·341009·zhi Xiao Jun 书信·341009·致萧军 [Epistolario, 341009, A Xiao Jun], 530.
4 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 11, Liang dishu·Diyi ji·Ersi 两地书·第一集·二四 [Due terre, Parte prima, 24], 79-80.
5 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Xiezai “Fen” houmian 写在《坟》后面 [Scritto dopo «La tomba»], 283-284.
6 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 6, Wo yao pianren 我要骗人 [Io inganno], 488.
7 Zeng Tianshe 增田涉, Lu Xun de yinxiang·Siliu·Lu Xun de maodun yu suochu de Zhongguo shehui 鲁迅的印象·四六·鲁迅的矛盾与所处的中国社会 [L’impressione di Lu Xun, 46, Le contraddizioni di Lu Xun e la società cinese], in Lu Xun huiyi lu “zhuanzhu” 鲁迅回忆录“专著” [Memorie di Lu Xun. “Monografie”], Vol. 2, 1431.
8 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 11, Liang dishu·Diyiji Beijing·Wu 两地书·第一集北京·五 [Due terre, Parte prima: Pechino, 5], 23.
9 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Xiezai “Fen” houmian 写在《坟》后面 [Scritto dopo «La tomba»], 284.
10 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 3, Zagan 杂感 [Pensieri sparsi], 50.
11 Ho ritenuto opportuno inserire questo brano del Commiato dell’ombra, assente nell’originale, per rendere più comprensibile il commento che segue, relativo ad esso. [N.d.T.]
12 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 5, Ye song, 夜颂 [Ode alla notte], 193.
13 Wang Qiankun 王乾坤, Lu Xun de shengming zhexue 鲁迅的生命哲学 [La filosofia di vita di Lu Xun] (Beijing: Renmin wenxue chubanshe, 1999) 321-322, 336-340.
14 Vedi nota 11.
15 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Wei “Eguo geju tuan” 为“俄国歌剧团” [Alla Compagnia lirica russa], 382.
16 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 11, Shuxin·250441·Zhi Zhao Qiwen 书信·250411·致赵其文 [Epistolario, 250411, A Zhao Qiwen], 442.
17 Come abbiamo sottolineato più volte, Lu Xun è sempre stato dalla parte degli sfortunati, ovvero dei deboli, difendendo nella maniera più vigorosa il loro diritto all’esistenza e allo sviluppo; quel che lui sottolineava però, era il rafforzamento autonomo dei deboli, senza aspettare che glielo concedesse qualcuno. È in questo senso che egli esprime odio anche nei confronti del “dare l‘elemosina”.
18 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 1, Lun zhengleyan kan 论睁了眼看 [Del guardare le cose ad occhi aperti], 238.
19 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 2, “Yecao” Tici 《野草》题辞 [Introduzione a Erbe selvatiche], 159.
20 Wang Qiankun 王乾坤, Lu Xun de shengming zhexue 鲁迅的生命哲学 [La filosofia di vita di Lu Xun], (Beijing: Renmin wenxue chubanshe, 1999), 325.
21 Lu Xun 鲁迅, Lu Xun quanji 鲁迅全集 [Opere complete di Lu Xun], Vol. 4, “Yecao” Yingwen yiben xu 《野草》英文译本序 [Prefazione all’edizione inglese di Erbe selvatiche], 356.
22 Xue Yi 薛毅, Wuci de yanyu 无词的言语 [Linguaggio senza parole] (Shanghai: Xuelin chubanshe, 1996), 12.
23 Vedi nota 14.