In generale, egli non si pensava più come essere umano, e, doveva ammetterlo, come risultato della privazione del diritto ai più basilari movimenti di uomo, il significato del suo essere fisico aveva cessato di esistere.1)Xiaoda Xiao, The Cave Man (Columbus: Two Dollar Radio, 2009), 7. Le traduzioni dei testi letterari dal cinese e dall’inglese, se non diversamente specificato, sono della sottoscritta.
Queste parole si riferiscono a Ja Feng, protagonista del romanzo di Xiaoda Xiao, The Cave Man, che da nove mesi vive in una cella di isolamento. Il corpo del prigioniero fa esperienza della particolare spazialità del luogo innanzitutto a livello sensoriale, percependolo nella sua angustia estrema, nell’oscurità disorientante, nel silenzio prolungato e nell’odore miasmatico della sua stessa materia escrementizia. Nel carcere lo spazio contiene il corpo, lo determina e lo modella, ma il corpo può adattarsi, reagire o soccombere. Nel caso di Ja Feng, per esempio, la dimensione corporale viene totalmente annichilita dalla spazialità carceraria e, come risultato, il prigioniero non si riconosce più come essere umano.
Nella letteratura del carcere la dimensione corporale, e specialmente la sua relazione con la spazialità carceraria, costituisce un interessante terreno d’indagine. I corpi incarcerati che popolano le narrazioni letterarie forniscono un punto di vista che mette al centro l’esperienza umana, offrendo nuove possibilità di comprensione di idee e pratiche della pena, e di come esse siano vissute e rielaborate sia a livello individuale che collettivo.
Nel contesto cinese, le prigioni letterarie, e nella fattispecie quelle che si riferiscono alle esperienze di prigionia del periodo maoista (dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Settanta), sono popolate da corpi che, nel riconfigurare il vissuto personale, lo inseriscono in un più ampio discorso di rielaborazione e negoziazione di un passato traumatico.
Ma prima di procedere all’esplorazione dei testi sarà necessario partire da alcune premesse fondamentali.
Che tipo di carcere?
La storia della Repubblica Popolare Cinese è stata attraversata da un gran numero di turbolenti movimenti politici, i quali molto spesso avevano l’obiettivo di identificare ed eliminare, di volta in volta, i diversi nemici del popolo. Si pensi, ad esempio, a episodi storici come la Campagna Antidestrista del 1957-59 o la Rivoluzione Culturale (1966-76). Incarcerazioni di massa hanno spesso accompagnato questi movimenti, per cui, nella storia moderna cinese, molti intellettuali, scrittori, attivisti, ma anche comuni cittadini, sono stati accusati di deviare dall’ortodossia ideologica comunista e condannati a scontare lunghi anni nei centri di detenzione, nelle prigioni e nei campi di lavoro.
Il sistema penale cinese che venne introdotto con la presa di potere comunista nel 1949, in effetti, è fondamentalmente basato sul lavoro forzato, nonché sui concetti di riforma e rieducazione. Laodong gaizao 劳动改造 (“riformare attraverso il lavoro”) e laodong jiaoyang 劳动教养 (“rieducare attraverso il lavoro”)erano le sue due principali articolazioni, meglio conosciute nelle loro forme abbreviate, laogai 劳改 e laojiao 劳教.
Ispirato al sistema penale stalinista, quello cinese era basato sull’idea che il criminale potesse effettivamente essere riformato attraverso il lavoro fisico e un esercizio di rieducazione ideologica, con l’obiettivo di essere reintegrato come membro produttivo all’interno della società. Lo scopo di Mao e dei suoi seguaci era quello di costruire, come suggerisce Jean-Luc Domenach, un “arcipelago carcerario”, che doveva servire a trasformare (rimodellare) i nemici del popolo in strumenti docili a servizio dello stato.2)Jean-Luc Domenach, Chine: l’archipel oublié (Parigi: Fayard, 1992).
Dal punto di vista strutturale, laogai e laojiaopresentavano caratteristiche simili, in cui il tipo di disciplina praticata era essenzialmente comparabile. L’unica differenza tra i due sistemi era di tipo legale; per essere condannato al laogai, il sospettato doveva essere processato in un tribunale e ricevere una sentenza da un giudice. Per il laojiao, invece, bastava una decisione di tipo amministrativo; chiunque fosse reputato colpevole di crimini contro il socialismo e la rivoluzione poteva essere mandato a rieducarsi.
Una volta scontata la pena, la maggior parte dei prigionieri era poi costretta a rimanere nelle vicinanze del campo come liuchang jiuye 留长就业, ovvero “lavoratore trattenuto”. In questo modo, sempre attraverso il suo lavoro, all’ex detenuto veniva permesso di ricostruirsi una vita, continuando però a essere elemento produttivo per l’economia del campo.
Secondo quanto ricostruito da Philip Williams e Yenna Wu, che in The Great Wall of Confinement analizzano una serie di rielaborazioni letterarie dell’esperienza dei campi, una giornata tipo era occupata per la maggior parte dal lavoro (dalle otto alle dodici ore al giorno, per sei giorni la settimana). Alla fine del turno lavorativo vi erano le cosiddette sessioni di studio, attraverso cui i detenuti erano sottoposti a indottrinamento politico. Le razioni alimentari erano proporzionate alla produzione, ma in generale le autorità carcerarie utilizzavano il cibo come uno strumento di controllo, dato che la fame poteva piegare la volontà dei prigionieri in maniera persino più efficiente di altri metodi coercitivi.3)Philip Williams e Yenna Wu, The Great Wall of Confinement: The Chinese Prison Camp Through Contemporary Fiction and Reportage (Berkeley: University of California Press, 2004), 62-76.
Il reale obiettivo del sistema penale articolato su laogai e laojiao era essenzialmente di demolire l’identità e la coscienza di sé dei prigionieri, attraverso il lavoro forzato, il controllo del cibo e la violenza, con lo scopo di rimodellarli e trasformarli in nuovi individui completamente dedicati alla costruzione della società comunista.
Che genere di letteratura?
Nei tardi anni Settanta, con la fine della Rivoluzione Culturale e durante il periodo di relativa distensione politica che ne seguì, molte delle persone che erano state condannate a riformarsi vennero rilasciate e riabilitate. Alcune di esse iniziarono a pubblicare i resoconti delle loro esperienze di prigionia, tanto che in Cina venne coniata una categoria ad hoc, la cosiddetta daqiang wenxue 大墙文学, “letteratura del grande muro”, che includeva quelle opere ambientate all’interno delle mura dei campi di lavoro.
Un’altra parte degli scritti del carcere proviene, invece, da ex detenuti che, essendosi scontrati con l’apparato censorio, e più in generale con un’autorità oppressivamente disciplinatoria nella madrepatria, scelsero l’esilio, rifugiandosi prevalentemente in Nord America o in Europa. Le loro opere, dunque, si rivolgono a un pubblico internazionale e in maggioranza occidentale, e infatti sono state spesso scritte in lingue diverse dal cinese (per lo più in inglese), presentandosi come autentiche testimonianze di denuncia di un regime oppressivo.
Da un punto di vista formale, queste opere sono state generalmente giudicate non tanto secondo criteri estetici, ma in base alla loro aderenza alla realtà, e cioè a quanto più fedelmente sono state in grado di riportare la realtà vissuta dagli ex prigionieri.4)Si veda la discussione riguardo fiction vs. non-fiction nel già citato The Great Wall of Confinement, 155-158. Per questo il genere che più facilmente viene identificato con la letteratura del carcere è quello della non-fiction: autobiografie, diari, memoriali.
Tuttavia, se consideriamo il carcere non solo come teoria, pratica penale e realtà vissuta, ma anche come immaginazione, narrazione e rappresentazione, allora sarà necessario superare la visione manichea che pone non-fiction e fiction su due livelli distinti e mai intersecanti. Fiction non è il contrario di verità, e l’esperienza del carcere può essere riconfigurata attraverso entrambe le forme letterarie. Nell’analizzare la letteratura ci si dovrà concentrare, credo, non tanto su come e quanto essa si relazioni a un certo grado di autenticità, ma rispetto a come l’opera rappresenti e riconfiguri un immaginario carcerario che, a sua volta, contribuirà ad approfondire la nostra conoscenza del carcere come esperienza locale e globale, reale e immaginata.
L’idea di immaginario carcerario si rifà al concetto di immaginazione elaborato da Arjun Appadurai, che la intende come un tipo fondamentale di prassi sociale organizzata.5)Arjun Appadurai, Modernity at Large (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1996), 31. Seguendo questo approccio, dunque, si porrà l’accento su una visione collettiva di carcere, essenzialmente informata da teorie (aspetto legislativo), pratiche (implementazione), realtà (esperienze vissute) e immaginari. Esplorando la narrativa carceraria cinese confrontando questi quattro elementi chiave, si approfondirà la nostra conoscenza di come l’esperienza della pena sia stata pensata nel periodo maoista e come questa sia stata vissuta e riconfigurata in seguito a livello personale e corale.
Poiché l’esperienza del carcere spesso mette in luce la criticità delle relazioni di potere tra un’istituzione dello stato e individui o gruppi marginalizzati, la letteratura che deriva da quell’esperienza spesso è stata considerata per il suo valore morale e politico. Specialmente quando gli autori sono stati imprigionati per ragioni politiche, la letteratura del carcere può diventare un potente mezzo attraverso cui ripensare la relazione tra individuo e stato, tra personale e collettivo, rendendo possibile, di fatto, un’apertura a nuove rielaborazioni della storia.
Per poter esplorare come le esperienze carcerarie siano state rielaborate in letteratura, dunque, è impossibile prescindere dalla connotazione strutturale principale del carcere: lo spazio. Solo apparentemente definito da una rigidità architettonica, il carcere è un luogo “altro”, liminale, o “eterotopico”, per citare Foucault.6)Michel Foucault, “Of Other Spaces: Utopias and Heterotopias”, trad. Jay Miskowiec, in Architecture/Mouvement/Continuité 5 (ottobre 1984), 46-49. Creato per contenere la devianza e allontanarla dalla società, al di là di sbarre e cancelli ferrati esso rivela invece un universo vivo, dinamico e reattivo. La spazialità carceraria è da considerare in maniera essenzialmente relazionale, dove i confini tra dentro e fuori, tra contenuto e contenitore sono spesso imprecisi, instabili e incerti. Il carcere, in breve, è uno spazio “vivo”, popolato da una serie di corpi che con esso stabiliscono relazioni diverse e particolari, che a esso danno forma e significato, e viceversa, da esso sono modellati e determinati.
Quali idee di corpo?
Definito da Maurice Merleau-Ponty “il veicolo dell’essere al mondo”, il corpo è il primo luogo dell’esperienza, l’unico mezzo di cui disponiamo per vivere la realtà che ci circonda.7)Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, trad. Andrea Bonomi (Milano: Bompiani, 2003 [1945]), e-book. Esso è nel mondo come soggetto-oggetto, perché può essere vissuto e percepito sia da sé stesso sia dall’altro. In breve, il pensiero fenomenologico delinea un’idea di corporeo che supera le tradizionali categorie filosofiche basate su una caratterizzazione dicotomica: corpo e mente, dentro e fuori, oggetto e soggetto. Il corpo è un intero ed è parte di me, attraverso di esso percepisco il mondo, che si manifesta in me attraverso le sensazioni: il battito cardiaco, il respiro, il dolore.
Questa concezione di organicità che caratterizza l’approccio fenomenologico al corpo trova riscontro nel pensiero tradizionale cinese, secondo cui, come sottolinea Mark Elvin, corpo (shen 身) e mente-cuore (xin 心) sono entità inseparabili che compongono un’idea del sé che abbraccia tanto la dimensione corporale quanto quella emozionale e percettiva.8)Mark Elvin, “Tales of Shen and Xin: Body-Person and Heart-Mind in China during the last 150 Years”, Fragments for a History of the Human Body, part. 2, a cura di Michel Feher (New York: Zone, 1989), 266-349. Inoltre, il corpo veniva tradizionalmente riconosciuto in quanto parte di un più grande ordine delle cose, di cui facevano parte anche il cosmo e lo stato, il tutto regolato da una precisa volontà ordinatrice. Eventuali fratture dell’armonia tra questi elementi potevano determinare importanti cambiamenti nell’ordine del reale; a livello microscopico, il disequilibrio tra shen e xin poteva influire negativamente sul corretto fluire dell’energia vitale, il qi 氣, e causare scompensi, malesseri, e persino la morte. A livello macroscopico, il caos poteva manifestarsi anche nella sfera politica, determinando la caduta o l’ascesa delle dinastie.
Con l’avvento del comunismo, l’idea di corpo inizia ad assumere una dimensione collettiva, caratterizzata da forti connotazioni politiche. Nella retorica comunista, il corpo, di solito giovane e aitante, a simboleggiare la fiducia nel futuro, è una macchina a servizio della causa rivoluzionaria. Nella letteratura realista socialista, per esempio, gli eroi comunisti sono di solito ritratti come giovani donne o uomini, i loro corpi sono agili e robusti, e sembrano immuni alla stanchezza, al dolore fisico, alla malattia e alla paura.
I corpi che popolano la letteratura del carcere, che il sistema comunista vuole riformare e rieducare, sono invece deboli, emaciati, consunti. Questi corpi si pongono in relazione antipodale con le immagini dei floridi corpi rivoluzionari, restituendoci una narrativa corporale assolutamente contrastante rispetto a quella ufficiale.
La riflessione sul corpo incarcerato ha ispirato grandi pensatori occidentali del Novecento, che poi hanno utilizzato le teorie elaborate in relazione al contesto carcerario come paradigmi per comprendere la società moderna. In Sorvegliare e Punire, Michel Foucault articola l’idea di un “corpo docile”, cioè di un corpo che si presta alla manipolazione e al controllo da parte del potere, il quale viene esercitato attraverso un’architettura particolare, quella del Panopticon, che costringe il detenuto in uno stato di sorveglianza costante.9)Michel Foucault, Discipline and Punish – The Birth of Prison, trad. Alan Sheridan (New York: Random House, 1977 [1975]). Riprendendo il pensiero foucaultiano, e rifacendosi in particolare all’esperienza del lager, Giorgio Agamben introduce invece il concetto di “nuda vita” (incarnata nell’ “homo sacer”) alla quale sono ridotti i corpi dei carcerati: uomini e donne esclusi dalla vita politica e religiosa, ridotti a mera esistenza biologica. Essi sono “insacrificabili” ma assolutamente “uccidibili”.10)Giorgio Agamben, Homo Sacer: il potere sovrano e la nuda vita (Torino: Einaudi, 2005 [1995]).
Le idee di “corpo docile” e di “nuda vita” pongono l’attenzione sui corpi incarcerati in quanto espressioni della teoria e pratica carceraria di un potere sovrano, ma, come alcuni critici hanno suggerito, sia Foucault sia Agamben hanno prestato solo relativa attenzione ai corpi come soggetti pensanti e agenti.
I corpi letterari che incontriamo nei campi di lavoro cinesi, per esempio, ci vengono presentati come dotati di una propria volontà determinativa; essi organizzano e gestiscono lo spazio carcerario in maniere creative e inaspettate, in modo da sottrarsi o addirittura ribellarsi al potere che in quello spazio li ha relegati.
A livello di genere, i corpi incarcerati rappresentati nei testi cinesi sono, nella maggior parte dei casi, maschili. In effetti, anche dal punto di vista autoriale, gli scrittori del carcere sono prevalentemente uomini. Poche sono, in proporzione, le donne che hanno raccontato le loro esperienze carcerarie; tra di esse Lai Ying, e Nien Cheng 郑念, solo per citare le più note. I loro testi descrivono come l’essere donna renda la condizione carceraria ancor più difficile da sostenere. Per esempio, nel suo memoriale The Thirty-Sixth Way, Lai Ying ricostruisce le storie di diversi personaggi femminili che, oltre a dover affrontare la cattività e il lavoro forzato, devono anche far fronte agli abusi sessuali dei vari personaggi maschili che gravitano intorno al campo di prigionia.11)Lai Ying, The Thirty-Sixth Way: A Personal Account of Imprisonment and Escape from Red China (Londra: Constable, 1969).
In questi testi, le figure maschili rappresentano per lo più il potere carcerario, ma in altre istanze sono i familiari (i mariti, i padri) che addirittura obbligano le donne a commettere i crimini per i quali poi esse sono condannate.
In sintesi, il carcere come idea e pratica penale è espressione di una cultura patriarcale. Come suggerisce Nicole Rafter nel suo studio sulla nascita delle prigioni femminili in America, la disciplina che veniva esercitata in questi luoghi di pena era stata modellata su nozioni di mascolinità e virilità, su quali e quante prove gli uomini (e non le donne) potessero sopportare al fine di essere riformati.12)Nicole Hahn Rafter, Partial Justice: Women, Prisons, and Social Control (New York: Routledge, 1990). Pertanto, le esperienze carcerarie delle donne devono essere inquadrate all’interno di un doppio sistema oppressivo e disciplinante: il patriarcato da una parte e il carcere dall’altra.
Corpi sofferenti
Ma veniamo finalmente ai testi letterari. Nei testi cinesi che ricostruiscono l’esperienza del carcere del periodo maoista, una delle riconfigurazioni corporali più ricorrenti ed esemplificative è quella che si concentra sull’esperienza del dolore. Il corpo incarcerato è sicuramente un corpo sofferente, dove la sofferenza è intesa come esperienza totalizzante, quale può essere la tortura, la consunzione estrema, o il lavoro forzato. Quest’ultimo è un esempio particolarmente calzante per quanto riguarda l’esperienza del laogai.
Bu Ning 卜宁, meglio conosciuto con il suo nom de plume Wumingshi 无名氏 (Anonimo), ha attinto alla propria esperienza del laogai per descrivere la sofferenza che viene dallo sforzo fisico cui sono sottoposti i prigionieri durante il lavoro. Nel romanzo Hongsha 红鲨 (“Squali Rossi”), pubblicato a Taipei nel 1984, scrive:
Non appartenevamo più a noi stessi; a lavorare non erano più i nostri corpi, di carne e ossa, ma degli strani animali, senza anima, consapevolezza, né senso del dolore”.13)Wumingshi无名氏, Hongsha 红鲨 (Taipei: Liming wenhua chubanshe, 1984), 60.
Ponendo l’accento sulla de-umanizzazione del corpo, che viene svuotato da ogni forma di identità e determinazione individuale, l’autore mette in luce la violenza del potere carcerario, che di fatto è il vero padrone dei corpi dei prigionieri, i quali diventano delle bestie da soma. Il rifiuto del corpo, che non viene più percepito come parte di una concezione del sé, è dunque l’unico tentativo di resistenza che i detenuti mettono in atto per sottrarsi alla logica carceraria.
La riconfigurazione della sofferenza che l’autore propone, tuttavia, rivela come sia proprio attraverso il dolore che i prigionieri tornino in possesso dei propri corpi. Continua infatti Wumingshi:
Alla fine della giornata di lavoro, i “motori” che muovevano quegli animali primitivi che eravamo, finalmente si fermavano. “Essi” diventavano “noi” e “noi” finalmente tornavamo a essere “noi stessi”. La nostra coscienza si risvegliava, ma nei nostri corpi era accentuata la sensazione di estremo sfinimento. (Wumingshi, Hongsha, 60).
Vissuto come esperienza catartica, il dolore (percepito come estremo sfinimento) diventa un modo per ritornare alla vita e alla coscienza di sé. Soffro dunque sono, o meglio, mi riconosco come essere umano.
Corpi disgustosi
Oltre al corpo sofferente, un’altra figura significativa che ricorre nelle ricostruzioni letterarie delle esperienze carcerarie è quella del corpo ripugnante. Un’estetica del disgusto viene invocata per descrivere i corpi dei prigionieri, con evidenti fini politici; cioè per mettere in luce, mostrandone il rivoltante risultato, la ripugnanza del potere carcerario stesso.
Da un punto di vista sensoriale, il disgusto è un’emozione dal carattere fortemente reattivo. Solitamente viene sollecitata in risposta al contatto o in prossimità di oggetti che vengono percepiti come immondi o rivoltanti. La prossimità fisica, tuttavia, non è condizione necessaria per l’efficace sollecitazione del disgusto, e infatti, anche solo il resoconto, la ricostruzione o la rappresentazione del ributtante è più che sufficiente a farci rabbrividire. Per questa sua caratteristica, il disgusto è stato ampiamente e deliberatamente evocato in letteratura, utilizzato come strategia letteraria, per divertire, per suscitare pena o compassione, per provocare o turbare; esso può persino acquisire un significato morale e politico.
Nella letteratura cinese del carcere, l’estetica del disgusto è una strategia letteraria piuttosto comune, e diventa particolarmente efficace quando viene adoperata in relazione alla dimensione corporale. In altre parole, il corpo del prigioniero diviene l’oggetto evocatore, il vero locus del disgusto; esso viene riconfigurato attingendo a iconografie dell’orrendo, del ripugnante e dell’abominevole con l’obiettivo, più o meno esplicito, di scuotere la coscienza morale e politica di chi legge.
L’autore che senz’altro esplora in maniera più completa l’aspetto ripugnante dell’esperienza carceraria del periodo maoista è Yang Xianhui 杨显惠, autore di Jiabiangou jishi 夹边沟记事 (“Cronache di Jiabiangou”), una collezione di racconti basati sui resoconti dei sopravvissuti all’omonimo laogai nella provincia del Gansu, divenuto tristemente noto per l’alto numero di decessi dovuti all’estrema consunzione, conseguenza della carestia del 1958-61.
Nel libro, il primo corpo ripugnante compare già a pagina cinque, nel racconto dal titolo: “Shanghai nüren 上海女人” (“La donna di Shanghai”, che peraltro è il titolo dell’edizione italiana dell’opera). La storia è narrata dal punto di vista di Li Wenhan 李文汉, un “elemento di destra”, che racconta la dura realtà quotidiana del campo e dei suoi abitanti, particolarmente ossessionati dalla ricerca di qualsiasi cosa potesse essere commestibile. Il protagonista racconta di come i detenuti avessero imparato che i semi di una pianta selvatica che cresceva in abbondanza nell’area fossero, in realtà, edibili. Questi semi, però, non potevano essere consumati crudi, ma dovevano essere bolliti in acqua a formare una specie di zuppa che, una volta raffreddata, si sarebbe trasformata in una massa solida. Il composto veniva poi tagliato in piccoli pezzi e ingerito. In realtà, pur non essendo velenoso, esso non aveva alcun valore nutrizionale, e veniva consumato solo per tentare di placare i morsi della fame. Purtroppo, questa sostanza aveva anche un triste inconveniente: era molto difficile da digerire ed espellere dal corpo. La sua ingestione poteva risultare addirittura letale; se assunta allo stato liquido, la poltiglia collosa si solidificava nello stomaco, causando l’arresto generale degli organi addetti alla digestione. Di conseguenza, il processo escretorio diventava decisamente problematico (nonché dolorosissimo), perché parti di questo ammasso appiccicoso rimanevano incollate nell’intestino. Era pratica comune tra i prigionieri aiutarsi l’uno con l’altro durante l’escrezione, scavando e tirando fuori manualmente i frammenti di quell’orrendo impasto.
Anche Li Wenhan rimane coinvolto in un’operazione di “scavo”, nel tentativo di aiutare il suo compagno Wen Daye 文大业 che aveva ingerito una certa quantità di quella sostanza. La scena viene così descritta:
Quando eravamo ancora a Jiabiangou eravamo soliti aiutarci a vicenda a cavar fuori gli escrementi. […]. Anche se rimanevamo accucciati sulla latrina per mezza giornata non usciva niente, perciò avevamo bisogno dell’aiuto degli altri compagni; uno si metteva in posizione prona sul terreno con il sedere sollevato, e un altro iniziava a scavare nel suo didietro. Alcuni di noi avevano un utensile riservato a quella pratica, un cucchiaio di legno fatto con un rametto salice. Quelli che non avevano questo aggeggio dovevano accontentarsi del cucchiaio di metallo che usavano per mangiare.14)Yang Xianhui, Jiabiangou jishi (Guangzhou: Huacheng chubanshe, 2008), 5. Edizione italiana: La donna di Shanghai. Voci dai sopravvissuti a un gulag cinese, trad. (dall’edizione inglese) Anna Carbone (Bologna: Fausto Lupetti Editore, 2011).
La descrizione, così grafica, dell’operazione di “scavo”, evoca il disgusto tramite l’associazione tra cibo ed escrementi, ulteriormente amplificato dall’associazione tra il grado di sofisticazione necessario alla preparazione dell’impasto in questione e l’abominevole risultato, che allo stesso modo richiede un certo livello di industriosità per essere rimosso. Inoltre, in questo caso il disgusto è associato anche alla perdita di un senso di moralità e dignità. Mentre ci disgustiamo per via della ricchezza di particolari con cui la scena viene presentata, allo stesso tempo empatizziamo con Wen Daye e il suo destino (egli eventualmente morirà per le complicazioni derivate dall’ingestione di quella sostanza), che sappiamo essere causato da una condizione di partenza che è la fame estrema a sua volta legata alla condizione carceraria.
Riassumendo, la modalità con cui Yang Xianhui utilizza il disgusto come strategia letteraria è essenzialmente politica. I corpi disgustosi che compaiono nelle sue narrative carcerarie sono stati ritratti con il fine di suscitare compassione verso i prigionieri e disprezzo verso i responsabili della loro ripugnanza.
Corpi affamati
L’immagine del corpo disgustoso presentataci da Yang Xianhui è strettamente legata a un’altra articolazione letteraria del corporeo che vale la pena esplorare poiché particolarmente rilevante per l’esperienza storica cinese, ed è quella del corpo affamato.
Come già accennato, un periodo di carestia coinvolse l’intero paese all’indomani del fallimento del Grande Balzo in Avanti. L’esperienza della fame fu particolarmente estenuante per i detenuti nei campi di lavoro, le cui razioni alimentari, già decisamente scarse, furono ulteriormente diminuite.
Nel romanzo Lühuashu 绿化树, pubblicato in Cina nel 1983, e conosciuto, sia in inglese sia in italiano con il titolo “Mimosa”, Zhang Xianliang 张贤亮, autore di diverse narrazioni letterarie del laogai, esplora gli effetti della condizione di denutrizione prolungata che si manifestano sul corpo del protagonista, Zhang Yonglin章永璘. La storia inizia con la notizia del rilascio di Zhang, un giovane intellettuale che era stato mandato a riformarsi quattro anni prima per una poesia che aveva scritto, e che viene ora trasferito, come “lavoratore trattenuto”,in una tenuta statale nelle vicinanze del campo. Qui il giovane è costantemente affamato ed esausto per il lavoro fisico cui è sottoposto. Tuttavia, un oggetto funge da personale ancora di salvezza, un libro: Il capitale di Karl Marx. Per Zhang Yonglin esso rappresenta:
…il mio unico legame con il mondo razionale; solo questo libro può ancora farmi sentire parte di quella vita culturale in passato a me familiare, che può farmi elevare da pani, carote, zuppa di vegetali in salamoia, e pappe di cereali, e marcare la differenza tra me stesso e una bestia famelica.15)Zhang Xianliang 张贤亮, “Lühuashu 绿化树”, in Ganqing de Licheng感情的历程(Beijing: Zuojia chubanshe, 1989), 24-199, 51.
Essendo il simbolo del suo status di intellettuale, l’unico legame con la sua passata vita culturale, che nel campo non ha più nessun valore, Il capitale diventa una specie di cibo spirituale, un nutrimento metafisico di cui Zhang Yonglin ha bisogno per identificare sé stesso come essere umano. A un certo punto, tuttavia, le parole di Marx trascendono lo stato metafisico per tramutarsi, letteralmente, in cibo:
Quando leggevo [ne Il capitale, ndr] frasi come “Le merci vengono al mondo in forma di valori di uso, o corpi di merci, come ferro, tela, grano, ecc.”, assaporavo la parola “grano” invece di concentrarmi sul suo significato. Davanti agli occhi mi comparivano immagini di pane, panini al vapore, frittelle, torte al burro, e mi veniva l’acquolina in bocca. (Zhang, Lühuashu, 76).
La fame causa la trasfigurazione delle parole di Marx in nutrimento. Più è affamato, più Zhang Yonglin si abbuffa. Secondo Gang Yue, che in The Mouth that Begs propone un’acuta analisi dell’episodio, la fame reale è qui compensata da una fame di sapere, per cui l’avida consumazione delle parole (la lettura) sostituisce metaforicamente l’atto del mangiare.16)Gang Yue, The Mouth that Begs: Hunger, Cannibalism, and the Politics of Eating in Modern China(Durham: Duke University Press, 1999), 191. Tuttavia questa operazione non porta giovamento al corpo dell’affamato, tanto che alla fine dell’episodio Zhang è preso da “forti spasmi di stomaco”. In altre parole, l’incorporazione delle parole di Marx in effetti non riesce a saziare la fame reale di Zhang Yonglin. L’intero episodio si tramuta così in una sorta di esperienza religiosa corrotta, guastata; una transustanziazione mancata. La parola non è diventata carne, anzi, la carne è più debole che mai.
Zhang Yonglin, che non è riuscito a saziarsi con la parola scritta, in realtà è la metafora che Zhang Xianliang usa per indicare l’intero corpo degli intellettuali cinesi, che la Rivoluzione Culturale ha lasciato traumatizzati e indeboliti, per cui neanche la letteratura e la cultura sono in grado di fornire loro sostentamento spirituale.
La classe degli intellettuali è oggetto di riflessione anche per Yan Lianke 阎连科, che nel romanzo Si shu 四书 (I quattro libri, pubblicato in italiano per Nottetempo), rielabora in chiave satirica, ma anche molto cruda, l’esperienza dei campi di rieducazione di epoca maoista.17)Yan Lianke 阎连科, Si shu 四书 (Taipei: Maitian chubanshe, 2011). Edizione italiana: I quattro libri, trad. Lucia Regola (Roma: Nottetempo, 2018), Kindle e-book. L’autore ci offre una sua interpretazione del corpo affamato, soffermandosi in particolare sul tema del cannibalismo. Nel contesto storico e culturale cinese, l’argomento ha sempre avuto un alto valore simbolico, a partire da Lu Xun 鲁迅 che ne Il diario di un pazzo (狂人日记, 1918) rifletteva criticamente sulla natura antropofaga della società feudale cinese. Durante la grande carestia del 1958-61, il cannibalismo divenne poi anche una triste pratica documentata. Perciò non sorprende che esso sia diventato un topos ricorrente nelle narrazioni carcerarie ambientate nel periodo maoista, usato, in maniera sia letterale sia allegorica, a sottolineare l’aspetto più de-umanizzante dell’esperienza del campo.
Anche Yan Lianke usa il tema del cannibalismo come metafora del potere carcerario, che si manifesta in tutta la sua brutalità nei cadaveri ritrovati a brandelli, i cui pezzi mancanti erano stati trafugati per essere mangiati. Ma l’autore ci fornisce anche un’alternativa reinterpretazione del topos, in un senso che assume connotazioni più marcatamente religiose, o ritualistiche.
La metafora riguarda uno dei protagonisti del romanzo, lo Scrittore, un detenuto che era stato incaricato dalle autorità di spiare i suoi compagni e riportare comportamenti illeciti. Quando la carestia si abbatte sul campo, lo Scrittore assiste alla morte della Musicista, una detenuta della quale aveva denunciato la relazione adulterina che questa aveva avuto con un altro compagno, l’Erudito. La morte della donna scatena il senso di colpa nello Scrittore, percepito anche a livello fisico come una spina appuntita nel cervello. Per espiare le sue colpe e chiedere perdono, lo Scrittore taglia due pezzi di carne dai suoi polpacci; uno viene bollito e dato da mangiare all’Erudito, l’altro viene deposto sulla tomba della Musicista come offerta funebre.
Donandosi liberamente come cibo per i compagni, lo Scrittore mette in atto un rituale religioso, di chiara impronta cristiana. Attraverso il sacrificio della carne il detenuto espia le sue colpe e ritrova la propria dignità in quanto essere umano. Paradossalmente, quel corpo che si è auto-mutilato è più integro, dal punto di vista morale, di quanto fosse quando era fisicamente intero.
Yan Lianke utilizza il topos del cannibalismo innanzitutto per mostrare la violenza del potere politico, che nel campo trasforma uomini e donne in cadaveri fatti a pezzi e divorati. Inoltre, attraverso la storia dello Scrittore, l’autore elabora una riflessione più ampia sull’intera classe degli intellettuali cinesi, che vengono posti di fronte alla loro responsabilità dell’aver appoggiato o dell’essere stati complici del sistema maoista.
La Storia incarnata
I corpi che popolano la narrativa carceraria cinese del periodo maoista, come si è visto, riflettono innanzitutto la brutalità del potere politico, inteso in senso totalitaristico. Mostrandoci, spesso in maniera molto esplicita, la violenza del potere carcerario, questi corpi ci rivelano il reale significato dei concetti di “rieducare” e “riformare” attraverso il lavoro.
Questo esercizio di rielaborazione, questo sforzo di voler ridare senso a un passato tormentato, fatto di corpi sofferenti, disgustosi e affamati, è possibile grazie alla letteratura, che, come suggerisce David Wang, costituisce un “discorso complementare e contrastante” rispetto alla narrazione storica.18)David Der Wei Wang, The Monster that is History: History, Violence and Fictional Writing in Twentieth-Century China (Berkeley: University of California Press, 2004), 2 (corsivo nell’originale).
La letteratura si offre come spazio ideale che apre in sé la possibilità di rielaborare quelle narrazioni di un passato traumatico che erano state marginalizzate o addirittura escluse dalla storiografia ufficiale. Le opere letterarie diventano pertanto dei mezzi alternativi attraverso cui accedere all’esperienza traumatica e alla storia negata, o manipolata. Attraverso la scrittura, queste esperienze e queste storie vengono non solo rappresentate, ma anche ricostruite e riconfigurate, ripensate nel loro significato affettivo e reintegrate all’interno di una rinnovata concezione e pratica di memoria collettiva.
In questo senso, la letteratura del carcere cinese emersa dall’esperienza storica del periodo maoista, partendo dalle storie personali dei prigionieri e rivendicando la loro importanza all’interno di una narrazione condivisa del passato, ha dato vita a nuove pratiche di storiografia nazionale, alternative e complementari a quella ufficiale.
Fornendo uno spazio di riconfigurazione, la letteratura ha restituito dignità e senso a quei corpi incarcerati, che sono sì sofferenti, disgustosi e affamati, ma soprattutto, umani.
Immagine: Prigioniero.
Serena De Marchi è dottoranda presso l’Università di Stoccolma, dove ha anche tenuto dei corsi di letteratura cinese e sinofona moderna. Il suo progetto di dottorato si concentra sull’esplorazione dell’immaginario carcerario nella letteratura cinese moderna e contemporanea, con un’attenzione particolare alla dimensione spaziale e corporale.
↑1 | Xiaoda Xiao, The Cave Man (Columbus: Two Dollar Radio, 2009), 7. Le traduzioni dei testi letterari dal cinese e dall’inglese, se non diversamente specificato, sono della sottoscritta. |
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↑2 | Jean-Luc Domenach, Chine: l’archipel oublié (Parigi: Fayard, 1992). |
↑3 | Philip Williams e Yenna Wu, The Great Wall of Confinement: The Chinese Prison Camp Through Contemporary Fiction and Reportage (Berkeley: University of California Press, 2004), 62-76. |
↑4 | Si veda la discussione riguardo fiction vs. non-fiction nel già citato The Great Wall of Confinement, 155-158. |
↑5 | Arjun Appadurai, Modernity at Large (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1996), 31. |
↑6 | Michel Foucault, “Of Other Spaces: Utopias and Heterotopias”, trad. Jay Miskowiec, in Architecture/Mouvement/Continuité 5 (ottobre 1984), 46-49. |
↑7 | Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, trad. Andrea Bonomi (Milano: Bompiani, 2003 [1945]), e-book. |
↑8 | Mark Elvin, “Tales of Shen and Xin: Body-Person and Heart-Mind in China during the last 150 Years”, Fragments for a History of the Human Body, part. 2, a cura di Michel Feher (New York: Zone, 1989), 266-349. |
↑9 | Michel Foucault, Discipline and Punish – The Birth of Prison, trad. Alan Sheridan (New York: Random House, 1977 [1975]). |
↑10 | Giorgio Agamben, Homo Sacer: il potere sovrano e la nuda vita (Torino: Einaudi, 2005 [1995]). |
↑11 | Lai Ying, The Thirty-Sixth Way: A Personal Account of Imprisonment and Escape from Red China (Londra: Constable, 1969). |
↑12 | Nicole Hahn Rafter, Partial Justice: Women, Prisons, and Social Control (New York: Routledge, 1990). |
↑13 | Wumingshi无名氏, Hongsha 红鲨 (Taipei: Liming wenhua chubanshe, 1984), 60. |
↑14 | Yang Xianhui, Jiabiangou jishi (Guangzhou: Huacheng chubanshe, 2008), 5. Edizione italiana: La donna di Shanghai. Voci dai sopravvissuti a un gulag cinese, trad. (dall’edizione inglese) Anna Carbone (Bologna: Fausto Lupetti Editore, 2011). |
↑15 | Zhang Xianliang 张贤亮, “Lühuashu 绿化树”, in Ganqing de Licheng感情的历程(Beijing: Zuojia chubanshe, 1989), 24-199, 51. |
↑16 | Gang Yue, The Mouth that Begs: Hunger, Cannibalism, and the Politics of Eating in Modern China(Durham: Duke University Press, 1999), 191. |
↑17 | Yan Lianke 阎连科, Si shu 四书 (Taipei: Maitian chubanshe, 2011). Edizione italiana: I quattro libri, trad. Lucia Regola (Roma: Nottetempo, 2018), Kindle e-book. |
↑18 | David Der Wei Wang, The Monster that is History: History, Violence and Fictional Writing in Twentieth-Century China (Berkeley: University of California Press, 2004), 2 (corsivo nell’originale). |