Da ormai quindici anni seguo l’evoluzione dell’attivismo dei lavoratori in Cina. In questo periodo, i termini (ma forse sarebbe meglio dire gli ‘umori’) della conversazione sono radicalmente cambiati. Dalla rassegnazione degli anni Duemila, quando i lavoratori cinesi erano descritti soprattutto come vittime passive della globalizzazione, si è passati all’ottimismo dei primi anni del decennio scorso, quando diverse mobilitazioni operaie d’alto profilo hanno alimentato l’idea che i lavoratori cinesi, giovani migranti dalle aree rurali in primis, si stessero ‘risvegliando’. Sotto l’amministrazione di Xi Jinping, questa euforia ha lasciato spazio a una quieta disperazione. Mentre il Partito-Stato che riaffermava il proprio controllo sui media nuovi e tradizionali, lanciava un’ondata di arresti tra attivisti del lavoro, e rallentava drasticamente le sperimentazioni legislative in materia lavoristica, lo spazio per l’attivismo operaio in Cina si è drasticamente ridotto. Oggi, due temi occupano un ruolo centrale nel dibattito: l’emergere in Cina di nuove forme di sfruttamento legate alla nuova economia e la fine di un certo modello politico di attivismo operaio.
Dalla Foxconn a Pinduoduo
Se c’è un’azienda che più di ogni altra viene identificata con lo sfruttamento dei lavoratori cinesi, questa è la taiwanese Foxconn, uno dei principali assemblatori di prodotti elettronici al mondo, particolarmente nota per il suo legame con la Apple. Nel 2010 la Foxconn, che allora impiegava circa un milione di dipendenti in Cina, fece notizia per una serie di tentati suicidi tra i propri ranghi – diciotto solo in quell’anno (quattordici dei quali morirono), tutti giovani migranti tra i diciassette e i venticinque anni. All’epoca, i media cinesi e internazionali coprirono estesamente la storia dell’‘espresso dei suicidi’, raccontando l’alienazione di questi lavoratori lontani da famiglia e affetti, costretti a ripetere per ore le medesime operazioni come se fossero dei robot e sottoposti a una rigida disciplina. Significativamente, alcuni accademici descrissero la scelta di questi lavoratori di ricorrere al suicidio come una forma estrema di resistenza.
Un decennio più tardi, di Foxconn si continua occasionalmente a parlare ma soprattutto in rapporto al programma di automazione che l’azienda sta perseguendo per rimpiazzare i propri lavoratori con veri e propri robot. Il ruolo simbolico che un decennio fa era ricoperto dai dipendenti del colosso taiwanese oggi è passato a due nuove figure: i fattorini impiegati nella nuova economia digitale di piattaforma e i dipendenti di aziende nel settore dell’alta tecnologia. Stando a stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 2019 i lavoratori impiegati direttamente nell’economia digitale di piattaforma in Cina erano 6.23 milioni, appena l’8 percento di una forza lavoro totale di quasi 80 milioni. Secondo altre stime, l’intera forza lavoro nel settore conterebbe oltre 180 milioni di individui, quasi un quarto della forza lavoro totale nel Paese. Se alla metà degli anni Dieci, quando le grandi piattaforme online hanno iniziato a prendere piede in Cina, i fattorini potevano guadagnare una media di circa 10,000 yuan al mese (oltre il doppio del salario medio all’epoca), una recente ricerca delle poste statali cinese ha rivelato che oltre la metà dei fattorini oggi guadagna meno di 5,000 yuan al mese, a fronte di condizioni di lavoro sempre più pericolose e abusive. Questo si traduce in frequenti incidenti sul lavoro, dovuti al fatto che i fattorini si trovano a portare a termine consegne in tempi sempre più rapidi per guadagnare abbastanza da sopravvivere, e pure in tragedie reminiscenti degli eventi della Foxconn un decennio fa, come quando, nel gennaio del 2021, un fattorino in una città del Jiangsu si è dato fuoco in protesta per una disputa salariale.
I dipendenti nelle aziende dell’alta tecnologia spesso se la passano meglio in termini di reddito, ma per farsi strada in un settore estremamente competitivo si trovano costretti a gestire orari di lavoro e pressioni notoriamente insostenibili. All’inizio del 2019, diversi famosi imprenditori cinesi del settore hanno iniziato a promuovere apertamente l’idea di un orario lavorativo ‘996’, vale a dire dalle nove del mattino alle nove di sera, sei giorni a settimana. Nientemeno che Jack Ma, il fondatore di Alibaba e allora l’uomo d’affari più ricco in Cina, dichiarò che il modello 996 rappresentava un’‘enorme benedizione’ per i giovani dipendenti nelle sue aziende, in quanto offriva loro un’opportunità di lottare per i propri sogni che i lavoratori in altre imprese non avevano a disposizione. Sebbene questo tipo di mentalità sia stata oggetto di resistenza e critiche diffuse, il problema del lavoro eccessivo rimane comune. Per citare solo alcuni tra gli eventi drammatici più recenti, alla fine di dicembre del 2020, una lavoratrice ventiduenne di Pinduoduo, una delle principali piattaforme per il commercio online in Cina, è deceduta dopo essere collassata sulla via di casa alla fine di un turno conclusosi a tarda notte. Due settimane più tardi, un altro dipendente della stessa azienda si è suicidato per via del troppo stress sul posto di lavoro.
Attivismo dei deboli
I casi descritti continuano a suscitare costernazione in Cina, non solo tra i lavoratori direttamente interessati ma anche in seno all’opinione pubblica più in generale. Sebbene i tentativi di resistenza in questi settori non manchino, in un contesto in cui i sindacati rimangono asserviti al Partito-Stato e ogni forma di organizzazione operaia indipendente viene percepita come una minaccia al potere costituito, si tratta di forme di resistenza ‘dei deboli’, prontamente represse non appena accennano ad evolvere in forme più strutturate. Ad esempio, negli ultimi anni Chen Guojiang, un giovane fattorino e attivista, aveva creato un embrione di organizzazione (l’‘Alleanza dei fattorini’) attiva attraverso vari canali online e offline nel fornire assistenza a colleghi – dalle consulenze legali a un posto dove dormire – e nel denunciare attraverso i social media le malefatte delle aziende nel settore. Nel marzo del 2021 è stato arrestato e poi incriminato formalmente per aver ‘iniziato litigi e creato problemi’, un crimine generico punibile fino a cinque anni di carcere. Nel caso di Pinduoduo, un dipendente che aveva criticato su internet le condizioni di lavoro nell’azienda è stato prontamente licenziato, per poi rivalersi pubblicando un video di denuncia che ha rapidamente ricevuto decine di milioni di visualizzazioni.
Il recente arresto di Chen Guojiang dimostra come il Partito-Stato rimanga estremamente diffidente nei confronti di ogni tentativo di coalizzare i lavoratori cinesi intorno a un’agenda comune. È anche l’ennesima riprova delle immense difficoltà che ogni tentativo di superare la frammentazione della classe operaia cinese si trova ad affrontare. Ieri come oggi, gli scioperi in Cina non sono mai mancati, ma si è quasi sempre trattato di mobilitazioni limitate alla singola azienda e finalizzate ad avanzare soprattutto rivendicazioni economiche fondate su diritti già concessi per legge. L’emergere delle economie di piattaforma ha ulteriormente esacerbato questa frammentarietà. Se già un decennio fa aziende come la Foxconn facevano di tutto per prevenire l’emergere di forme di solidarietà tra i propri dipendenti, ad esempio allocando lavoratori provenienti da uno stesso luogo in dormitori diversi, alla fine della giornata i lavoratori si trovavano comunque a condividere uno spazio comune, il che facilitava gli scambi di esperienze. I lavoratori nelle economie di piattaforma non condividono neppure un luogo di lavoro fisico, costretti come sono a interagire individualmente attraverso l’impersonalità delle piattaforme. Se questa atomizzazione della classe operaia sta avendo luogo a livello globale, a complicare ulteriormente la situazione per i lavoratori cinesi sono la pervasività del controllo politico sui media nuovi e tradizionali e la completa assenza di organizzazioni sindacali indipendenti.
Eppure, non è passato molto tempo da quella parentesi di ottimismo menzionata all’inizio di quest’articolo, quel periodo nella prima metà del decennio scorso in cui, per un breve momento, si è avuta la sensazione che i lavoratori cinesi finalmente potessero avere voce in capitolo nelle proprie condizioni di lavoro. Allora alcune organizzazioni non governative (Ong) stabilite per fornire assistenza a lavoratori hanno cominciato ad andare oltre l’approccio strettamente legalistico che avevano adottato fino a quel momento, iniziando ad insegnare ai lavoratori come eleggere dei rappresentanti per contrattare collettivamente con le aziende. Queste nuove Ong del lavoro ‘movimentistiche’ promuovevano una sorta di contrattazione collettiva condotta ‘dal basso’ che permetteva ai lavoratori di inventare nuove strategie per confrontarsi con i datori di lavoro, i sindacati e le autorità locali in modo da avanzare rivendicazioni non necessariamente vincolate agli standard minimi previsti dalla legislazione esistente.
Alla metà del decennio scorso, queste organizzazioni stavano ottenendo una serie di significative vittorie in azioni collettive. È stato in quel momento che il Partito-Stato è intervenuto con forza con un misto di concessioni e repressione. Sul fronte delle concessioni, le autorità cinesi adottarono una serie di politiche locali in materia di negoziazione collettiva dei salari, le quali però in assenza di sindacati rappresentativi si dimostrarono largamente inefficaci. Allo stesso tempo, l’apparato della pubblica sicurezza lanciò un giro di vite contro le Ong del lavoro in prima linea nel promuovere la contrattazione collettiva. Sebbene non fosse la prima volta che queste organizzazioni finivano sotto attacco, sotto Xi Jinping la pressione su questi attivisti ha raggiunto livelli frenetici ed è diventata costante, cominciando con un’ondata di arresti di attivisti nel dicembre del 2015, alla quale fece seguito una campagna diffamatoria sui media nazionali. Tutto questo pose effettivamente fine all’esperimento delle Ong del lavoro con la contrattazione collettiva.
Negli anni successivi, altri gruppi di attivisti hanno tentato strategie radicalmente diverse. Nel 2018, in un momento in cui l’attivismo operaio in Cina era già in crisi, i lavoratori della Jasic, un’impresa privata di Shenzhen specializzata nella produzione di macchinari per la saldatura, si sono mobilitati per rivendicare non solo condizioni di lavoro migliori, ma anche il diritto di stabilire un sindacato aziendale che rappresentasse davvero i loro interessi. Ciò che differenziava questa mobilitazione da altre proteste simili che avevano avanzato pretese simili in passato era il coinvolgimento di studenti maoisti da alcune delle più importanti università cinesi. Alcuni di questi studenti giocarono un importante ruolo clandestino nell’organizzare la protesta e, quando i lavoratori inevitabilmente si scontrarono con l’apparato repressivo della pubblica sicurezza, decine di loro compagni viaggiarono a Shenzhen per manifestare pubblicamente la propria solidarietà. Le conseguenze furono disastrose tanto per gli studenti quanto per i lavoratori, molti dei quali finirono vittima di una campagna repressiva che nei mesi successivi colpì i gruppi studenteschi marxisti nei campus universitari cinesi. Anche attivisti di Ong del lavoro che con la protesta della Jasic avevano avuto poco o nulla si trovarono a fare i conti con la furia del Partito-Stato.
Cosa rimane
L’esperimento delle Ong del lavoro cinesi con la contrattazione collettiva nella prima metà degli anni Dieci e la protesta della Jasic nel 2018 hanno rappresentato il canto del cigno per una certa idea politica di attivismo operaio cinese. È risaputo come il Partito-Stato abbia imposto al movimento dei lavoratori in Cina forti limiti tanto sul piano pratico, attraverso l’assegnazione del monopolio dei lavoratori a un’unica organizzazione sindacale controllata dalle autorità, quanto sul piano discorsivo, con l’approvazione e disseminazione di un apparato imponente di leggi sul lavoro che codificano nei minimi dettagli ciò a cui i lavoratori hanno diritto. I lavoratori della Jasic e le Ong del lavoro hanno cercato di sfidare entrambe le costrizioni. Mentre l’esperimento delle Ong del lavoro con la contrattazione collettiva promuoveva un’idea di attivismo fondata sulla capacità dei lavoratori di organizzarsi autonomamente per rivendicare interessi piuttosto che diritti calati dall’alto, gli studenti e i lavoratori della Jasic hanno cercato di reintrodurre nel movimento dei lavoratori cinesi il linguaggio della lotta di classe, rivelando la natura eminentemente politica di istanze che nella Cina contemporanea, per ragioni di convenienza, vengono solitamente mascherate in termini economici. In entrambi i casi, la disfatta è stata pressoché totale.
Ciò che resta sull’onda del naufragio di questi due esperimenti è la quieta disperazione che menzionavo in apertura. Sia ben chiaro: scioperi continuano ad avere luogo giorno dopo giorno nelle fabbriche e nei posti di lavoro cinesi, ancora oggi non mancano Ong che offrono consulenze legali e attività culturali per i lavoratori e l’interesse ad esplorare e promuovere una visione ‘altra’ del mondo del lavoro non è certo morto tra molti lavoratori e studenti cinesi. Eppure, di fronte al crescente potere repressivo del Partito-Stato, unito alla capacità infinita del capitale di innovare le frontiere dello sfruttamento e alla crescente atomizzazione della classe operaia a causa dei mutamenti strutturali dell’economia, è lo spazio per la sperimentazione politica nel campo del lavoro e oltre che è venuto progressivamente meno. In un contesto simile, l’attivismo operaio non può che seguire i canali pratici e discorsivi imposti dal Partito-Stato, assumere le forme tipiche della resistenza dei deboli oppure concludersi in tragedia. Forse un giorno si scoprirà che le esperienze del decennio passato non sono state vane, che sono state il fertilizzante per una nuova generazione di attivisti, ma al momento le prospettive per il movimento dei lavoratori in Cina (come peraltro altrove) appaiono grame.
Articolo pubblicato su Gli Asini, Agosto-Settembre 90-91 2021.
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