In Cina, come altrove, il cinema racconta storie – principalmente. Vi sono, è giusto notare, anche finestre aperte su altri orizzonti, ovvero il cinema sperimentale, d’avanguardia, di ricerca – scelte che si concentrano sulle specificità del mezzo, quali il montaggio o il visivo, e che cercano sensi e affetti al di là (prima o dopo o in mezzo) del messaggio spesso insito nelle evoluzioni personali dei protagonisti. Ma, come altrove, il cinema in Cina è soprattutto narrativo, e come altrove, deve rispondere a diktat statali che regolano il suo discorso. La situazione della Cina è però specifica nella misura in cui la struttura elefantiaca della produzione cinematografica oscilla tra la necessità di creare un soft power a uso tanto interno quanto esterno, restando rigorosamente monitorata dal film bureau. Le contraddizioni insite nello stretto legame tra industria del divertimento e propaganda appaiono evidenti: da un lato i produttori cercano formule che piacciano al pubblico in una logica di mercato: proliferano dunque commedie, film d’azione, blockbuster di genere (azione, guerra, fantascienza) che ottengono spesso ottimi riscontri al botteghino locale; ma che non riescono, tranne rarissimi casi che appunto confermano la regola, a sfondare sul mercato globale – si dovrebbe guardare caso per caso, ma, in generale, il pubblico straniero rimprovera ai grandi film cinesi popolari una reticenza colpevole in rapporto a ogni rappresentazione troppo controversa, sessualità esplicita, violenza eccessiva, ambiguità morali. Un diffuso buonismo pedagogico infantilizza spesso meritorie produzioni commerciali cui manca il mordente critico che permette a Parasite o One Cut of the Dead di suscitare entusiasmi transnazionali. D’altro lato i film esplicitamente propagandistici valicano raramente le frontiere tanto appaiono tagliati in grana grossa. Si pensi al film Wolf Warrior (il titolo è stato adottato dai giornalisti per parlare dei falchi dell’amministrazione Xi), il cui nazionalismo militarista e razzista non può non far storcere il naso a uno spettatore vagamente critico. Essi non sono, però, privi di interesse storico-sociale per decifrare le istanze propagandistiche della Cina contemporanea. Cosa c’è di meglio, allora, di tuffarsi in una rassegna dei film usciti in concomitanza con il settantesimo anniversario della fondazione della RPC?

Mi soffermerò su un paio tra i più interessanti, My People, My Country e Mao Zedong 1949, magistrali esempi di film storici di propaganda ove la Cina racconta e si racconta la sua propria storia, narrando al presente le gesta dei condottieri e del popolo in un tripudio di bandiere e toni enfatici. Talvolta sorprendenti di ingenuità, questi film raccontano anche l’assoluta padronanza tecnica dell’industria cinese, che produce oramai impeccabili blockbuster; essi, come vedremo, raccontano anche la capacità del governo di federare (certo, sotto quali pressioni non è dato sapere) i più importanti professionisti del settore (attori e attrici, registi e scenografi) uniti in un coro sincrono di fierezza e orgoglio.

Mao Zedong 1949 (决胜时刻 Juesheng shike, 2019)

Il più impressionante, ma non certo l’unico. Anzi, figlio di un’eredità ormai consolidata. Basti notare che il regista Huang Jianxin 黄建新 era già a capo dei grandiosi blockbuster storici The Founding of a Republic (建国大业 Jianguo daye, 2009) e The Founding of a Party (建党伟业Jiandang weiye, 2011). Huang Jianxin, peraltro, è annoverato tra i registi che contribuirono al rinnovo del cinema cinese all’alba degli anni Ottanta, segnatamene con la commedia nera The Black Cannon Incident (黑炮事件, Heipao shijian, 1985),e i seguenti Dislocation (错位, Cuowei, 1986) e  Samsara (轮回 Lunhui, 1986). Anche lui, si vede, è stato inglobato dal sistema per diventarne uno dei cantori più blasonati.

Si scrive e riscrive la storia, dunque, con perizia tecnica e chiarezza d’esposizione. Mao Zedong 1949 è paradigmatico: un’analisi ravvicinata del discorso che veicola permette di ritrovare elementi caratterizzanti il genere stesso (per dire, io lo userò nei miei corsi scena per scena, tanto è codice e codificatore). Il film narra, come indica il titolo originale, il momento della vittoria, ovvero la liberazione di Pechino e l’avanzata vittoriosa verso il sud – una volta valicato il fiume Yangzi, l’armata comunista abbatte le resistenze del partito Nazionalista di Chiang Kai-shek spingendolo all’esilio verso Taiwan.

Il film ha un solido impianto pedagogico: l’ingresso di ogni personaggio è accompagnato dal nome, titolo, funzione. Mao in primis. L’attore che impersona Mao è un veterano, avendo già vestito i panni del Grande Timoniere in svariati film. E ha peraltro un bellissimo nomen omen: Guoqiang (国强 “il paese forte”). Forse uno pseudonimo, non saprei, ben scelto in tal caso. Paradigmatico, dicevo: la figura di Mao è su ogni cosa paterna. E paternalista, beninteso. Il timoniere è sistematicamente rappresentato, e questo film ne è cristallizzazione, sorridente e benevolo. Numerose scene lo mostrano discutere con soldati, familiari, uomini e donne del popolo; e sistematicamente, il buon Mao ha sempre una parola dolce, un consiglio, un sorriso. Mao adotta il popolo, sovente un giovane militare (si veda per esempio My Long March 我的长征 wode changzheng, Zhai Junjie 翟俊杰, 2005).1)Corrado Neri, “Is the Long March a dream? Imagination, nationalism and multiple declination of a real mythology”,  East Asian Journal of Popular Culture, Vol. 1, 2, 2015,  271-284. Qui l’oggetto della sua benevolenza è principalmente il giovane Xiao Tian. Di stazione presso il quartier generale di Mao Zedong, il giovane guarda il Timoniere con occhi brillanti di adorazione; ricambiata, poiché il buon Mao gli permette di andare a visitare la famiglia per verificare che stiano tutti bene e che la riforma terriera sia stata effettuata con successo. E programmaticamente il villaggio è inondato di luce fertile, la famiglia ha beneficiato delle riforme e può infine provvedere ai suoi bisogni. Ecco dunque un elemento importantissimo e ricorrente delle narrazioni cinesi del XXI secolo: l’economia va meglio, il Partito garantisce il benessere, il popolo ha, infine!, di che mangiare. Può sembrare anodino, e ci torneremo, ma un elemento che sorprende è la totale assenza di manifesti ideologici in questo film (che lo ripeto può essere considerato capostipite del genere, le formule trovate qui sono elaborate da due decenni e affinate dall’amministrazione Xi). Nella narrazione cinese ufficiale contemporanea2)Rimando al chiarissimo articolo citato da Marco Fumian nella call: http://theory.people.com.cn/n1/2019/0222/c40531-30897581.html non c’è grande spazio per discussioni di fondo sul comunismo, socialismo, sui dettagli della collettivizzazione, dell’organizzazione statale etc. Troviamo, invece, un vuoto patriottismo che assomiglia a un contenitore da riempire, purché ben avvolto dalla bandiera rossa. Nel senso: guardando questo film e gli altri del genere non apprendiamo un granché della filosofia politica, del pensiero di Mao, Lenin, Marx (e soprattutto Xi), o delle diatribe coeve sulla costruzione della nazione. Il “sogno” è un involucro che abbraccia un nazionalismo vago, dunque riempibile di elementi eterogenei. Vedremo meglio dopo. Per ora mi soffermo sul tema soldi/lavoro. Altre scene narrano, con evidente prospettiva contemporanea, il rapporto di Mao con il denaro e il lavoro – dunque l’economia.

Nella prima, dopo aver assistito a una rappresentazione di opera tradizionale (ci ritorno tra breve) Mao mangia in un ristorantino per la strada; il gestore ha parola benigne nei riguardi dell’esercito di liberazione (“finalmente adesso tutti pagano, grazie alla sorveglianza dell’esercito”); si lamenta dell’inflazione; Mao chiede il conto, il proprietario non lo vuol far pagare; Mao insiste, pur non avendo soldi con sé (ci mancherebbe che la sua purezza venisse contagiata dal vile denaro!);  ma insiste, i buoni conti fanno i buoi amici, dice, e  la camera si sofferma sulle mani del suo sottoposto che paga il dovuto). Stacco: scena drammatica che mostra i soldati nazionalisti che portano via nottetempo bauli carichi d’oro dalla banca centrale; il discorso (la gushi) è chiarissima: Mao ridistribuisce il denaro (ma attenzione, non lo elimina, in fondo sappiamo retrospettivamente che arricchirsi è virtuoso) mentre al contrario Chiang Kai-shek sta privatizzando il tesoro nazionale. Le parole di Mao risuonano familiari: sono i discorsi di Xi Jinping. Che ora, dopo essersi ispirato al Grande timoniere, con un’operazione di riscrittura storica, fa in modo che l’immagine filmica di Mao corrisponda alla sua. Un po’ come Terminator che torna nel passato per riscrivere la storia, i think tank presidenziali fanno in modo che lo spettatore vedendo Mao sullo schermo lo identifichi col leader attuale.

Si diceva, Mao è il padre putativo della patria. Ma anche padre biologico, e suo figlio, senza sorprese, è un esempio fulgido di integrità morale. Il giovanotto infatti è presentato come devoto seguace del padre, anzi, spinge ancor più forte la dedizione alla causa. Il padre gli domanda “che piani hai per il futuro?” e il baldo giovine risponde “andrò in fabbrica a lavorare!”, al che Xi Dada (no, confondo, Mao Papà) gli risponde con fierezza: “Durante la guerra hai combattuto a fianco dei soldati; dopo la guerra, sei andato nello Shanbei a lavorare come contadino; e ora vuoi diventare operaio! Operaio, contadino e soldato: hai sperimentato davvero tutto!” – il che rimanda all’esperienza dei giovani istruiti mandati a educarsi presso i proletari, e passa la spugna sulla progenitura dei dirigenti attuali, Xi in primis, che va ad Harvard.

Un ulteriore elemento che colpisce della tensione programmatica del film è che la figura di Mao assume anche le veci di mezzano. È infatti lui a benedire, spingendoli l’uno nelle braccia dell’altra (figurativamente), il soldato sottoposto al suo servizio e la giovane annunciatrice della radio. Mao consacra la loro unione, anzi la fomenta facendo in modo che i due si trovino nella stessa unità lavorativa. L’importanza di questo passaggio è doppia: da un lato, pare ci sia la necessità di inserire una pur breve parentesi romantica, verosimilmente per soddisfare il pubblico contemporaneo (va da sé che tutti gli attori sembrano usciti dalle pagine di una rivista patinata). In filigrana spuntano però altri elementi inquietanti: da un lato Mao assume le funzioni di un padre anche nella proposta di un matrimonio combinato ove gli individui non hanno voce in capitolo se non a cose fatte. Matrimonio combinato è retaggio della vecchia società feudale, ma il Partito recupera l’onere e la storia ci dice che negli anni seguenti le unioni saranno gestite dal partito che fornisce i certificati matrimoniali, peraltro secondo discriminazioni di classe basate sulla nuova doxa comunista. E certo questo film non implica alcun tipo di critica riguardo alla legittimità del partito di gestire la vita personale (avevo scritto “privata”, ma è un termine dissonante nella Cina maoista). Eppure, lo spettatore di oggi può vedervi tanto una sottotrama romantica aggiunta per rendere più commerciale il film oppure un’inquietante visione della biopolitica cinese – che non dimentichiamo ha anche imposto un ferreo controllo delle nascite con la politica del figlio unico.

Da notare infine come questa parentesi romantica sia assolutamente asessuata. E non parlo certo di centimetri di pelle, visto che quand’era in vigore il codice Hays ad Hollywood i registi riuscivano a suggerire vibranti passioni senza mostrare alcunché; nelle narrazioni ufficiali cinesi, soprattutto quelle completamente in linea col partito, si rifugge da ogni tipo di passioni erotiche, per descrivere una gioventù protesa tutta e solo alla rivoluzione e alla costruzione nazionale. Una giovinezza pura e innocente, per la quale l’amore e il sesso sono sublimati al servizio del Partito.

Mao porta i suoi “figliocci” a vedere Mei Lanfang. Teatro tradizionale, patrimonio cinese e dell’umanità, eredità culturale originale. Peccato che un cinefilo pensi subito ad Addio mia concubina: chi ricorda il capolavoro di Chen Kaige ha in testa le drammatiche scene durante la Rivoluzione Culturale. Gli artisti subiscono le peggiori umiliazioni delle feroci sessioni di autocritica, in un autodafé drammatico di cui la narrazione cinese, manifestamente, si pente in maniera retroattiva.

La narrazione contemporanea oltre che contenuti crea anche vuoti. Di memoria storica, soprattutto. Non ci si aspetta certo che un film di propaganda contemporaneo si soffermi sulla rivoluzione che di culturale ha ben poco, eppure allo spettatore appena smaliziato questa amnesia storica risulta tratto saliente della narrazione cinese. Qui filmica, ma si può agilmente estendere questa nota alla cultura in generale, e al discorso politico strictu senso. La posta è importante: cosa è la cultura cinese? Cosa ingloba e cosa esclude? Di cosa è fatta? Di cosa parliamo quando parliamo di Cina? Nessuna risposta semplice, naturalmente, perché la Cina come ogni paese/cultura non è monolitica. Raccontare e raccontarsi (creare la propria narrazione) è importante e urgente oggi nel momento in cui la Cina si erge come seconda potenza mondiale, conquista i mercati, si batte contro e diffonde fake news, insomma è attore di spicco della geopolitica globale e lotta per costruire un’immagine e un discorso. Complicato dalla contemporanea tendenza ultraliberale che minaccia di livellare le specificità locali, da cui scaturisce una ricerca forsennata di “specificità cinesi” – come il suo “sogno”. Se spesso queste specificità risultano nebulose purtuttavia il discorso contemporaneo riabilita la cultura imperiale che si era tentato di cancellare durante la guerra fredda. In questo contesto si inscrive la spettacolare resurrezione di Confucio che da nemico numero uno tacciato di avere immobilizzato la Cina in un ingiusto e feudale sistema burocratico diventa ambasciatore di lingua e cultura spedito in tutto il mondo, con le resistenze ben note da parte di istituti universitari che denunciano il tentativo di controllo pechinese sull’autonomia della ricerca. Ed ecco dunque anche risorgere delle scorie della millenaria cultura quale appunto il teatro di Pechino (di tradizione ben più recente, ma si sa le tradizioni si inventano) che entra nella narrazione contemporanea come pilastro della civilizzazione cinese. Passando sotto silenzio le sue drammatiche vicissitudini, come si passa sotto silenzio, nelle innumerevoli scene a Tiananmen, che si progettava di radere al suolo la Città proibita, e che rase al suolo sono state le mura di Pechino e gran parte delle vestigia storiche – Simon Leys è stato la grama Cassandra della sinologia con pagine memorabili in I vestiti nuovi dell’imperatore. Ebbene, in termini di “narrazioni cinesi” la ripresa delle arti “tradizionali” è centrale nella politica odierna; tanto più se, come in Mao Zedong 1949, il Timoniere himself convalida l’inserimento nel canone. Grazie a questa riabilitazione de facto si passa la spugna su ciò che fu la politica maoista riguardo le arti e, con un ribaltone ideologico, il Partito viene mostrato come garante della ricchezza specifica culturale cinese. Non è certo un mistero, i lettori ne converranno; risulta quantomeno interessante la reiterazione sistematica di questi tropi. Essi sono ufficializzati appunto nella serie di film celebrativi della fondazione della RPC, di cui Mao Zedong 1949 è il capofila (e un’occorrenza simile avverrà anche in My People, di più a seguire).

Vero e proprio compendio dei temi forti e delle direttive della politica culturale ufficiale della RPC, non possono mancare in questo film scene spettacolari d’azione. La scelta della paletta cromatica è impregnata di una netta dicotomia. Tutte le scene nel nord già conquistato dall’esercito di liberazione sono immerse in una sciropposa luce calda, giallo rosso ocra. Il sud ancora nelle mani di Chiang Kai-shek è invece tetro, grigio, piove sempre, tutto sembra fatto di metallo. Ciò detto va sottolineato come Chiang Kai-shek sia rappresentato (come nel già citato Building a Nation) in una luce sempre grigia ma più favorevole rispetto all’intransigenza della guerra fredda. In particolare, il film mostra il Generalissimo rinunciare a bombardare la piazza Tiananmen il giorno della cerimonia della fondazione della RPC. Le ragioni di questa scelta sono aperte alle illazioni: mostrare il nemico come buon perdente potrebbe essere strumentale a un riavvicinamento a Taiwan sottolineando la fraternità – indi la necessità di riunificazione? O forse solo che, nonostante il film non sia proprio raffinato, il pubblico odierno accetta più facilmente rappresentazioni sfumate che non demonizzazioni caricaturali. Non sono le scene caricaturali che mancano, però: guerra e sacrificio sono, è noto, pilasti della doxa comunista. Osservando le sequenze che raccontano la battaglia sul fiume Yangzi, si è impressionati dalla grande qualità tecnica del cinema cinese che ormai ha sempre meno da invidiare a Hollywood; se uso il termine invidia, non è casuale: il tormentone del cinema commerciale cinese è quello di “mettersi al passo” di Hollywood: infiniti libri e interventi e articoli infatti sollecitano l’industria ad attrezzarsi per rivaleggiare con Hollywood usando le stesse armi dell’Occidente. Quasi eco degli slogan del Grande Balzo in avanti, la Cina si deve riprendere dall’umiliazione delle guerre dell’oppio e attrezzarsi tecnicamente per rivaleggiare col nemico. Stessa battaglia al cinema, che si fornisce di sale in 3D e IMAX, che produce effetti speciali sempre più perfezionati, che vuole fare di più e più in grande del modello hollywoodiano – quindi, combattere nell’agone liberale andando alla ricerca di ciò che piace al pubblico. Questioni sull’originalità e la coerenza di queste pretese sono legittime, ma qui entriamo in un nodo che la globalizzazione e l’antropocene hanno verosimilmente azzerato: nell’era della comunicazione risulta difficile se non impossibile definire un’essenza culturale, se mai lo è stato nella storia dell’umanità. Qui però abbiamo una sequenza iconica: infine valicato il fiume tra esplosioni e pallottole, il battaglione affronta all’arma bianca i soldati dell’esercito repubblicano. Il giovane Xiao Tian si inerpica su una collina ove il portabandiera sta issando il drappo rosso. Costui viene colpito da una pallottola, si accascia al suolo, e Xiao Tian arriva giusto in tempo per reggere l’asta. Sarà a sua volta colpito, ma i commilitoni arrivano per dargli man forte. Xiao Tian si accascia contro l’asta della bandiera, ma essa resta verticale, sorretta da un gruppo di soldati. Quest’immagine iconica risulta interessante per più motivi. Innanzi tutto, reitera l’ossessione formale e visiva della bandiera. In questo film, così come in My People, e in infiniti altri esempi, la bandiera sostituisce un discorso ideologico. Cosa ci sia dietro, lo possiamo immaginare. Anzi lo dobbiamo immaginare, perché questi testi non fanno che ripetere vuoti contenitori: “patria”, “Cina”, “comunismo” senza problematizzarli. Ma che importa, una volta che la coesione popolare si solidifica dietro un simbolo che può trascendere la dialettica. Inoltre: il nugolo di soldati che regge e protegge la bandiera richiama immediatamente alla memoria l’iconica fotografia di Joe Rosenthal. Che peraltro Clint Eastwood decostruisce in Flags from our Fathers, rielaborando i dettagli dello scatto e la sua manipolazione in termini propagandistici. Verrebbe da credere che i cineasti cinesi non frequentino molto Clint, o abbiano una memoria ben selettiva, o che – più verisimilmente – facciano conto sull’amnesia del pubblico cinese. Così l’alzabandiera è descritto qui in primo grado. Ci muore contro un ragazzino, la sequenza è accompagnata da un’orchestra wagneriana (niente Cavalcata delle Valchirie perlomeno), insomma la celebrazione dell’eroico sacrificio degli eroi è appunto una celebrazione destinata a smuovere passioni e fedeltà.

Questa immagine, dicevo, pone dei seri quesiti di legittimità. Non credo certo che si possa identificare una cultura cinese (o italiana se è per questo) univoca o monoblocco. Dalla Cina, però, sorgono frequenti le ingiunzioni a rigettare materie accademiche occidentali, a spezzare la catena servile nei confronti dell’occidente per sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi, così come i blockbuster con caratteristiche cinesi. Ebbene, si è visto che, se queste “caratteristiche” esistono, esse sono fini, pervasive, mutevoli, in continuo confronto con l’Altro e in continua mutazione. Certo, la linea tra il plagio e l’assimilazione, tra la copia pedissequa e l’ispirazione è talvolta sottile. Come qui: il modello hollywoodiano (già globale) è visivamente evidente ma non assumé. Sfacciato, e anche un po’ ridicolo se non fosse serissimo. Segni potenti, e vuoti: americani o cinesi poco importa, un gruppo solidale di soldati difende la bandiera con il proprio corpo e il loro sacrificio sarà esemplare per tutta la nazione. La nazione è costruita su quei corpi, e guarda lo sfarfallio identitario con le lacrime agli occhi di orgoglio. Indi la necessità di nuove narrazioni che offuschino il fisiologico scambio e incontro con altre culture per essenzializzare l’esperienza cinese. Molti artisti cinesi, sia ben chiaro, non solo riconoscono la complessità dell’eredità culturale, ma elaborano strategie per renderla ulteriormente ricca e contraddittoria. Non è il caso dei film celebrativi quali Mao e…

My People, My Country (我和我的祖国 Wo he wode zuguo, film a episodi diretto da: Guan Hu 管虎, Zhang Yibai 张一白, Xu Zheng 徐峥, Xue Xiaolu 薛晓路, Ning Hao 宁浩, Chen Kaige 陈凯歌, Wen Muye 文牧野, 2019)

 My People, My Country è rappresentativo per più di una ragione. Innanzitutto, il successo al botteghino: il film è rimasto in testa alle classifiche per parecchie settimane. I dati cinesi (come ben sappiamo, non solo quelli relativi alle sale cinematografiche) sono difficili da valutare. La seduzione di questo film però no, il che mi porta al secondo punto: sette tra i principali registi della Cina d’oggi, capitanati da un maestro della quinta generazione (Chen Kaige, da tempo oramai fuori dai radar dell’attenzione critica), una marea di attori e attrici celebri: come già nei già citati Building (Nation, Party), ma in versione reloaded, tutto il cinema cinese risponde presente all’appello della madrepatria. Sembra un po’ Celebrity di Woody Allen o un Ocean’s Eleven Prêt-à-porter di Altman: vetrina delle star più fulgide del cinema cinese, My People dice chiaramente che l’artista in Cina deve rispondere all’appello della madrepatria. Non è certo questo il luogo – e poi sinceramente le motivazioni degli attori ed artisti, mistero! – per criticare una ipotetica passiva acquiescenza verso il potere. Fa male, però, vedere Simon Yam, icona del cinema hongkonghese, che alla fine dell’episodio dedicato alla riconsegna di HK si leva in piedi e porta la mano al petto e piange lacrime di fierezza.

 Il filo conduttore del film è già indicato nel titolo, e il tono trionfalistico è coerente con l’intento celebrativo: sette storie che ripercorrono altrettanti momenti gloriosi della RPC.  Mi soffermo allora su qualche sequenza chiave. Primo episodio. Riusciranno i nostri eroi a far sì che l’alzabandiera avvenga senza intoppi – proprio la celebrazione che Chiang Kai-shek nel film precedente aveva rinunciato a bombardare. La storia ci dice di sì, non tratterremo il respiro. Ma l’eroe (interpretato dall’eccelso Huang Bo) non può farcela da solo. Nessuno a dire la verità ce la può fare da solo e il leitmotiv del film è già racchiuso nel titolo: il popolo coeso è il vero eroe. Ecco la sequenza di cui dicevo: il meccanismo s’è ingrippato, la squadra di ingegneri ha bisogno di silicio, cromo e nickel per sostituire un pezzo d’acciaio arrugginito. Un soldato allora sale sul tetto e da un altoparlante arringa la notte di Pechino chiedendo ai cittadini di portare tutto ciò che possono. La tensione è al culmine poiché nessuno appare… sino a quando un basso violino ci annuncia che un momento emotivo sta per arrivare, ed ecco la folla che in massa arriva e porta porta porta, ognuno contribuisce con ciò che ha. L’intellettuale offre le stecche dei suoi occhiali, la massaia i suoi utensili da cucina e il fisico apre addirittura i laboratori per portare il cromo necessario. Visivamente spettacolare, Guang Hu filma la folla festosa che in piena notte da man forte e sacrifica possessi personali per il bene ultimo. Uomini, donne, vecchi e bambini. Vediamo pure un attore dell’opera di Pechino, ancora truccato, che sgomita per dare il suo contributo. Alla luce fioca delle lampade elettriche l’inquadratura mostra un presepe comunista dove il soldato china il capo per ringraziare i doni di tutta la popolazione. In filigrana: il cinefilo ricorda le scene di Vivere! (Zhang Yimou) quando al culmine del grande balzo in avanti viene chiesto a tutti i compagni di donare ogni oggetto di metallo; il protagonista (Ge You, che recita anche in My People) trova una scusa per non cedere le stecche di metallo delle sue marionette, “tesoro culturale”. Simmetria narrativa inquietante, perché in My People il riferimento al delirante progetto degli altiforni, che causò un numero imprecisato ma certo altissimo di vittime, è probabilmente non voluto – o è sfuggito ai censori? Questa aporia della narrazione è strutturante delle storie ufficiali della Cina di oggi, protesa a raccontare favole di altruismo disinteressato e generalizzato, ove tutte le tensioni e entusiasmi sono convogliati verso la costruzione della Nuova Cina. L’impresa riesce e Guang Hu filma una sequenza straordinaria (ma che mi ha fatto scorrere un brivido lungo la schiena): l’attore Huang Bo è incrostato digitalmente accanto a Mao durante la proclamazione della Fondazione della Repubblica Cinese. Nihil sub sole novum, si pensi a come già nel 1994 Zemeckis inseriva digitalmente l’ingenuo Forrest Gump all’interno di filmati storici. Ancora una volta però, questa immagine trionfalistica porta un retrogusto amaro. La scrittura della storia cinese ha l’abitudine di cancellare volti diventati scomodi. Non è più opportuno che Lin Biao sia ritratto accanto a Mao, e la censura si occupa di cancellare dalle fotografie il volto del generale caduto in disgrazia. Leggo Yomi Breaster, che discute di Tiananmen, film del 2009 che ricostruisce la medesima cerimonia discussa nelle righe precedenti e che, come appunto in My People, abbonda di discreti effetti digitali che rimodellano la storia: “The digital manipulation of the founding ceremony is symptomatic of the disregard for historical representation in the age of the blockbuster, not because the film distorts the facts but precisely because the distortion is minimal. (…) Tiananmen engages in historiography offhand, and its special effects reduce the founding ceremony to an easily digested, flattened symbol, valued for its easy use as a graphic icon. The makers of Tiananmen have restyled the founding ceremony, the ground zero of the socialist nation-state and its cinematic iconography. Modifying this particular image asserts an unmediated and transparent continuity between China’s revolutionary history and its cinematic representation.Tiananmen, like face-in-hole frames at amusement parks, turns the historical event into an entertaining photo-op. It anticipates, and aspires to, the hybrid humanoids in Avatar”.3)Yomi Braester, “The Spectral Return of Cinema: Globalization and Cinephilia in Contemporary Chinese Film” in Cinema Journal, Vol. 55, 1, 2015, 29-51.

Il digitale non aumenta solo, ma può anche cancellare. Di nuovo, dubito che Guang Hu volesse farmi freddo alla spina dorsale quando ho visto la sequenza finale del suo cortometraggio, o chissà, forse sì, come gli artisti arabofoni del gruppo “Arabian Street Artists”  chiamati a dare un tocco di “verosimiglianza” a Homeland scrivendo graffiti sui muri, senza che la produzione si accorgesse se non dopo la messa in onda che il testo leggeva: “Homeland è razzista; Homeland è una farsa, ma noi non stiamo ridendo”. Lapsus o easter egg, dubito che Guang Hu risponderebbe a una domanda diretta. Comunque sia, il cortometraggio resta un brillante esempio delle narrazioni della Nuova Cina: pomposi momenti emotivi che raccolgono tutto il popolo per assistere a spettacoli (qui il leva bandiera, la cerimonia per i giochi olimpici e quella per la riconsegna di HK) – quindi spettacolo di spettacolo; la collettività che aderisce alla volontà di partito come il saggio aderisce ai riti, ovvero con la spontaneità venuta da una lunga pratica; l’ideologia comunista invisibile, sostituita da un nazionalismo agguerrito.

Ci sono sempre le righe e quel che si legge attraverso. Per esempio, l’episodio di Xue Xiaolu “Passing by”. Tutto il popolo scende in piazza e canta ed esulta per il primo esperimento riuscito di esplosione di una bomba atomica in Cina. Se non avessimo visto Chernobyl proprio l’anno scorso ci sarebbe quasi da sorridere; e a parte i miei riferimenti cinefili, il montaggio parallelo tra la folla festante e il fungo atomico è terrificante.

Una parentesi: il cortometraggio ruota attorno a un magnifico piano-sequenza: uno scienziato, Gao Yuan, è gravemente contaminato – si è sacrificato per il bene comune ficcando un braccio nel reattore (credo) che stava per esplodere (avete visto Chernobyl? stessa scena, ma i soldati “volontari” sono filmati un po’ meno entusiasti). Gao Yuan, dimesso dall’ospedale ma visibilmente debilitato prende un autobus, indossa la mascherina. Una ragazza lo osserva. Lo avvicina. Comincia a parlargli. Capiamo che si tratta della fidanzata dell’eroe, lui ha dovuto abbandonarla per la missione segreta nella centrale nucleare. Questa scena straziante è filmata in un unico piano-sequenza, strumentale a raccontare il conflitto tra singolo e massa, poiché l’amore tra i due è stato sacrificato dalla missione statale, e la tensione tra i due protagonisti monta discretamente sino ad esplodere quando alle loro spalle, fuori dal bus, la folla comincia a radunarsi sventolando bandiere; i due non se ne accorgono subito, risucchiati per un attimo nel bozzolo del loro amore abortito. Poi scendono, il piano-sequenza finisce, e i due si perdono nella folla. Sì, anche un infetto film di propaganda bellica può essere formalmente folgorante, tanto più che qui la forma piano-sequenza non prevede complesse coreografie di macchina, ma si concentra sulla recitazione trattenuta dei due, e crea un’emozione intensa.

Peraltro, le tensioni tra massa e individuo sono accese già dalle prime sequenze. Il generale chiede il nome dell’ignoto scienziato che si è appena sacrificato per la patria. Gli viene comunicato. Il film, che si chiude con i nomi dei personaggi descritti nel film, è anche celebrazione degli eroi senza nome. Nella narrazione cinese contemporanea ci deve essere spazio anche per coloro che sono stati dimenticati dalla storiografia; nel discorso attuale la finzione vuole anche redimere l’individuo. Non solo il Lei Feng di turno, ma individui che, come Gao Yuan, mostrano un lato umano. Personaggi che cercano una realtà psicologica oltre che simbolica.

L’episodio di Chen Kaige, di cui menziono appena lo stile pubblicitario e sbruffone, potrebbe rappresentare metaforicamente il “messaggio” o la narrazione proposta da questi film: la storia non ha alcuna importanza, due pochi di buono apparentemente irrecuperabili tornano a casa – Mongolia interna. Rammentano una storia che il padre gli tramandò: il giorno in cui avrebbero visto una brillante stella illuminare il cielo diurno, avrebbe significato che il popolo che vive in questa terra dura ed arida avrebbe infine potuto menare una vita felice. Il vecchio saggio del villaggio (Tian Zhuangzhuang, fa male vederlo lì) li guida nel deserto e una stella appare all’orizzonte. I due la seguono; si tratta del primo vascello spaziale cinese che atterra nel deserto. Benissimo. Ma perché mai i due fratelli, ladruncoli senza futuro, dovrebbero seguirla? Cosa rappresenta per loro? Niente, cosa potrebbe mai rappresentare? È brillante. E c’è una bandiera cinese sopra. Basta e avanza. Una stella vuota (artificiale) basta e avanza per ridare speranza ai due che alla fine del film si allontanano nel deserto come Clint chez Leone. Ma perché essere fieri? Di cosa? Cosa è la specificità cinese, cosa sono il comunismo e il socialismo, cosa includono e cosa escludono i cinquemila o diecimila (non so più) anni di storia cinese? Non ha nessuna importanza, purché sia sormontata da una bella bandiera a stelle (senza strisce). Non credo che Chen Kaige, che peraltro è il produttore del film, intendesse proprio questo. Le sue immagini lo lasciano supporre, o ci danno la libertà di leggerle così. Finché dura.

È dura anche arrivare alla fine del lungometraggio, ma se si porta pazienza si scopre che il film (che include anche la celebrazione di uno squadrone militare femminile, senza che nessuna donna partecipi dietro alla macchina da presa) finisce con una serie di immagini d’archivio che sono servite come base per My People.

La bandiera che si alza fondazione RPC (comunismo, Marx, Vienna)
La vittoria sportiva (pallavolo)
L’esplosione della bomba atomica (after Manhattan project)
Il ritorno di HK (hub economico e commerciale creato dagli inglesi)
I giochi olimpici (la Grecia antica)
Il vascello spaziale che atterra (la corsa allo spazio della Guerra fredda)
Le frecce tricolore (gli aerei che espellono scie colorate, deve avere un nome ma mi sfugge)

A parte che tutto è avvolto da una bandiera cinese, si vede come riesca difficile trovare delle specificità cinesi. Intendiamoci, tutte le culture si mescolano e rubano e fondono e trasformano e si impadroniscono e adattano e ibridano etc. Infatti, il nazionalismo è assurdo. Temo che molte delle zhongguo gushi, perlomeno quelle del cinema popolare/ufficiale, siano assurde. Ma non divertenti come una pièce di Beckett o Ionesco.

CODA

Ho finito lo spazio. Ma devo aggiungere per evitare fraintendimenti: non tutto il cinema cinese è assurdo. Anzi. Basta guardare opere quali il magistrale documentario A Young Patriot (杜海滨 Du Haibin, 2015) – per restare nell’ambito del patriottismo/nazionalismo – per trovare raffinate elaborazioni politico-poetiche sul potere dei media, la malleabilità delle masse, la vertigine dell’assenza di ideali. Young Patriot è stato girato ben prima dei film trattati qui, ulteriore riprova della lunga continuità della nostalgia socialista, e della longevità delle sue forme – iconiche e ritmiche. Il regista Du Haibin segue il giovane protagonista per quattro anni, raccontando di come un patriottismo fervente nutrito di vacua propaganda si intorbidisce con il maturare del carattere individuale e l’osservazione sofferta delle lotte interne al partito e dei processi per corruzione, su tutti quello che ha travolto Bo Xilai, idolo del giovane protagonista.

Ma questa è un’altra gushi.

Neri, La Cina se la racconta PDF

Immagine: Locandina del film Juesheng Shike (particolare)

Corrado Neri (corrado.neri@univ-lyon3.fr) è professore associato all’università Jean Moulin, Lyon 3. Il suo primo libro è una monografia sul regista taiwanese Tsai Ming-liang (Cafoscarina, 2004); Âges inquiets: Cinémas chinois, une représentation de la jeunesse (Tigre de papier, 2009) si dedica all’analisi del Bildungsfilm nel mondo cinese; infine Retro Taiwan: Vintage culturel et imaginaire national dans le cinéma sinophone contemporain (Asiathèque, 2016) si concentra sulle questioni della memoria e della nostalgia. Oltre a numerosi articoli su riviste specializzate, ha curato Taiwanese Cinema/Le Cinéma taiwanais (con Kirstie Gormley, Asiexpo, 2009) ; Global Fences (con Florent Villard, IETT, 2011); Reinventing Mao: Maoisms and National Cinemas/La Réinvention de Mao. Maoïsmes et Cinémas Nationaux (Special issue of Cinéma & Cie International Film Studies Journal (con Marco Dalla Gassa e Federico Zecca) e Politics and representation in Sinophone Cinema after the 1980s/Politique et Représentation dans le Cinéma Sinophone après 1980 (Special #55 di Monde Chinois Nouvelle Asie, con Jean-Yves Heurtebise).

 

References
1 Corrado Neri, “Is the Long March a dream? Imagination, nationalism and multiple declination of a real mythology”,  East Asian Journal of Popular Culture, Vol. 1, 2, 2015,  271-284.
2 Rimando al chiarissimo articolo citato da Marco Fumian nella call: http://theory.people.com.cn/n1/2019/0222/c40531-30897581.html
3 Yomi Braester, “The Spectral Return of Cinema: Globalization and Cinephilia in Contemporary Chinese Film” in Cinema Journal, Vol. 55, 1, 2015, 29-51.