[Intervista di Promise Li per The Tempest alla ricercatrice femminista Dong Yige, che illustra il retroterra della rivolta operaia alla fabbrica Apple iPhone Foxconn di Zhengzhou e che rapporto essa instauri con le altre rivolte scoppiate in Cina.
La serie Proteste, biopolitica e riproduzione sociale nella Cina post-Zero Covid nasce da una collaborazione fra Gli Asini e Sinosfere, con la cura di GioGo.]
Sono comparsi in rete a ottobre alcuni video di fughe in massa a piedi di operai dalla fabbrica della Foxconn a Zhengzhou — il luogo di produzione di iphone più grande del mondo. Per tenere il passo con le esigenze produttive della Apple, la fabbrica aveva adottato un regime a “ciclo chiuso” che non consentiva agli operai di rincasare, fornendo il minimo indispensabile in loco. Il regime ha fatto scattare una nuova ondata di rilevazioni sulle politiche cinesi del lavoro dagli inizi della pandemia e ha suscitato alcune risposte fra le comunità cinesi d’oltremare, per quanto momentaneamente meno rilevanti rispetto alla mobilitazione attivata dalla diaspora globale per i fatti di Sitong Bridge di Pechino a Ottobre 2022. Ciò fornisce un eloquente retroterra alle vaste rivolte sociali scatenate dalla quarantena del COVID-19.
Promise Li: Ci puoi dire con parole tue che cosa è successo alla Foxconn, che senso ha, e se ritieni che ci sia un rapporto con gli altri casi e manifestazioni recenti di scontento nella società cinese, come la protesta al Ponte Sitong?
Dong Yige: a fine ottobre, in una fabbrica della Foxconn sita nella città cinese di Zhengzhou, si verificò una recrudescenza di COVID-19, nonostante i casi di contagio massiccio fossero stati rari grazie alle rigorose politiche di contenimento del contagio in vigore nella regione. La fabbrica è quella più grande fra le 45 esistenti in Cina ed è anche il più grosso centro manifatturiero della Apple, con una forza lavoro che supera il quarto di milione di unità. Prima della recrudescenza, la Apple vi faceva affidamento per produrre il modello più nuovo di iPhone 14 per le sue filiere mondiali. Dopo, invece di predisporre misure efficaci di cura e contenimento dell’epidemia, la direzione della Foxconn ha obbligato gli operai a continuare a sfornare iPhone, aumentando il numero dei contagiati. La direzione allora ha avviato un regime “a ciclo chiuso”, che non consentiva agli operai di allontanarsi dall’area della fabbrica ma li teneva chiusi nei reparti e nei dormitori, nutrendoli con razioni preconfezionate che erano a stento mangiabili, a quanto hanno riferito i messaggi inviati dagli operai ai social cinesi. Nel frattempo, per l’assenza degli addetti, nessuno faceva più le pulizie, la sporcizia s’accumulava e invadeva gli spazi dentro e fuori i dormitori. Quel che è peggio, gli operai positivi al test venivano rinchiusi in lazzaretti senz’acqua, cibo e medicine.
Agli inizi di novembre, la voce che otto operai erano morti di covid nei dormitori colmò la misura. Presi dal panico e dalla disperazione, migliaia di operai avviarono un “grande esodo” sfondando i cordoni stesi dalla Foxconn e tornando a casa a piedi, dato che i trasporti pubblici erano stati interrotti per la quarantena. In maggioranza, gli operai dovettero camminare un paio di giorni per raggiungere le proprie case, dato che provenivano dai distretti limitrofi della regione, lo Henan. In alcuni distretti, le amministrazioni li caricarono sugli autobus a prenderli e li chiusero nei lazzaretti, invece di farli accompagnare a casa. Avendo perso un numero significativo di operai, la Foxconn era sotto pressione per raggiungere gli obiettivi di produzione degli iPhone. È qui che emerge lo stretto legame fra l’azienda e le amministrazioni locali dello Henan. Uno dei motivi principali che indussero la Foxconn ad aprire la sua fabbrica più grande proprio a Zhengzhou fu che nel 2010 le amministrazioni locali garantirono all’azienda che le avrebbero concesso consistenti sgravi fiscali e l’avrebbero agevolata nell’assunzione della forza lavoro. Gli amministratori locali, a capo di una delle regioni più popolose del paese e con un livello di sviluppo ancora piuttosto basso, videro nella Foxconn una gallina dalle uova d’oro. Né avevano torto. Oggigiorno, il prodotto Foxconn rappresenta l’80% delle esportazioni di Zhengzhou e più del 60% delle esportazioni dell’intera regione del Henan. Così, all’indomani del “grande esodo”, la massima priorità delle amministrazioni locali diventò il reperimento di nuova forza lavoro per la Foxconn. Si sa che a ogni capovillaggio fu ordinato di reperire come minimo un operaio — una specie di leva militare. In breve, 10,000 nuovi operai provenienti dal Henan e da altre regioni si presentarono a Zhengzhou, alleviando temporaneamente la pressione che gravava sulla Foxconn.
In tutta onestà, dubito che questo genere di resistenza dei nuovi operai, sostanzialmente spontanea e ingenua, sia animata da intenti politici espliciti. È piuttosto una naturalissima e comprensibile reazione alla minaccia contro la propria vita e salute. Dico questo anche perché la Foxconn ha messo in campo una serie di procedure di controllo del lavoro molto sofisticate, che garantiscono la massima atomizzazione e isolamento degli operai l’uno dall’altro, e rendono loro difficile l’instaurazione di una qualsiasi forma di solidarietà. Naturalmente sono sicura che questa volta, durante l’esodo, gli operai abbiano in un modo o nell’altro discusso insieme qual era la via di fuga migliore. Ma si tratta, direi, più che altro di azioni spontanee, non tanto la manifestazione di una coscienza politica chiara com’è successo invece nel caso del Ponte Sitong. Ciò detto, nella storia del lavoro in Cina, alla base delle potenzialità di lotta del lavoro potenziali c’è sempre stata la reazione degli operai allo sfruttamento e ai maltrattamenti. Io quindi non sminuisco il suo significato e m’aspetto di vedere come quest’evento storico, che smaschera molte delle idee fisse sul capitalismo statale cinese attuale, possano ispirare l’attivismo futuro.
Li: Potresti accennare brevemente a come hai intrapreso questa linea di ricerca e quali esperienze politiche l’hanno preceduta e stimolata?
Dong: Il mio studio della Foxconn di Zhengzhou non fu programmato ma s’ avviò per caso. Nella scorsa decade, stavo studiando il lavoro e le politiche di genere in Cina ed ero particolarmente interessata all’interazione fra le politiche della produzione industriale e quelle della riproduzione sociale. All’inizio, scelsi Zhengzhou — una città storica tessile – come mio sito di studio primario, perché il tessile è uno dei settori manifatturieri con più presenza femminile e dove la contraddizione fra lavoro industriale e riproduzione sociale è particolarmente acuta. Sono stata sempre particolarmente interessata all’intervento femminista nell’analisi del lavoro convenzionale, che è spesso affetta da un tono maschilista e ignora il genere. Poi, dopo qualche anno nella ricerca, un’estate che ero a Zhengzhou, scoprii che una delle fabbriche tessili che avevo studiato era stata chiusa a causa della bassa redditività e che il padrone aveva deciso di affittare lo stabilimento alla Foxconn. La ex-fabbrica tessile era diventata un impianto satellite della fabbrica principale della Foxconn, quella di cui stiamo parlando. Ebbi così l’idea di seguire questo curioso passaggio per vedere che cosa sarebbe successo. Retrospettivamente, ho capito che il fatto non era stato casuale ma rifletteva alcune profonde trasformazioni nella struttura industriale cinese e nella sua politica del lavoro in generale, di cui parlerò altrove.
Li: La domanda è un po’ parentetica, ma se dovessimo contestualizzare alcune delle risposte date alle misure di confinamento a Zhengzhou nei termini di un’insoddisfazione più ampia che in altre regioni cinesi, dove pensi che puntino le proteste contro la quarantena? Le ritieni un utile esempio per la manifestazione del dissenso nella fase attuale?
Dong: in generale direi di sì, qualunque manifestazione di dissenso e rabbia nei confronti delle atroci misure di confinamento è significativa. Sono importanti canali lungo i quali i cittadini cinesi esprimono il loro dissenso. A causa della censura crescente e del controllo politico sempre più soffocante in questi ultimi anni, non c’è praticamente più spazio per la protesta sociale e le azioni collettive, che sono comunque state sempre difficili e pericolose in Cina. Ciò nondimeno, molti gruppi sociali, da quelli operai a quelli femministi a quelli ambientalisti sono riusciti a combinare un bel po’ di cose di recente. Ora, le proteste e la resistenza spontanee contro le misure di confinamento sono presumibilmente le sole manifestazioni praticabili di dissenso (il caso del Ponte Sitong ha attirato tanta attenzione proprio perché costituiva un’anomalia), per il fatto che le città messe in quarantena sono troppe, e per troppo a lungo, e neanche la censura più efficace riesce a cancellare subito tutte le voci. La maggior parte di queste lamentele e accuse provengono da cittadini che soffrono la fame, difficoltà economiche, disagio psicologico dovuto all’isolamento e perfino, qualche volta, cure mediche rifiutate con rischio della vita. Sono temi non direttamente politici, ma che possono trovare un’eco presso altri cittadini. In effetti, proprio perché non sembrano politici, relativamente parlando sono tollerati dal regime. Ma cercare la giustizia nell’ambito della riproduzione sociale e rivendicare i diritti fondamentali per la vita non è meno politico dell’attivismo nell’arena delle lotte convenzionali, pubbliche. La crisi della riproduzione sociale è una questione anche più essenziale che si manifesta attraverso sistemi sociopolitici diversi e che ha il potenziale di coinvolgere e mobilitare chiunque.
Li: che significato ha la Foxconn di Zhengzhou nel quadro della politica cinese del lavoro nel suo complesso?
Dong: Come ho già accennato, il trasferimento della Foxconn da Shenzhen, dove 18 suicidi fra gli operai sconvolsero l’opinione pubblica mondiale nel 2010, nell’entroterra cinese, inclusa Zhengzhou, non è casuale ma mette in mostra alcune mutazioni di fondo nella struttura industriale cinese e nella sua politica del lavoro.
Primo, a livello nazionale, per l’aumento del costo del lavoro in Cina, il capitale (Foxconn compresa) va abbandonando la Cina oppure si sposta nell’entroterra, in cerca di lavoro a basso costo. Di conseguenza, la manifattura elettronica ha sostituito il tessile come primo datore di lavoro degli operai non qualificati di Zhengzhou. Nel frattempo, i servizi di fascia bassa hanno superato la manifattura ad alta intensità di lavoro, diventando il maggior datore di lavoro per gli operai non qualificati del paese. Nel corso della mia ricerca ho scoperto che molti operai tessili licenziati sono rifluiti nei servizi, come addetti ai servizi di cura, per esempio come assistenti alle puerpere.
Secondo, a causa dello spostamento nell’entroterra del capitale e della conseguente rapida industrializzazione, si sono verificati cambiamenti sostanziali nella forza lavoro migrante cinese. Mentre in passato i lavoratori migranti in maggioranza lasciavano la casa natia, che erano solitamente nelle regioni dell’entroterra specializzate nell’agricoltura, per andare a lavorare nelle zone economiche speciali sulla costa, adesso aumenta il numero dei migranti all’interno delle proprie regioni, che lavorano nelle città limitrofe, rapidamente industrializzatesi. È questo il motivo per cui, nel caso della Foxconn di Zhengzhou, più del 90% degli operai sono dello Henan, per parte dei quali è stato possibile tornare a casa a piedi durante i recenti “grandi esodi”. Inoltre, la forza lavoro nella manifattura va rapidamente invecchiando, ed è in media di quarantenni. In altre parole, non è più la “gioventù in fabbrica” che fa gli iPhone, sono i loro zii e zie.
Terzo, alquanto sorprendentemente, la Cina ha di recente assistito a un processo di “formalizzazione” del lavoro. Nel 2014, il governo centrale promulgò una nuova legge che vietava ai datori di lavoro di assumere operai con contratto a tempo determinato presso agenzie esterne all’azienda — una pratica che aveva valso alla Foxconn una pessima fama. Qualche anno or sono, quando lavorai alla Foxconn di Zhengzhou, alla maggior parte dei nuovi assunti fu proposto un contratto di assunzione regolare più l’assicurazione sociale, per lo meno sulla carta. Eppure, in larga parte questi operai della Foxconn preferirono passare al contratto informale de facto: entrano in fabbrica, lavorano qualche mese e poi si licenziano dopo l’alta stagione; l’anno dopo, molti tornano alla fabbrica per una nuova assunzione. Mentre in passato la forza lavoro migrante cinese restava solitamente nella stessa fabbrica e città per molti anni e tornava a casa una volta l’anno, oggi, un lavoro di manifattura assomiglia ai lavori a tempo determinato di quella “economia dei lavori occasionali (gig economy)” che ha prevalso nelle società neoliberali postindustriali. In un articolo di prossima pubblicazione, chiamo il fenomeno “manifattura occasionale”.
Come si spiega la stranezza? Perché gli operai dovrebbero preferire rinunciare ai benefici del contratto regolare e restare precari? Io ci vedo l’intervento di dinamiche nella fase sia della produzione sia della riproduzione sociale.
Nella fase della produzione, ovvero nei reparti che fanno gli iPhone, l’azienda tiene basso il salario base — praticamente identico al salario minimo di Zhengzhou (2.100 yuan mensili, circa 280 euro) e gli operai fanno affidamento sugli straordinari per arrotondarlo. In alta stagione, di solito l’estate prima del lancio dei nuovi prodotti Apple a settembre, un operaio può guadagnare 6000-8000 yuan al mese, circa 800-1000 euro con gli straordinari. Ma dopo l’alta stagione non trovano convenienti i salari normali.
Nel frattempo, nella fase della riproduzione sociale, essenzialmente quella delle famiglie operaie delle comunità rurali, è aumentata la domanda di operatori per i lavori di cura dei bambini e dei vecchi — una domanda fortemente connotata dal genere che investe in modo sproporzionato le madri che lavorano alla Foxconn. Questo rilievo dato al lavoro di cura è la conseguenza di una rapida mercificazione della riproduzione sociale, che include la privatizzazione della cura dei bambini e dei vecchi e l’istruzione nella Cina rurale.
Riuniti insieme, questi fattori mettono gli operai di fronte a un dilemma: il disperato bisogno di un’entrata monetaria continuano a spingere i genitori di campagna, che rappresentano una significativa porzione della forza lavoro, ad andare a lavorare alla Foxconn; la richiesta familiare di lavoro di cura e psicologico, d’altro canto, li tira indietro alla famiglia, specialmente le madri. Alla fine dei conti, sono molti gli operai che finiscono per optare per i lavori stagionali occasionali.
Ho l’impressione che questa crescita della “manifattura occasionale” stia mettendo in crisi l’organizzazione stessa della produzione industriale… Mentre nella fabbrica del XX secolo gli operai erano uniti dalla comunanza di spazi e processi lavorativi, nella Cina del XXI secolo e oltre, la base su cui poggiare la solidarietà diventano i diritti incodizionati a un livello di vita decente.
Li: La teoria marxista della riproduzione sociale fornisce un’importante quadro teorico alla tua ricerca. Nei tuoi scritti, hai parlato di come la Cina si stia riposizionando su un modello di “regime misto pubblico privato di riproduzione sociale”, dove la cura dei bambini e dei vecchi e la previdenza sociale sono sempre più privatizzati e la responsabilità, per esempio la pensione, sia slittata verso le amministrazioni locali. Come si possono inserire gli abusi sul lavoro alla Foxcoon di Zhengzhou e le mutazioni nelle condizioni di lavoro durante la pandemia nel quadro della riproduzione sociale?
Dong: Come ho spiegato sopra, l’ottica della riproduzione sociale è cruciale per una comprensione delle politiche di fabbrica odierne. Finora, il “regime ibrido pubblico-privato di riproduzione sociale” che ho menzionato in articoli precedenti s’applica solo ai residenti urbani. Nel caso della Foxconn di Zhengzhou, solo i detentori di permesso di residenza a Zhengzhou possono accedere ai contratti regolari, che includono i contributi sanitari e pensionistici. Invece, a chi sia privo della residenza, cioè alla maggioranza, è preclusa ogni copertura sanitaria e pensionistica, a meno di non lavorare nella stessa città per almeno 15 anni, un’opzione impraticabile per molti. In ogni caso, i contributi versati individualmente dagli operai vengono sempre per tutti dedotti dalla paga. Il guadagno mensile è dunque perfino inferiore ai 2.100 yuan — di fatto, si riduce a soli 1.600 yuan. Il regime ibrido di riproduzione sociale lavora insomma contro gli interessi dei lavoratori migranti.
Per giunta, il regime salariale della Foxconn, che è altamente volatile e stagionale, e il regime di riproduzione sociale nella Cina rurale, che s’aspetta dalle donne che si guadagnino il pane e svolgano al tempo stesso il lavoro di cura, sono complici. Vale a dire che le esigenze del capitale e i bisogni delle famiglie cooperano nel creare una vasta armata salariale di riserva che si presenta sempre al “momento giusto”.
Infine, avendo studiato la Foxconn per anni e avendola osservata nell’ottica della riproduzione sociale, non mi sono troppo stupita di quanto sta avvenendo adesso a Zhengzhou; nient’altro che la manifestazione di tutte le questioni sul tappeto nella loro forma più estrema. Quello che giunge al parossismo in questo caso sensazionale è la collisione fra la domanda del capitale di forza lavoro operaia alienata e la sua tendenza a esternalizzare il più possibile i costi onde mantenere detta forza lavoro. Cosa altrettanto importante, il caso della Foxconn svela anche la lunga complicità fra il capitale e le amministrazioni locali (sostenute dallo Stato centrale cinese): il capitale butta fuori gli operai non appena i costi per il sostentamento delle loro esistenze si fanno “insostenibili”; le amministrazioni locali assistono il capitale come domestiche aiutando la Foxconn ad assumere e licenziare la forza lavoro, facilitando le scorribande del capitale nel sociale.
Li: Nelle condizioni cinesi di repressione politica, intravedi qualche strada praticabile per il movimento operaio e la solidarietà domestica? I sindacati indipendenti vengono smantellati, e il grosso dell’organizzazione in questi ultimi anni in Cina è transitato a modelli molto più decentrati, energizzati dai social. Tu hai ricordato che “mentre la regolamentazione potenziale può fornire più protezione e assistenza agli operatori domestici, può anche essere usata dai datori di lavoro per controllare il lavoro, come dimostrano le prove relative alla manifattura regolare” (2020, 14). Stando così le cose, qual è il modo migliore di organizzarsi per essere più forti insieme per la popolazione, che cresce rapidamente, dei lavoratori informali e gli operai di fabbrica più “tradizionali? Che modi ci sono per collegare le lotte del lavoro con quelle femministe, studentesche, e ambientali in Cina?
Dong: Secondo me, la comparsa della “manifattura occasionale” sta rendendo l’organizzazione vieppiù difficoltosa nella fase della produzione. I singoli individui vanno e vengono di continuo, con un altissimo ricambio — i cinque colleghi che dividevano con me il dormitorio non parlavano quasi fra di loro. Questo è vero non solo in Cina ma anche in molti luoghi del mondo, come conseguenza dell’ informalizzazione del lavoro. Su questo sono dalla parte di altre femministe della riproduzione sociale; sono convinta che la fase della riproduzione sociale sia diventata estremamente importante, per la sua posizione strategica nell’organizzazione — dovremmo articolare i nostri discorsi attorno la nozione complessiva di riproduzione sociale, esigendo provvedimenti universali di previdenza dalla cura dei bambini, della salute, dei vecchi, fino ai diritti universali alla casa e all’istruzione, alla protezione del lavoro nei vari settori. Mentre in una fabbrica del XX secolo fu la comunanza dello spazio e del processo lavorativo a unire gli operai, nel XXI secolo e oltre sono i diritti inalienabili a un tenore di vita accettabile che dovrebbero diventare le basi per la costruzione della solidarietà. Proprio per questa ragione, io vedo le grandi potenzialità che hanno le lotte basate sulle classi, il genere, la sessualità, la giustizia ambientale ecc. di unire tutti insieme —in quanto sono tutte parti e sezioni della riproduzione sociale.
Li: Come sappiamo, le lotte dei lavoratori della Foxconn non sono isolate: sono una parte fondamentale delle filiere globali e le loro condizioni sono direttamente legate agli interessi dei regimi, delle imprese e dei consumatori del resto del Nord globale. Mentre la rivalità interimperialista tra Stati Uniti e Cina continua a dispiegarsi, qual è il significato globale della situazione di Zhengzhou e come può collegarsi ad altre lotte anticapitaliste all’estero, specialmente negli Stati Uniti? Che ruolo possono svolgere le comunità cinesi d’oltremare e altri movimenti a sinistra?
Dong: Ho seguito per molti anni le politiche della Foxconn, che è diventata il caso esemplare per gli studiosi del lavoro e gli attivisti per denunciare lo sfruttamento e gli abusi nella catena globale delle merci. Tuttavia, sorprendentemente, pochi dei miei studenti negli Stati Uniti, nati dopo il 2000, sono a conoscenza di tutto questo. Quindi, la prima cosa da fare è continuare a parlare del caso Foxconn, per sensibilizzare un maggior numero di lavoratori e consumatori del Nord globale su questi temi. In effetti, quando uso il caso della Foxconn per insegnare la teoria dello sfruttamento e dell’alienazione di Marx, l’analisi del suicidio di Durkheim e i concetti di razionalizzazione e burocrazia di Weber, vedo una luce negli occhi dei miei studenti, che trovano le storie di questi lavoratori in un Paese lontano piuttosto interessanti e comprensibili.
Credo che il caso della Foxconn di Zhengzhou sia straordinario e ordinario allo stesso tempo. È straordinario perché è un caso estremo in cui la contraddizione tra l’accumulazione del capitale e la riproduzione sociale delle persone ha portato a una crisi enorme. È ordinario perché tale contraddizione, così come la complicità tra capitale e Stato, sono caratteristiche intrinseche del nostro attuale sistema capitalistico globale. Mentre la Foxconn continua il suo “fix spaziale” delocalizzando molti impianti in Vietnam, India, Wisconsin (un affare fallito) e Ohio, e in molti altri luoghi del mondo, nei prossimi anni assisteremo a molte altre storie tragiche come quella di Zhengzhou oggi e quella di Shenzhen di dieci anni fa (i suicidi seriali). È proprio la “globalità” del capitalismo globale a collegare tutto e tutti.
Li: Alla fine di novembre alla Foxconn di Zhengzhou si è verificata una rivolta più grande, una cosa che ha sorpreso molti. Puoi commentare questo fatto? Vedi un legame tra la resistenza dei lavoratori della Foxconn e le diverse proteste degli abitanti delle città e degli studenti universitari?
Dong: Si, subito dopo l’arrivo a Zhengzhou, i nuovi assunti hanno scoperto che quanto promesso era inarrivabile: invece di lavorare due mesi e ricevere un bonus di 6.000 yuan in aggiunta al salario, devono lavorare almeno fino a marzo 2023 per ricevere un qualsiasi bonus; inoltre, sono stati costretti a vivere con i lavoratori già presenti e che sono risultati positivi al COVID-19. Fortemente indignati, questi nuovi lavoratori sono insorti, scatenando la violenza della polizia e i gas lacrimogeni. Grazie alle riprese effettuate da molte persone, gli scontri dei lavoratori con la polizia sono stati ampiamente riportati. Alla fine, per prevenire ulteriori disordini, la Foxconn ha accettato di risarcire ogni nuovo assunto con 10.000 yuan e di rimandarlo immediatamente a casa. La maggior parte dei nuovi assunti ha optato per questa strada.
Ho detto che questo tipo di resistenza non ha un’esplicita intenzione politica, ma le reazioni dei lavoratori contro lo sfruttamento e gli abusi sono sempre state un’importante base per potenziali lotte nella storia del lavoro cinese. Credo che la mia osservazione sia ancora valida. Vorrei approfondire ulteriormente questo aspetto:
Come abbiamo visto, la maggior parte dei lavoratori che hanno partecipato alla rivolta ha accettato di lasciare la Foxconn una volta ricevuto il pagamento. Quindi, da un lato, le richieste degli operai non sono le stesse che avanzano gli studenti e i cittadini urbani. Questi ultimi avevano apparentemente agende politiche più esplicite, ma non necessariamente omogenee, e avanzavano richieste che andavano dalla fine dei rigidi confinamenti alla fine del regime del Partito Comunista Cinese (PCC). Inoltre, come ho già detto, uno dei maggiori ostacoli alla solidarietà e all’organizzazione dei lavoratori è rappresentato dalle capacità di controllo della Foxconn. In tempi normali, la Foxconn atomizza i lavoratori, li mette l’uno contro l’altro e mantiene intenzionalmente un elevato ricambio per assicurarsi che l’auto-organizzazione dei lavoratori sia quasi impossibile. Questa volta, l’offerta di 10.000 yuan ha funzionato abbastanza efficacemente nel disperdere i lavoratori subito dopo la rivolta. In tutto questo, il governo è ovviamente complice.
Ripeto, non sto disconoscendo la legittimità e l’importanza delle richieste dei lavoratori per avere benefici economici e migliori condizioni di vita. Al contrario, storicamente queste richieste si sono rivelate la piattaforma più potente per l’organizzazione nel lavoro: lo stesso PCC ha organizzato il lavoro in questo senso nei primi decenni del XX secolo e, ironicamente, ha accusato di “economicismo” i lavoratori che hanno perseguito lo stesso obiettivo negli anni Cinquanta e poi durante la Rivoluzione culturale. Tutto ciò dimostra che esiste nelle loro lotte un potenziale politico forte per i lavoratori che si concentrano sulle condizioni materiali e, in senso più ampio, sulle preoccupazioni relative alla riproduzione sociale.
D’altra parte, è innegabile che questa volta la mobilitazione e il coraggio dei lavoratori della Foxconn abbiano ispirato le altre forme di proteste e manifestazioni che hanno richieste politiche più esplicite. Per un Paese che negli ultimi dieci anni è stato sottoposto a un controllo politico sempre più serrato – un sistema che ha quasi eliminato ogni tipo di dissenso e di opposizione e che nel 2019 ha represso senza pietà la protesta contro l’estradizione a Hong Kong – una rivolta di massa nel suo cuore industriale da parte di un gruppo di giovani lavoratori migranti è certamente un segnale chiaro: ovunque ci sia oppressione, c’è resistenza; e non tutto può essere sedato con il pugno di ferro.
Una cosa che ho notato nelle ultime due settimane è che, con il rapido svolgersi degli eventi, l’entusiasmo iniziale per le agitazioni dei lavoratori ha iniziato a svanire. L’attenzione si è concentrata nuovamente sulle strade urbane e sui campus universitari delle principali città e sulle narrazioni offerte dalla gente in questi spazi più visibili. Sebbene questi siano decisamente importanti, tuttavia, ciò che gli operai hanno fatto e ciò che la loro rabbia e le loro azioni hanno mostrano quanto alla natura del regime del PCC, cioè una modalità di accumulazione del capitale spietata e approvata dallo Stato che sta facendo a pezzi il proprio tessuto sociale, deve rimanere al centro della nostra attenzione.
Traduzione di GioGo
L’articolo originale qui tradotto è stato pubblicato in inglese sulla rivista Tempest lo scorso 5 dicembre.
Immagine: Cartellone di propaganda, foto di GioGo.