“… questo vuol dire che nella società dei fratelli l’alleanza sostituisce la filiazione e il patto di sangue la consanguineità. L’uomo è effettivamente fratello di sangue dell’uomo e la donna, sua sorella di sangue; per Melville è la comunità dei celibi a trascinare i suoi membri in un divenire illimitato. Un fratello, una sorella, ancor più veri per il fatto di non essere più il proprio, la propria, essendo sparita ogni ‘proprietà’. Passione bruciante più profonda dell’amore…”

(Gilles Deleuze, Bartleby. La Formula della Creazione)

Una goccia e due tratti discendenti che si intersecano, come a indicare un incrocio, un punto di scambio: yi 义; oppure, nella sua forma originaria non semplificata 義, il radicale di ‘capra’ – che compone termini astratti quali ‘bontà’, shan 善, e ‘bellezza’, mei 美 – sormonta il pronome personale wo 我. Anne Cheng, nella sua Storia del Pensiero Cinese, traduce yi con “il senso di ciò che è giusto” e ricordandone appunto la grafia, commenta: esso “include l’elemento 我 (io, me), rappresenta l’investimento personale di senso che ciascuno apporta nel suo modo di stare nel mondo e nella comunità umana, costituisce la modalità in cui ciascuno reinterpreta la tradizione collettiva conferendovi un nuovo significato”.1)Anne Cheng, Storia del Pensiero Cinese (Torino: Einaudi, 2000), vol. I, 61.

Yi è ‘giustizia’, quindi, ma anche ‘giustezza’: il comportamento giusto e appropriato in una data situazione, in rispettosa sintonia con le circostanze esterne e con il Tian Dao 天道, la Via del Cielo. ‘Giustizia’, ‘appropriatezza’, ‘rettitudine’, ‘buona condotta’, ‘virtù’, ‘dovere’, ed anche ‘senso’, ‘dottrina’…: infinite sono le rese possibili del vocabolo, poiché infinite sono del resto le sue occorrenze all’interno dei testi, soprattutto confuciani, sia pre-Qin che poi di epoca imperiale. Negli Analecta, ad esempio, il Maestro afferma: “Il nobile volge il suo pensiero a ciò che è giusto in assoluto (yi), l’uomo volgare solo al proprio tornaconto personale” (4.16);2)子曰:“君子喻于义,小人喻于利”: per le citazioni dai Dialoghi si è incrociata la versione trilingue cinese classico-cinese moderno-inglese: Lun Yu 论语 [The Analects], trans. Arthur Waley e Yang Bojun (Changsha: Hunan Renmin Chubanshe, 1999), 36-37, e l’edizione italiana: Confucio, Opere, a cura di Fausto Tommasini (Milano: Tea, 1974), 93. o ancora, alla domanda del discepolo Zilu, “Il nobile tiene in pregio il coraggio?”, Confucio risponde: “il nobile pone sopra a tutto la giustizia (yi). Se il nobile possiede il coraggio ma non la giustizia, diventa turbolento; se l’uomo volgare possiede il coraggio ma non la giustizia, diventa un brigante”(17.23).3)Lun Yu 论语 [The Analects], 206-207; Confucio, Opere, 186.

Anche Mencio ribadirà questo primato del codice morale, della condotta virtuosa che eleva la vita al di sopra del piano della mera esistenza, quando per esempio si serve della nota metafora del pesce e della zampa d’orso, poi divenuta proverbiale. “Mi piace il pesce, – disse Mencio – ma mi piacciono anche le zampe d’orso. Se non posso avere entrambi, lascio da parte il pesce e prendo le zampe d’orso. Amo la vita, ma amo anche la rettitudine (yi). Se non posso averle entrambe, lascio la vita per preservare la rettitudine. Certamente amo la vita, ma v’è qualcosa che amo ancor più della vita, e dunque non cerco di preservarla a ogni costo” (6A.1o).4)Anne Cheng, Storia del Pensiero Cinese, 173.

La vita deve conformarsi al dover-essere dell’etica; solo, laddove per Confucio yi corrisponde a un valore supremo e oggettivo, da attingersi tramite l’autocoltivazione e lo studio dei Classici, in Mencio la rettitudine è stata interiorizzata riportandola al cuore della natura umana, che è essenzialmente improntata al bene. A ogni modo, yi divenne una categoria chiave nel lessico della scuola dei letterati, sia come concetto a sé, sia associata all’altra idea portante di ren 仁, ‘benevolenza’, ‘umanità’ o ‘reciprocità’, nel binomio fisso renyi 仁义, oppure in coppia con zhong 忠, ‘lealtà’, ‘fedeltà’: zhongyi 忠义.

Di quest’ultima combinazione concettuale ci occuperemo estesamente nelle pagine seguenti, in cui si tratteranno non più i testi dell’ortodossia confuciana, come gli Analecta o Mencio, bensì un genere di scrittura a lungo ritenuto ininfluente e marginale, tanto da venire bandito per secoli dal canone letterario. Dal punto di vista della letteratura alta, difatti, esso non era nulla di più che l’inutile trascrizione delle chiacchiere oziose del volgo, ‘sciocchezze senza costrutto’, ‘favole che non trovano riscontro nei Classici’ e ‘semplici storielle udite in strada’: insomma, si prenderà in esame il ‘piccolo discorso’ del romanzo, o xiaoshuo 小说.5)Per una genealogia del termine xiaoshuo, si rimanda al classico e insuperato Lu Xun: Lu Hsun, A Brief History of Chinese Fiction (Beijing: Foreign Language Press, 2009), 1-8.

Nel ‘parlare minuto’, nella lingua minore della narrativa, la giustizia espressa da yi, pur mantenendo la centralità e le funzioni attribuitele dai testi ortodossi, acquisterà un senso del tutto nuovo, che, come vedremo, in parte si giustappone senza traumi, in parte invece cozza col significato originario del termine; in almeno due casi (due capolavori, guarda caso), la macchina affabulante dello xiaoshuo, anziché incepparsi nello scarto, sfrutta al massimo la tensione interna al concetto di yi, facendone uno dei propri temi guida. Yi, infatti, divenne così centrale per il discorso romanzesco da figurare sin nel titolo del primo dei ‘quattro picchi’ della narrativa cinese classica, “Il Romanzo dei Tre Regni”, o Sanguo Yanyi 三国演义– alla lettera: “i Tre Regni mettono in scena la giustizia/rettitudine” – e addirittura il genere stesso del romanzo storico prese poi il nome di Yanyi 演义.

Proprio da quest’opera prenderemo le mosse per seguire le evoluzioni del “senso di ciò che è giusto”, e per farlo, dovremo metterci sulle tracce degli eroi senza macchia e senza paura, ma anche dei banditi e degli spiriti assetati di vendetta – e innanzitutto, sulle tracce di Liu Bei 刘备, il legittimo erede degli Han, che mai salì al trono.

Il Giuramento del Giardino dei Peschi

La leggenda del sodalizio fra Liu Bei e i suoi due fratelli putativi Guan Yu 关羽 e Zhang Fei 张飞 è fra le più longeve della cultura orale e popolaresca cinese: veniva già narrata dai cantastorie nelle piazze delle prime città protomoderne Song, attirando folle di giovani e meno giovani; Su Dongpo 苏东坡 (1037-1101) riferisce6)L’aneddoto è riportato da Lu Hsun, A Brief History of Chinese Fiction, 157. che i piccini più scalmanati venivano portati in piazza ad ascoltare le storie dei Tre Regni, il cui potere ipnotico era ben noto a madri e nutrici (non esistendo ancora la televisione…). Tuttora, le gesta di Liu Bei, Guan Yu e Zhang Fei costituiscono il tema di numerosi giochi di ruolo e videogames, in uno singolare incrocio fra entertainment di massa e coltivazione dell’identità nazionale.

Come rileva l’autorevole critico letterario C. T. Hsia (Xia Zhiqing 夏志清, 1921-2013), l’autore del “Romanzo dei Tre Regni” Luo Guanzhong 罗贯中 (1330-1400 ca.) scelse per la propria opera un registro alto, epico, in voluto contrasto con il carattere pop e poco raffinato dei canovacci huaben 话本 e pinghua 平话 dei cantastorie di strada, cercando di risultare il più possibile fedele alle “Cronache dei Tre Regni” (Sanguo zhi 三国志) dello storico Jin, Chen Shou 陈寿.7)C. T. Hsia,The Classic Chinese Novel. A Critical Introduction (Ithaca, NY: Cornell East Asia Series, 1996), 38-39. Il tono solenne del romanzo balza agli occhi del lettore sin dal primo capitolo, quando, con gli stilemi della storiografia di corte, si raccontano in chiave morale e cosmologica la decadenza dell’impero Han, le lotte intestine fra eunuchi e aristocrazia, i segni infausti del caos incipiente (un serpente nero avvolto al trono imperiale, le galline che cantano al posto dei galli, le pestilenze…), e ovviamente l’origine della setta dei Turbanti Gialli, che inferse un colpo mortale alla stabilità del regno. L’epica è altrettanto evidente nella presentazione dei personaggi principali, che vengono sempre descritti nei loro dettagli fisici e caratteriali più prominenti, prima di svelarne il nome. Così, per esempio, entra in scena Liu Bei:

“un uomo non dedito ai libri, eppure assai colto e magnanimo; parco di parole e capace di celare le emozioni dietro un portamento calmo e misurato. Era in cerca di grandi imprese e dell’amicizia di uomini di valore. Alto e imponente, con i lobi delle orecchie lunghi sino a toccargli le spalle e le braccia altrettanto lunghe; gli occhi erano grandi tanto da permettergli di vedere cosa si muoveva alle sue spalle; la pelle era chiara come la giada e le labbra purpuree. Discendeva dal Principe Sheng di Zhongshan, figlio dell’Imperatore Jing degli Han. Il suo nome era Liu Bei”.8)Per la traduzione in italiano il presente articolo si appoggia alla prima versione inglese: Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, trad. C. H. Brewitt-Taylor (Berlin: XinXii, edizione Kindle), pos. 216-221; l’originale è consultabile via Chinese Text Project.

Parimenti, il ‘fratello’ Guan Yu è immancabilmente caratterizzato dalla barba folta, il volto color di giuggiola, gli occhi da fenice e le sopracciglia simili a bachi da seta: questi tratti vengono reiterati nel testo con la cadenza degli epiteti formulaici dell’epica (si pensi ad Achille “pié veloce”, o a Ulisse dal “multiforme ingegno”), rivelando il debito di questo tipo di narrativa con la tradizione orale e in particolare con le mnemotecniche dei cantori, aedi, teatranti, che erano tenuti a ricordare e ripetere testi molto lunghi.

Dunque, l’episodio del patto fra Liu Bei, Guan Yu e Zhang Fei, benché resti avvolto in un’aura mitica e solenne, consona alla storiografia ufficiale (zhengshi 正史), era in realtà un pezzo forte del repertorio dei cantastorie, dai Song ai Ming. Occupa l’incipit e domina l’intera narrazione: Liu Bei sta piangendo di rabbia perché ha appena letto il bando imperiale in cui si dà notizia dei Turbanti Gialli, quando uno sconosciuto alle sue spalle lo provoca: “signore, che senso ha lamentarsi e sospirare, se poi non si fa nulla per il proprio paese?” Quell’uomo è Zhang Fei. Fra i due s’instaura una complicità immediata: decidono quindi di festeggiare il loro incontro recandosi a bere in una locanda, dove, come è noto, s’imbatteranno nel terzo eroe nonché terzo fratello, Guan Yu.

In quel momento Liu Bei, benché sia di stirpe imperiale, appartiene a un ramo decaduto del clan e per sopravvivere vende sandali di paglia e intreccia stuoie d’erba; Zhang Fei possiede un appezzamento di terra e fa il macellaio; Guan Yu, infine, si è dato alla macchia, vive nel jianghu 江湖, un luogo fisico che indica anche un preciso status sociale, di cui parleremo più avanti: ha ucciso un arrogante signorotto di provincia, diventando così un fuggiasco. Un sovrano mancato, un fuorilegge e un contadino: per quanto paia assurdo l’assortimento, la sintonia di intenti fra i tre compagni è totale, tanto da richiedere il suggello di un rito. Dietro alla piccola tenuta di Zhang Fei si trova un giardino di peschi che in quel momento è in piena fioritura e in tale locus amoenus della letteratura cinese, avviene il giuramento di eterna amicizia e fratellanza, destinato a mutare i destini del trio.

“Noi, Liu Bei, Guan Yu e Zhang Fei, pur portando un cognome diverso, giuriamo qui di essere fratelli e di prestarci soccorso l’un l’altro; serviremo il paese e aiuteremo il popolo. Non possiamo chiedere di nascere lo stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno, ma ambiamo a morire lo stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno, insieme. Possano il Cielo sovrano e la Terra regina essere testimoni di questa nostra volontà e, se mai dovessimo infrangere questo patto di rettitudine/fratellanza (yi) e carità, possano il Cielo e gli uomini farci a pezzi all’istante!”9)Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, pos. 257-263.

L’episodio in cinese è chiamato Taoyuan San Jieyi 桃园三结义, “il patto di fratellanza del trio nel giardino dei peschi” ed è evidente dal testo che qui jieyi 结义è perfettamente sinonimico di jie xiongdi 结兄弟, a riprova del fatto che sull’albero dell’etica confuciana il frutto dell’innesto della cultura ‘bassa’ dello xiaoshuo è già più che maturo. Yisignifica ancora ‘giustizia’, ma all’interno di una relazione paritaria fra individui che non necessariamente sono alla pari (dal punto di vista della loro estrazione sociale) e che sicuramente non sono consanguinei. Lo slittamento concettuale è compiuto e non a caso sedusse i critici letterari marxisti cinesi: la tentazione di tradurre ‘fratelli’ con ‘compagni’, tongzhi 同志, è forte.

Il capitolo 15 del romanzo delucida attraverso una semplice metafora il senso di yiqi 义气, ossia il codice di lealtà che lega i tre personaggi: proprio in apertura del capitolo, Liu Bei ricorda a Zhang Fei che “i fratelli sono come mani e piedi di un uomo, mentre mogli e figli sono come i suoi indumenti: se un vestito si strappa, lo si rammenda, ma come si può aggiustare un arto mozzato?”10)Nell’originale: “兄弟如手足,妻子如衣服。衣服破,尚可缝;手足断,安可续?吾三人桃园结义,不求同生,但愿同死”; Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, pos. 4029. Qui la versione cinese con testo a fronte: https://ctext.org/sanguo-yanyi/ch15. La metafora serve a liberare Zhang Fei dalle fantasie suicide e dal senso di colpa per essersi ubriacato e non aver fatto la guardia alle mogli di Liu Bei, le quali nel frattempo sono state rapite da Lü Bu 吕布. La famiglia putativa ha dunque la precedenza sui tradizionali legami di parentela.

Come già si è accennato, nel corso della narrazione la legge dei fratelli o yiqi più volte entra in conflitto con il sistema famigliare ortodosso e anzi, la formula stessa del patto siglato nel pescheto contiene una contraddizione esplosiva, attorno a cui si avviteranno alcuni degli episodi più riusciti dell’opera.

Innanzitutto, già nel succitato capitolo 15 si esplicita la contrapposizione fra il codice di fratellanza e la morale corrente, basata sullo Stato-Famiglia (Guo/Jia 国/家) e sorretta da un fitto reticolo di relazioni rigidamente gerarchiche complementari fra loro, come quelle fra padre e figlio, sovrano e suddito, marito e moglie, ove la consanguineità legittima e rinforza la gerarchia. Come sottolinea uno dei massimi esperti (nonché traduttore) del “Romanzo dei Tre Regni”, Moss Roberts, il senso di yi nel romanzo si distacca da quello ortodosso dei Classici, acquisendo una carica semi-sovversiva. Se yi infatti presuppone un rapporto egualitario fra i tre eroi,  il rapporto fra Liu Bei e l’altra figura chiave dell’opera, lo scaltro e fido consigliere Zhuge Liang 诸葛亮, è invece dominato dal valore antagonista  di zhong 忠, il quale come yi implica fedeltà e lealtà assolute, ma non più fra pari, bensì fra il re e il suo ministro/suddito, fra jun 君e chen 臣, in una chiara divisione dei ruoli. Non a caso, vi sarà sempre attrito fra Zhuge Liang da un lato e Guan Yu e Zhang Fei dall’altro.[11]

Lo stratega Zhuge Liang, con la sua statura morale da letterato confuciano à la Du Fu 杜甫 e le sue arti magiche da negromante taoista, entra in scena solo nei capitoli 36-38 e da lì la narrazione prende un nuovo corso. Assai significativamente, viene raccomandato come nuovo consigliere a Liu Bei dal suo predecessore Xu Shu 徐庶, che abbandona il servizio richiamato da una lettera della madre in pericolo (la lettera in realtà è posticcia ed è una trappola tesa dall’acerrimo nemico di Liu Bei, Cao Cao 曹操). A ogni modo, Xu Shu abbandona il suo sire per troppa pietà filiale verso la madre: viene meno al principio di zhongyi 忠义 in nome di xiao 孝e nell’economia del romanzo tale dissidio morale è funzionale alla comparsa di Zhuge Liang.

Questi conduce una vita da eremita in una capanna nascosta nei boschi e Liu Bei dovrà recarvisi per ben tre volte, incappando nei suoi compagni ma mai in lui, prima di fare finalmente la sua conoscenza. Dal punto di vista narrativo, l’irreperibilità del misterioso stratega da un lato crea la giusta dose di suspence, dall’altro dà vita a una serie di gustosi sketch comici, utili a sdrammatizzare il pathos. Il dramma, comunque, resta: in tempi di caos politico, il saggio sceglie il ritiro dal mondo perché sa che mancano le condizioni per riunificare l’impero e riportarvi la pace. È vano opporsi alla Via del Cielo ed è fatale che gli uomini di valore vedano sprecato il proprio talento. Tuttavia, come è noto, alla fine Liu Bei persuaderà Zhuge Liang.

Nel capitolo 38 Zhuge Liang espone la sua famosa visione geopolitica del tripode composto dai regni di Wei, Wu e Shu: affinché Shu sotto il comando di Liu Bei abbia la meglio su Wei, ossia su Cao Cao, sono necessarie alcune decisive campagne e, soprattutto, è cruciale l’alleanza con Sun Quan 孙权, signore di Wu. Il piano potrebbe anche riuscire, malgrado la congiuntura storica tutt’altro che favorevole, se non fosse che esso entra in rotta di collisione con il patto di fratellanza stretto nel pescheto.

Senza ripercorrere i mille fili che compongono la fitta trama dell’opera, ricorderemo qui alcuni passaggi salienti: nei capitoli 76 e 77 il prode Guan Yu, già ferito, si trova preso fra i due fuochi dell’esercito di Wei e degli uomini di Sun Quan. Riesce a battere in ritirata nel distretto di Maicheng, dove spera di ricevere il soccorso del figlio adottivo di Liu Bei, Liu Feng 刘封, il quale però si nega, non essendosi mai sentito amato dallo zio. Il Generale Guan viene infine fatto prigioniero; Zhuge Jin 诸葛瑾, fratello di Zhuge Liang, ora al servizio di Sun Quan, si reca alla sua cella per proporgli la resa e l’alleanza con Wu, ma ovviamente il giuramento fatto a Liu Bei fa sì che il rifiuto netto sia l’unica possibile risposta. Dopo un ultimo colloquio con Sun Quan, Guan Yu viene giustiziato. La sua morte comunque non recide l’antico patto, anzi: impone a Liu Bei e a Zhang Fei di vendicare il fratello e poi non vivere un solo giorno di più.

A questo punto, la formula su cui si regge la yi riguardo al “morire lo stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno” finisce per contraddire lo scopo ultimo del giuramento stesso, ossia la salvezza del regno. Zhuge Liang, non a caso, scorge una stella cadente che gli rivela il destino di Guan Yu, ma al cospetto del suo sire non dirà nulla. Il fine stratega, ispirato dal proprio giudizio infallibile e dal principio di zhong 忠, spera che Liu Bei non rompa l’alleanza con Wu e lasci Sun Quan e Cao Cao a scannarsi fra loro: questa è la chiave di volta per la vittoria di Shu e della casata degli Han. Liu Bei invece, venuto a sapere della morte di Guan Yu per mano di Sun Quan, immediatamente richiama Zhang Fei, apprestandosi a compiere un’ultima campagna suicida contro Wu. Il concetto di yi si trova dunque qui sdoppiato fra la giustizia superiore e impersonale di “ciò che è giusto” per il paese tutto, e il vincolo personale di fratellanza fra i tre eroi. Liu Bei e Zhang Fei ovviamente si faranno trascinare dal legame privato. Zhang Fei precederà il fratello maggiore nel tragico destino che attende entrambi. Nel capitolo 85, quando anche per Liu Bei le ore sono ormai contate, gli spettri di Zhang Fei e Guan Yu gli appaiono in sogno: “noi non siamo uomini, bensì ombre” – gli dice Guan Yu – “il Signore Supremo ci ha concesso di assumere una forma fantasmatica, giacché in vita non siamo mai venuti meno al principio di lealtà fraterna; non manca molto al momento in cui noi tre fratelli saremo di nuovo uniti”.11)Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, pos. 23.237-23.243; quanto all’originale in cinese, vedasi: https://ctext.org/sanguo-yanyi/ch85.

Liu Bei spirerà da lì a poco, ma non senza aver prima lasciato in eredità il regno di Shu Han ai suoi discendenti. Giunge addirittura a proporre a Zhuge Liang di prendere il suo posto, ma questi ovviamente rifiuta la sola idea: come si è già detto, la sua lealtà esiste solo all’interno di uno schema gerarchico in cui i ruoli sono fissi e immutabili.

Comunque, i tre paladini del bene e del principio di yi, Liu Bei, Guan Yu e Zhang Fei, non sono gli unici ad abbandonare la scena a circa due terzi dell’opera: pure l’eroe negativo Cao Cao è destinato a soccombere e seguirà a ruota Guan Yu, ben prima dei suoi due fratelli. Nel capitolo 78 Guan Yu, infatti, apparirà sotto forma di spettro assetato di vendetta sia a Sun Quan, a cui ammazza il braccio destro Lü Meng 吕蒙 impossessandosi della sua anima, sia a Cao Cao, che perseguiterà sino a indurlo a cambiare dimora. L’architetto a cui viene affidato il progetto del nuovo palazzo individua un pero centenario perfetto per la costruzione, il quale però è a sua volta infestato dagli spiriti: nessuno è mai riuscito ad abbatterlo e quando le asce degli uomini di Wei ne incidono la corteccia, l’albero emettendo un sinistro lamento inizia a stillare sangue. La notte stessa, Cao Cao vedrà apparirgli in sogno un figuro vestito di nero che gli annuncia la sua morte e poi lo colpisce sul capo con una spada: l’emicrania che lo assale al risveglio non è che l’indizio di un male che lo porterà presto alla tomba – anche perché, a causa della diffidenza quasi paranoide che da sempre lo contraddistingue, Cao Cao deciderà di rifiutare le cure e condannare a morte l’unico medico che in tutto l’impero sarebbe stato in grado di salvarlo.

Fra le apparizioni di Guan Yu e la vicenda dell’albero fatato, il capitolo 78 riporta noi lettrici e lettori all’origine, nonché fonte di eterna giovinezza, della narrativa cinese: le storie del soprannaturale, i chuanqi xiaoshuo 传奇小说, quel regno d’ombra e di leggenda ove Giustizia e Vendetta si somigliano come due sorelle gemelle, e in cui solo nella morte o in sogno è possibile raggiungere le verità ultime che la vita diurna ci vela.

I temi del sogno, del soprannaturale, degli spiriti che tornano per regolare i conti rimasti in sospeso e, soprattutto, del patto di giustizia e fratellanza condensato nel carattere yi 义, ricompaiono in numerose opere, tanto sono indissolubilmente legati, quasi fusi, con il genere romanzesco. Qui di seguito analizzeremo, seppur più brevemente per ragioni di spazio, un altro capolavoro che porta in sé tutti questi elementi: lo Shuihu zhuan 水浒传, le Biografie della Palude, variamente tradotto come “I Briganti”, “Ai Bordi dell’Acqua”, “Water Margin” in inglese, o anche, assai in linea con i ragionamenti fatti sinora, “All Men are Brothers”.12)Quest’ultimo titolo fu scelto da Pearl Buck per la sua pionieristica traduzione inglese, pubblicata nel 1933.

 La società del Jianghu

 Jianghu 江湖 alla lettera significa ‘fiumi e laghi’, ma i due sostantivi una volta saldati insieme perdono il loro significato originario, venendo a indicare più una condizione che un luogo fisico: la condizione di fuorilegge, o di chi conduce una vita vagabonda ai margini della società. Ne “I Briganti” tali fiumi e laghi coincidono con la realtà geografica delle terre paludose di Liangshan, o Liangshanpo 梁山泊, nello Shandong, una sorta di foresta di Sherwood dove trovano rifugio i 108 eroi (o antieroi, i briganti del titolo) capeggiati dal valoroso Song Jiang 宋江, incarnazione dell’ideale banditesco-cavalleresco che poi diverrà il tratto distintivo di tutte le opere del genere wuxia 武侠 (“cappa e spada”). Il romanzo, con la sua struttura a grappolo, raccoglie le storie di vita – le biografie, appunto, zhuan 传– dei cavalieri erranti e fuorilegge di Liangshan, dedicando a ciascuna uno spazio a sé, per poi farle confluire tutte in un unico intreccio.

Se “Il Romanzo dei Tre Regni” era ambientato all’epoca del tramonto dell’impero unificato Han, le storie della palude, che sono coeve all’opera di Luo Guanzhong (tanto che si è supposto che questi ne sia stato coautore, insieme a Shi Nai’an 施耐庵), si riferiscono a eventi accaduti durante il regno di Huizong 徽宗 (1101-1126) della dinastia Song. L’esistenza della comunità di Liangshan è storicamente attestata, soltanto che, come notò Lu Xun, nella realtà è assai probabile che i ribelli finirono trucidati in massa dalle truppe imperiali,13)Lu Hsun, A Brief History of Chinese Fiction, 171. mentre nelle versioni non ufficiali dei cantastorie, del teatro ed in alcune edizioni del romanzo, a Song Jiang e ai suoi viene concessa un’amnistia: dopo la loro resa e volontaria sottomissione all’imperatore, sono reclutati come esercito ausiliario per sedare la rivolta di Fang La e fermare l’invasione dei Liao.

Al di là del consueto scarto fra storia e fiction, va evidenziato sin da ora il tema della fedeltà all’impero (zhong 忠), da un lato, e, dall’altro, della lealtà fraterna che domina le relazioni fra i briganti (yi 义). Non a caso, il titolo di una delle edizioni più antiche è Zhongyi shuihu zhuan 忠义水浒传. Zhongyi resta insomma un termine chiave, come ne “Il Romanzo dei Tre Regni”, anche se dal punto di vista stilistico e pure contenutistico, le due opere sono parecchio distanti. Ne “I Briganti” la solennità dell’epica decade per lasciare il posto a un registro più basso, a una narrazione più orgogliosa delle sue ‘umili origini’, fra zaju 杂剧 teatrali e huaben – anche, più vicina alla vita quotidiana e dunque ricca di dettagli preziosi per la storia sociale e per la storia dei costumi. Shuihuzhuan è più scopertamente un romanzo, con una sua spiccata vocazione al realismo, controbilanciata comunque dall’elemento fantastico: i briganti – ci viene detto nel primo capitolo – altro non sono che la reincarnazione dei 108 demoni (o “stelle del destino”) che il Maresciallo Hong ha inavvertitamente liberato. Come si vedrà più avanti, non è errato tenere a mente l’incipit quando si valuta il resto della trama e i personaggi.

Per dare un’idea di come sia congegnata la macchina narrativa, citeremo qui una singola figura la cui storia, tuttavia, s’intreccia e si salda alle altre, in un perfetto gioco a incastro. Yang Zhi 杨志, un uomo forte e versato nelle arti militari, ma spesso vittima della sfortuna, smarrisce un carico di pietre preziose destinato alla corte. Dopo aver perso tutto, va in città e mette in vendita la sua sciabola, l’unico bene che gli sia rimasto. L’oggetto attira l’attenzione di un attaccabrighe, che sfida ripetutamente il proprietario a dimostrare il valore dell’arma, sinché questi non è costretto a usarla per ucciderlo. (La scena dello scontro in piazza fra il bullo e l’eroe è con ogni evidenza perfetta per il teatro). Yang Zhi di nuovo cade in disgrazia, anche se ben presto, grazie alle sue doti, viene assunto al servizio del governatore della zona, che gli affida un altro preziosissimo carico: i doni di compleanno per il Ministro Cai Jing 蔡京, uno dei mandarini più corrotti e malvagi della saga. Qui, il destino di Yang Zhi s’incrocia con quello degli altri briganti, di cui alla fine diverrà fratello. I ‘Sette Giusti’ infatti, astuti Robin Hood travestiti da mercanti di datteri, attendono sulla via il convoglio per assaltarlo. Il lettore non può che parteggiare per loro, pur compatendo lo sventurato Yang Zhi, perché già conosce la crudeltà del Ministro. In questo caso è insomma lecito jiefu jipin 劫富济贫, “rubare ai ricchi (e corrotti) per dare ai poveri”. I banditi, capeggiati da Chao Gai 晁盖, ubriacano i portatori e Yang Zhi stesso, che al risveglio dalla crapula, si ritrova a dover rispondere del furto al governatore e, disperato, fugge dandosi alla macchia, mentre i suoi uomini decidono di denunciarlo come complice dei ladri. Yang Zhi è il prototipo del piccolo funzionario di basso rango che mai farà carriera.

Sempre in questo frangente, al capitolo 18,14)Capitolo 18 secondo la versione in cento capitoli tradotta da Sidney Shapiro: Shi Nai’an, Luo Guanzhong, Outlaws of the Marsh, trans. Sidney Shapiro (Beijing: Foreign Languages Press, 1981). fa la sua comparsa per la prima volta nel romanzo Song Jiang, soprannominato Hubaoyi 呼保义, “Protettore della Giustizia”, oltreché “Pioggia Tempestiva”, per la rapidità con cui soccorre gli amici. Sarà lui infatti a coprire Chao Gai e gli altri sei eroi sfruttando il suo ruolo di aiutante di un giudice di provincia. Con uno stratagemma, trattiene l’ispettore di polizia prendendo tempo per trovare la banda e convincere Chao Gai a fuggire subito.

I dialoghi sono serrati, il ritmo narrativo è trascinante e la dovizia dei dettagli rende il racconto vivido, così come è perfettamente realistica la scena del convoglio che attraversa sentieri impervi, intanto che Yang Zhi litiga con i portatori. Come in un affresco, o come in una pittura su rotolo, ogni particolare ha la sua pregnanza. C. T. Hsia così riassume tale opera caleidoscopica: “in questo mondo di avventure infinite, il simbolo primo è la strada, incessantemente percorsa da questi raminghi, e a seguire la locanda, dove si fermano per pasteggiare lautamente con vino e carne. Al lettore non iniziato, gli eroi ivi descritti parranno a tratti indistinguibili dai cattivi, per la comune inclinazione alla violenza. Ma un eroe (haohan 好汉) si riconosce perché rispetta un codice a cui i malvagi mai aderiscono”.15)C. T. Hsia,The Classic Chinese Novel. A Critical Introduction, 86.

Il codice, se ci fosse bisogno di specificarlo, è racchiuso nella parola d’ordine zhongyi.

Mi si perdoni se ora per ragioni di spazio salto direttamente al finale, svelandolo; lo spoiler comunque nulla toglie alla bellezza dell’ultimo capitolo, in cui l’elemento comico-realistico scompare cedendo il posto a una sorta di ode in prosa per i due caratteri zhong e yi.

I briganti, ottenuta l’amnistia e dopo aver dimostrato il proprio valore nelle campagne contro i ‘barbari’ Liao e contro Fang La, non sono più dei fuorilegge, anzi: a molti di loro sono state offerte delle cariche; qualcuno le ha accettate, altri invece hanno preferito la vita semplice del contadino o del monaco. Song Jiang ha assunto il ruolo di governatore di Chuzhou e tanto è bastato a scatenare l’invidia dei quattro malvagi ministri, Cai Jing (lo stesso dei doni rubati), Gao Qiu 高俅, Yang Jian 杨戬 e Tong Guan 童贯. I quali ordiscono immediatamente un piano, per avvelenare prima il braccio destro di Song Jiang, Lu Junyi 卢俊义, e poi Song Jiang stesso, per di più prendendosi gioco dell’imperatore. Lu Junyi morirà paralizzato dal veleno, annegando in un fiume e senza nemmeno accorgersi dell’inganno, mentre Song Jiang capisce che il vino imperiale che gli è stato recapitato e che lui ha già in parte sorbito lo porterà a morte certa e, nel poco tempo che gli resta, convoca il fratello Li Kui 李逵. Questo è l’ultimo, conclusivo atto di lealtà e giustizia – una doppia lealtà: verso Li Kui e verso il suo sire.

Song Jiang sa che se muore, Li Kui non si farà scrupoli a vendicarlo uccidendo direttamente il sovrano; difatti, quando Li Kui al capezzale del fratello moribondo apprende l’accaduto, la sua prima reazione è invocare l’insurrezione. Ma il fratello nel frattempo gli ha già offerto il vino letale. In una sola mossa, Song Jiang salva la vita all’imperatore Huizong e sigla con Li Kui un patto eterno: insieme, erreranno come spiriti della giustizia, proteggendo i deboli e perseguitando i corrotti. Un altro locus amoenus, simile al pescheto de “Il Romanzo dei Tre Regni”, ospiterà le loro tombe. Huizong li vedrà in sogno, un sogno liberatorio in cui finalmente emerge la verità, in cui Song Jiang riscatta se stesso, mentre Li Kui può sfogare il suo rancore, minacciando l’imperatore con la sua spada.

A ben vedere, questo sogno che nel romanzo è attribuito al sovrano è invero il sogno di ogni suddito leale e aspirante ministro à la Song Jiang, con il suo alter-ego ribelle, impulsivo, proto-rivoluzionario Li Kui, che finalmente ottiene udienza nella sala del trono e può chiedere che sia fatta giustizia. A prescindere da chi sia l’autore de “I Briganti”, Shi Nai’an o altri, è evidente che in quest’ultima fantasia onirica ha riversato le aspirazioni più profonde della sua classe sociale, la sua personale passione morale, nonché la propria poesia.

Non è comunque l’unico passaggio in cui l’autore – o, per meglio dire, i molteplici autori che si muovono dietro a quest’opera così stratificata svelano le loro segrete ambizioni.

Altre, più oscure pulsioni si agitano fra le pagine dello Shuihu zhuan, e pure de “Il Romanzo dei Tre Regni”: non si può tacere il fatto che oltre o accanto alla sete di giustizia, un fiume di sangue e violenza scorre impetuoso, manifestandosi quasi ad ogni capitolo e inquinando l’aura di nobiltà dei personaggi più positivi. Il codice di giustizia riguarda infatti solo la comunità che vi si riconosce, la società dei fratelli; yi indica un legame esclusivo, che non vale per chi è fuori dal patto. Inoltre, le scene cruente, spesso gratuite, rivelano un gusto gore e splatter che deve essere appartenuto agli anonimi narratori che affollavano le piazze dei mercati e che sicuramente incontrava il favore del pubblico. Inoltre, testimonia la tenacia con cui la narrativa cinese tende a farsi carne, liquido corporeo, interiora esposte, già all’epoca dei grandi romanzi Ming e poi sino ai giorni nostri, come se quella cruda fisicità fosse già racchiusa nei caratteri del vernacolo, nel baihua 白话.

Nessuno forse più dello studioso contemporaneo Liu Zaifu 刘再复 (1941) ha sviscerato questa inclinazione alla violenza, dedicandogli un intero libro (“A Study of Two Classics”).16)Liu Zaifu, A Study of Two Classics. A Cultural Critique of The Romance of Three Kingdoms and The Water Margin (Amherst, NY: Cambria Press, 2012). Il saggio sin dal sottotitolo si definisce una “cultural critique” ed esce dunque dai confini (spesso angusti) della filologia e dell’analisi stilometrica, ossia della critica letteraria pura, per valutare in chiave etica “Il Romanzo dei Tre Regni” e “I Briganti”. Ad esempio, si dedica lungamente all’episodio del saccheggio dei doni di Cai Jing, interrogandosi sulla moralità di Chao Gai. A ogni modo, a provocare la condanna di Liu Zaifu non sono tanto i furti, i massacri efferati e gratuiti e la misoginia (che in effetti mette a dura, durissima prova la pazienza delle lettrici), quanto il fatto che noi lettori siamo indotti ad approvare divertiti, perché la macchina narrativa funziona in tal senso. Ciò che è più riprovevole è l’esteticizzazione della violenza, che secondo Liu ha modellato e in buona misura corrotto il sentire del popolo cinese, anestetizzandone la capacità di indignarsi. Un capitolo è dedicato al nostro tema e difatti si intitola “Degeneration of Brotherhood”. Meriterebbe una trattazione estesa, che però prenderebbe troppo spazio. Chi scrive si permette di evidenziare qui solo due punti: in primo luogo, lo Shuhu zhuan, assai più del Sanguo Yanyi, è un’opera di fantasia e l’incipit è lì a ricordarcelo; in seconda istanza, i due piani del romanzo e della coscienza (o dell’inconscio) popolare, della sensibilità etica dei cinesi, non andrebbero fatti coincidere in toto.

Indubbiamente il genere xiaoshuo si è sin dai suoi albori ibridato con la tradizione orale, con le leggende popolari, i miti senza tempo che formano il patrimonio sapienziale di un intero popolo e nessun autore specifico può reclamarne la paternità; tuttavia, come ad esempio ci ricorda Edoarda Masi, quella dello xiaoshuo resta un’arte appannaggio di chi sapeva impugnare il pennello ed era in grado di decifrarne i segni, ossia i letterati.

Proprio a proposito de “I Briganti”, Masi scrive: “Liangshanpo è il simbolo della storia rovesciata, da seicento anni in Cina: dalla tradizione popolare ai primi autori del romanzo, a Li Zhi, e fino a Mao Zedong. Non è tanto il popolo contro i potenti, quanto un settore dei letterati che si ispira al popolo e si contrappone alla sfera dei letterati al potere”.17)Edoarda Masi, Cento Trame di Capolavori della Letteratura Cinese (Milano: Rizzoli, 1991), 310. È una precisazione a mio avviso fondamentale. La lettura sociologica dell’opera non necessariamente sostituisce, ma certo arricchisce quella morale.

Comunque, è vero che l’intreccio di giustizia e violenza, la fusione di un anelito etico al Bene assoluto e di una altrettanto assoluta amoralità, non si limita a “I Briganti” e al “Romanzo dei Tre Regni”, ma si riflette pure in moltissimi testi moderni e contemporanei, come ora vedremo nell’ultima, conclusiva tappa di questo percorso.

Fin dove s’allunga l’ombra di yi

Già all’epoca dei Tre Regni circolava un racconto crudele sulla giustizia, che fu messo per iscritto prima dal figlio di Cao Cao, l’imperatore Wen di Wei, Cao Pi 曹丕, che l’inserì nella sua raccolta di “Biografie fuori dal comune”, (Lieyizhuan 列异传); poi venne ripreso dallo storico d’epoca Jin, Gan Bao 干宝, autore della celebre antologia di storie di fantasmi, “Alla ricerca degli spiriti” (Soushen Ji 搜神记). Infine, parecchi secoli dopo, nel 1926 Lu Xun lo rivisitò un’ultima volta ed ora tale leggenda figura fra le sue “Antiche Storie Rinarrate” (Gushi Xinbian 故事新编).

La leggenda è molto cupa e del resto il 1926 fu un anno tragico a dir poco. Come affermò Lu Xun stesso, in particolare “il 18 marzo 1926 è il giorno più oscuro dalla fondazione della Repubblica”18)Lu Xun, “Rose Senza Fiori. II”, in: La Falsa Libertà, trans. Edoarda Masi (Macerata: Quodlibet, 2006), 107. e tuttora in Cina la sigla “3.18” indica il massacro dei giovani che quel giorno presero parte a una manifestazione antimperialista, in piazza Tian’anmen a Pechino; fra le molte vittime, c’era pure una studentessa dello scrittore, una ragazza di 22 anni, Liu Hezhen 刘和珍 (1904-1926).

Tornando al racconto, esso prende le mosse dalla morte del miglior fabbro dell’impero, a cui il sovrano in persona aveva commissionato una spada. La novella di Lu Xun s’intitola appunto “La forgiatura delle spade” (Zhujian 铸剑).19)Lu Xun, Gushi Xinbian 故事新编 [Antiche Storie Rinarrate] (Beijing: Renmin Wenxue Chubanshe, 2006), 80-101. In italiano: Lu Xun, Fuga sulla Luna e Altre Antiche Storie Rinarrate, trans. Ivan Franceschini (Milano: O Barra O, 2014). Il talento del fabbro era tale da destare la più grande ammirazione, ma anche la più profonda paura del re, il quale, temendo che il suddito potesse mettersi al servizio dei suoi nemici, decise di ucciderlo. Il previdente fabbro però, oltre a fabbricare la spada per il sovrano, ne aveva forgiata un’altra per il figlio, perché questi potesse vendicarlo. Il figlio, Mei Jian Chi 眉间尺 ora è appena adolescente e incapace di uccidere persino un topo; ciò nonostante, reclama giustizia per il padre e non potendo agire da solo, si affida a un “uomo scuro”, un personaggio misterioso, forse umano o forse no, un mago o uno spettro, che nelle versioni più antiche della fiaba è chiamato semplicemente ke 客 (ossia pellegrino, o cavaliere errante). Agli occhi del ragazzino, egli è un yishi 义士, un paladino della giustizia – anche se l’uomo scuro rifiuta il termine, giudicandolo parte di un passato aureo che non esiste più. A ogni modo, di qualunque essere si tratti, l’enigmatico figuro conosce il modo per vendicarsi: chiede a Mei Jian Chi di dargli la spada e anche la sua vita; in cambio, ucciderà il re. Mei Jian Chi acconsente, cede la magnifica lama blu ghiaccio forgiata dal padre e con quella si lascia tagliare la testa. Giunto a corte, l’uomo scuro si presenta all’annoiato sire come un mago prestigiatore che conosce molti trucchi, fra cui la “Danza della Riunione” (tuanyuanwu 团圆舞). Per la sua magia, prepara un calderone in ebollizione, dentro il quale poi butta la testa del fanciullo, che prende vita e inizia a esibirsi in canti e danze, divertendo il sovrano. Mentre questi si avvicina per godersi lo spettacolo, il ke gli mozza la testa, che cade nel calderone insieme a quella di Mei Jian Chi. Poco dopo, l’uomo scuro calerà la lama sul suo stesso collo e le tre teste finalmente riunite sul fondo del paiolo cominceranno a ballare, a lottare, a mordersi a vicenda, l’uomo scuro e il giovane alleati contro il re, sinché nella baruffa non resterà più niente, se non tre nudi, indistinguibili crani. Terminata la magia, la corte, pervasa da dolore ma anche da una gioia oscura, si chiederà quale cranio porre nella tomba regale; dopo lunghe discussioni, le tre teste vengono sepolte insieme, il sovrano ed i suoi due assassini, ormai fusi in un’unica entità.

Se la vendetta è il tema esplicito della novella, l’altra idea guida, anche se non dichiarata, è l’uguaglianza fra i deboli e i potenti almeno nella morte, un’uguaglianza raggiungibile tramite la dissoluzione fisica, violenta, delle differenze. La narrazione di Lu Xun indugia con finissimo humour sui vani tentativi dei sudditi di distinguere il cranio del loro re, così come nella parte precedente plana con divertita leggiadria sui dettagli della ‘danza’. La sete di vendetta che si placa solo quando si realizza una sostanziale parità fra il re, il giovane popolano e un’ambigua creatura sospesa fra l’umano e lo spiritico, di nuovo ci riporta al concetto di yi, nella sua doppia accezione di giustizia e fratellanza.

Eppure, nel racconto di Lu Xun, quando il giovane e inesperto Mei Jian Chi (una proiezione della studentessa Liu Hezhen? O della gioventù progressista?) definisce il suo genio vendicatore uno yishi, un eroe della yi, quegli si ritrae, rispondendo che parole come ‘eroe’ e ‘pietà’ erano pure e nobili un tempo, ma in quest’era hanno del tutto perso il loro significato, divenendo al più “capitale per usurai”.20)Lu Xun, Gushi Xinbian 故事新编 [Antiche Storie Rinarrate], 88; Fuga sulla Luna e Altre Antiche Storie Rinarrate, 140.

Un’argomentazione simile si ritrova in un testo del 1930, “L’evoluzione della teppaglia” (Liumang de bianqian 流氓的变迁),21)Si è consultata l’edizione bilingue cinese/inglese: Lu Xun, “The Evolution of Roughs”, in: Lu Xun Selected Essays 鲁迅杂文选(Beijing: Waiwen Chubanshe, 2015), 202-207. in cui Lu Xun spiega come gli eroici cavalieri del passato (xia 侠) si siano progressivamente trasformati in teppisti, piccoli malavitosi, sbandati, liumang 流氓 appunto, giacché sin dai tempi de “I Briganti” non osavano opporsi apertamente all’imperatore e la loro rivolta più che altro prendeva di mira i funzionari locali, e soltanto quelli più corrotti, senza mai mettere in discussione il mandarinato in quanto tale e le diseguaglianze strutturali del sistema. L’autore non mostra qui alcun apprezzamento per lo Shuihu zhuan, soprattutto perché a suo avviso la formula altisonante del romanzo, “praticare il Dao in nome del Cielo” (ti tian xing dao 替天行道), ossia in nome dell’impero, nella realtà diventò spesso una copertura per chi vessava il popolo arrogandosi il titolo di rappresentante della volontà celeste. È chiaro comunque che, come per il succitato Liu Zaifu, per Lu Xun in questo testo conta la critica del presente, assai più della critica letteraria: suo bersaglio sono i piccoli opportunisti, i finti intellettuali e pseudo-rivoluzionari, i weishi 伪士 a lui contemporanei.

L’era dei paladini à la Guan Yu secondo l’autore è insomma terminata e semmai sopravvive attraverso le sue tracce letterarie. Creatura puramente romanzesca, l’uomo scuro ne “La forgiatura delle spade” mantiene una sua statura eroica, per quanto messa in dubbio da lui stesso: prova ne è il fatto che senza la minima esitazione si dà la morte per completare il suo rituale di vendetta. L’unico rimando al mondo reale che Lu Xun concede al suo etereo personaggio si cela in un’autocitazione, comunque velatissima: quando questi si presenta al cospetto del sire, dice di chiamarsi Yan Zhi Ao Zhe (宴之傲者), uno pseudonimo che Lu Xun aveva precedentemente adottato per firmare un proprio testo.

Il tramonto del codice morale di yi e della società del jianghu è infine il tema di un’altra grande opera contemporanea – un’opera cinematografica questa volta, con la quale concludiamo il nostro ragionamento. L’anno scorso usciva nelle nostre sale la pellicola del regista Jia Zhangke 贾樟柯, presentata con il titolo “I figli del Fiume Giallo”, forse per la difficoltà di traduzione del titolo originale, “I figli del jianghu” (Jianghu ernü 江湖儿女, 2018). Definirlo un gangster movie è troppo poco; in una delle primissime scene, lo spettatore segue la protagonista Qiao 巧 (Zhao Tao 赵涛, attrice prediletta e moglie del regista) in una bisca dove il suo partner, che lì dentro è anche il boss, Fratello Bin (斌哥, impersonato da Liao Fan 廖凡), sta giocando a mahjong con i suoi scagnozzi. Due di loro iniziano a litigare per un vecchio prestito: il beneficiario nega di aver mai chiesto e preso dei soldi dall’altro, sinché quello si scalda al punto da minacciarlo con una pistola. Bin interviene chiedendo che sia portata in sala la statua di Guan Yu, nume tutelare della banda. La statua dorata, kitsch come si conviene al contesto, riproduce tutti i tratti caratteristici del Generale Guan: la lunga barba, le sopracciglia folte come bachi da seta… Davanti al suo sguardo irato, i due immediatamente si ricompongono e quello che fino a un minuto prima negava di aver ricevuto il prestito, ora promette di restituire tutto, sino all’ultimo centesimo. Benché si tratti di una sequenza di appena due minuti sganciata dal resto della trama, è fondamentale per cogliere l’atmosfera e il senso dell’opera.

Qiao dal canto suo è la donna del boss, ma non può dire di far parte della famiglia dei fratelli, perché non sa sparare. Bin la porta allora su una collina nei pressi di Datong, da cui si vede un vulcano ancora attivo. La scena è così pregnante da essere ripresa dal titolo inglese del film, “Ash is Purest White”, in riferimento alla cenere vulcanica. Bin le affida la sua pistola e le insegna a impugnarla. “Ora anche tu appartieni al jianghu”, le dice. Ma lei ribatte: “no, il jianghu è finito, è una cosa del passato che oggi non esiste più”. “Non è vero, dove c’è gente, c’è anche il jianghu”, conclude il boss, rivelando come per lui il termine indichi semplicemente la mafia, il codice dei criminali, mentre per Qiao è molto di più.

Quando lei finirà in prigione a causa di Bin, difatti, non farà il suo nome e si ostinerà a coprirlo fino alla fine, pur sapendo che una piena confessione le restituirebbe anni di vita libera. Una volta scontata la pena, non solo il suo amato non sarà fuori ad attenderla, ma anzi, fuori dal carcere c’è un mondo privo di freni morali, dove tutti fregano tutti, spesso per qualche misero spicciolo. Ambientato fra il 2000 e il 2017, il film rispecchia fedelmente quanto Yu Hua scrive ne “La Cina in Dieci Parole”, alla voce “Intortare” (huyou 忽悠), uno dei dieci concetti chiave scelti per analizzare la Cina contemporanea.22)Yu Hua, La Cina in Dieci Parole, trad. Silvia Pozzi (Milano: Feltrinelli, 2010), 205-225. Nell’odissea di Qiao che parte alla ricerca di Bin, l’inganno, soprattutto nella variante più fantasiosa dell’intorto, è la figura più ricorrente: a partire dall’amante che la inizia al codice dei xia, benché lui non sia altro che un mafiosetto di provincia, un liumang, al pari di quelli descritti da Lu Xun, sino all’incontro con il gestore di un chiosco xiaomaibu 小卖部, il quale si spaccia per un esperto ufologo nel Xinjiang (il Xinjiang come terra di x-files è uno dei tanti colpi di genio del film).

La religione della truffa e del ‘tutti contro tutti’ richiama alla mente Cao Cao (non la figura storica, bensì il personaggio di Luo Guanzhong), ben più che Guan Yu. È un mondo ormai distantissimo dal concetto di yi. Eppure Qiao, dopo un primo smarrimento, vi si adatta, così come ne “Il Romanzo dei Tre Regni” Guan Yu riesce a negoziare con Cao Cao, accettando i suoi doni e al contempo restando fedele a Liu Bei.

Alla fine sarà Fratello Bin a tornare da lei, turlupinandola un’ultima volta. Qiao ormai ha compreso di che pasta sia fatto il suo vecchio amante, tuttavia lo riprende con sé, lo aiuta. Se questa scelta fosse il mero riflesso di una passione amorosa mai sopita, il personaggio di lei si appiattirebbe riducendosi al tipo classico della donna forte, volitiva, e fatalmente attratta da un modello maschile tossico. Chi scrive ritiene che ci sia di più: quando Bin tenta di parlarle della donna con cui lui l’ha tradita, per chiarire che è finita e lei può stare tranquilla, Qiao reagisce dicendo che la cosa non le interessa. Il punto non è più l’amore, bensì, forse, quel patto stretto sulla collina, il giorno in cui lui le ha insegnato a sparare.

Non fosse per la luce che emana la protagonista, questo sarebbe un film cupo, o comico quel tanto che basta a difendersi dalla disperazione; l’ultima sequenza poeticamente si chiude con uno sdoppiamento visivo, un gioco di specchi, in cui noi guardiamo Qiao che guarda le telecamere della videosorveglianza che si era installata in casa, e con lei ci chiediamo: e ora dove è fuggito Bin?

E anche: dove si è nascosto il concetto di yi, sempre che abbia ancora un senso in questa Cina, in questo mondo? Esiste una giustizia fuori dai tribunali? E dove mai è possibile – se è ancora possibile – trovare il giardino di peschi in fiore?

Perini, Da giustizia a fratellanza PDF

Immagine: particolare dalla locandina del film I figli del Fiume Giallo (Jia Zhangke, 2018).

Laureata in lingua e letteratura cinese presso l’università di Bologna, Gaia Perini ha vissuto in Cina dal 2003 al 2018 dove ha conseguito un dottorato presso la School of Humanities and Social Sciences dell’Università Tsinghua di Pechino, specializzandosi in letteratura cinese moderna sotto la guida del prof. Wang Hui. Le sue ricerche, pubblicate in inglese, cinese e italiano, hanno come tema centrale l’autore moderno Ba Jin e attraversano i diversi campi della storia della letteratura, della storia del pensiero politico e della teoria della traduzione. Attualmente insegna presso le università di Modena e Reggio Emilia, Bologna, Forlì.

 

 

 

References
1 Anne Cheng, Storia del Pensiero Cinese (Torino: Einaudi, 2000), vol. I, 61.
2 子曰:“君子喻于义,小人喻于利”: per le citazioni dai Dialoghi si è incrociata la versione trilingue cinese classico-cinese moderno-inglese: Lun Yu 论语 [The Analects], trans. Arthur Waley e Yang Bojun (Changsha: Hunan Renmin Chubanshe, 1999), 36-37, e l’edizione italiana: Confucio, Opere, a cura di Fausto Tommasini (Milano: Tea, 1974), 93.
3 Lun Yu 论语 [The Analects], 206-207; Confucio, Opere, 186.
4 Anne Cheng, Storia del Pensiero Cinese, 173.
5 Per una genealogia del termine xiaoshuo, si rimanda al classico e insuperato Lu Xun: Lu Hsun, A Brief History of Chinese Fiction (Beijing: Foreign Language Press, 2009), 1-8.
6 L’aneddoto è riportato da Lu Hsun, A Brief History of Chinese Fiction, 157.
7 C. T. Hsia,The Classic Chinese Novel. A Critical Introduction (Ithaca, NY: Cornell East Asia Series, 1996), 38-39.
8 Per la traduzione in italiano il presente articolo si appoggia alla prima versione inglese: Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, trad. C. H. Brewitt-Taylor (Berlin: XinXii, edizione Kindle), pos. 216-221; l’originale è consultabile via Chinese Text Project.
9 Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, pos. 257-263.
10 Nell’originale: “兄弟如手足,妻子如衣服。衣服破,尚可缝;手足断,安可续?吾三人桃园结义,不求同生,但愿同死”; Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, pos. 4029. Qui la versione cinese con testo a fronte: https://ctext.org/sanguo-yanyi/ch15.
11 Luo Guanzhong, The Romance of Three Kingdoms, pos. 23.237-23.243; quanto all’originale in cinese, vedasi: https://ctext.org/sanguo-yanyi/ch85.
12 Quest’ultimo titolo fu scelto da Pearl Buck per la sua pionieristica traduzione inglese, pubblicata nel 1933.
13 Lu Hsun, A Brief History of Chinese Fiction, 171.
14 Capitolo 18 secondo la versione in cento capitoli tradotta da Sidney Shapiro: Shi Nai’an, Luo Guanzhong, Outlaws of the Marsh, trans. Sidney Shapiro (Beijing: Foreign Languages Press, 1981).
15 C. T. Hsia,The Classic Chinese Novel. A Critical Introduction, 86.
16 Liu Zaifu, A Study of Two Classics. A Cultural Critique of The Romance of Three Kingdoms and The Water Margin (Amherst, NY: Cambria Press, 2012).
17 Edoarda Masi, Cento Trame di Capolavori della Letteratura Cinese (Milano: Rizzoli, 1991), 310.
18 Lu Xun, “Rose Senza Fiori. II”, in: La Falsa Libertà, trans. Edoarda Masi (Macerata: Quodlibet, 2006), 107.
19 Lu Xun, Gushi Xinbian 故事新编 [Antiche Storie Rinarrate] (Beijing: Renmin Wenxue Chubanshe, 2006), 80-101. In italiano: Lu Xun, Fuga sulla Luna e Altre Antiche Storie Rinarrate, trans. Ivan Franceschini (Milano: O Barra O, 2014).
20 Lu Xun, Gushi Xinbian 故事新编 [Antiche Storie Rinarrate], 88; Fuga sulla Luna e Altre Antiche Storie Rinarrate, 140.
21 Si è consultata l’edizione bilingue cinese/inglese: Lu Xun, “The Evolution of Roughs”, in: Lu Xun Selected Essays 鲁迅杂文选(Beijing: Waiwen Chubanshe, 2015), 202-207.
22 Yu Hua, La Cina in Dieci Parole, trad. Silvia Pozzi (Milano: Feltrinelli, 2010), 205-225.