Vorrei iniziare questo saggio toccando due fatti recenti che mi sembrano connessi con il tema specifico che tratta, ma soprattutto con quello generale che lo contiene: il corpo. Il primo è il contagio del cosiddetto “coronavirus” o COVID-19 attualmente in corso; l’altro, apparentemente scollegato ma non nella logica della mia trattazione, è la recente assegnazione del premio Oscar per il miglior film a Parasite, del cineasta coreano Bong Joon Ho. Pur non presentando un esplicito collegamento con il cannibalismo, entrambi parlano della funzione del corpo come strumento.
Nel caso del virus, diffusosi a partire dall’area di Wuhan dalla fine del 2019, si assiste purtroppo a una rinnovata presa di coscienza del corpo – ormai visto come asettico supporto di dispositivi elettronici e dispositivo esso stesso – come veicolo e oggetto di contaminazione per opera di agenti esterni che lo minacciano e sfidano la nostra stessa credulità, ma soprattutto sfidano la Cina e il mondo a fare i conti con le permanenze e i residui del premoderno (il contagio stesso e le condizioni che ne hanno permesso la nascita e diffusione) nel moderno (il modo in cui viene combattuto e curato, ma anche gestito e arginato). Il contagio ancora in corso, che deriva dall’esposizione ad agenti patogeni in ambienti scarsamente controllati dal punto di vista igienico, sta portando all’introduzione di norme più rigorose e cambierà ulteriormente e definitivamente il modo di rapportarsi agli alimenti di origine animale e al corpo umano. Per quanto riguarda invece Parasite, il film è costruito intorno al divario-scontro tra classi che si traduce in una concezione cangiante del corpo, visto ora come soggetto, ora come mezzo ma soprattutto come corpo estraneo, parassitario appunto. Un discrimine che risulta centrale ai fini dell’analisi che mi appresto a fare.
Da una parte abbiamo così il dato scientifico della malattia, dall’altro l’allegoria del sintomo, che coglie e raccoglie i fatti e li rende paradigma d’interpretazione, riflessione, forse perfino cambiamento.
Ritengo doverosa una precisazione: anche se farò riferimento a generi e sottogeneri letterari, la mia trattazione dell’argomento (il cannibalismo) e soprattutto del contesto di riferimento (la Cina), terrà conto, anzi partirà dalla realtà fattuale e antropologica del fenomeno per poi passare alla sua trattazione “letteraria”, pur non volendo con questo implicare che la seconda sia meno “reale”.1)Vale la pena citare Franco Moretti, il quale nota che le figure centrali della “letteratura del terrore – il mostro e il vampiro”, in quanto metafore, ovvero “figure retoriche costruite sull’analogia tra differenti campi semantici”, non solo devono mettere insieme “paure dalle cause diverse” (economiche, ideologiche, psichiche, sessuali, religiose), ma anche necessariamente “trasformarle, cambiarne la forma”, per permettere alla coscienza sociale di “accettare le proprie paure senza esporsi a uno stigma”. Questa è per lo studioso una “funzione negativa, una forma di ‘mistificazione’ che distorce la realtà”. Ma è anche un lavoro di “produzione” e quello che produce è, almeno in Occidente, la “cultura dominante” che deriva da falsa coscienza. È interessante notare come una simile critica sembri coincidere stranamente (o non troppo se si considera la comune matrice marxista) con l’attuale posizione del Governo cinese. Moretti nota anche che in questa letteratura il “mostro” non è più concepito e percepito come una metafora (da autore e lettori), ma diventa reale come altri personaggi. “Ciò significa, in altre parole, che una particolare costruzione intellettuale – la metafora e l’intrinseca ideologia da questa espressa – è diventata una vera “forza materiale”, un’entità indipendente che sfugge al controllo razionale dell’utente”. Franco Moretti, “The Dialectic of Fear”, in New Left Review, 136, 1982, 82-83. Questo significa che il cannibalismo e i racconti di esso non saranno qui considerati solo e semplicemente come metafora, ma come pratica infiltrata nell’inconscio (collettivo) attraverso il meccanismo di formazione del significante simbolico, quello che Claude Lévi-Strauss chiama “mito”.2)Si deve all’etnologo francese al suo Strutturalismo del mito e del totemismo (Roma: Newton Compton Editori, 1975), la più esaustiva descrizione del “sistema simbolico” e del mito nelle culture non-occidentali. Mythologies (Torino: Einaudi, 2016 [1957]) di Roland Barthes prende le mosse dallo strutturalismo di Lévi-Strauss allargandone l’ambito di applicazione alla cultura popolare. Una volta entrato nella sfera culturale e sottoposto al “trattamento” del linguaggio (e dell’arte), il potenziale spaventoso potrà essere sublimato e trasformarsi in allegoria, una figura retorica particolarmente efficace per materializzare e al tempo stesso esorcizzare l’inquietudine collettiva.3)Si passa in poche parole dalla paura di morire mangiati (letteralmente) a quella di vivere da sfruttati. In Cina il tropo del cannibalismo è penetrato nelle pratiche contemporanee come materializzazione di un dato storico condiviso e sconcertante e del suo status ambiguo a metà tra rito e tabù – come tutti i tabù largamente conosciuto.
Obiettivo della mia analisi è riconsiderare il cannibalismo, nel suo uso allegorico e nella sua ricorrenza storica, non come suggestione letteraria o “colpo di scena”, ma come tema politico che riguarda il modo in cui il corpo è stato gestito e narrato in Cina, attraverso tutto il Ventesimo e l’inizio del Ventunesimo secolo. La letteratura e l’arte cinesi sono percorse da un filo di sangue – lo stesso che si ritrova nei quadri del pittore Zhang Xiaogang4)Per un approfondimento sul lavoro di Zhang Xiaogang rimando al testo Zhang Xiaogang. Disquieting memories, di Jonathan Fineberg e Gary G. Xu (Londra: Phaidon Press, 2015). Si veda inoltre il video: https://stories.mplus.org.hk/en/channel/zhang-xiaogang-bloodlines-and-family/ e che deriva in parte dalla consapevolezza comune a tutti i popoli che il sangue è vita e dona vita. Il sangue diviene sineddoche del corpo stesso, come suo elemento più abbondante (o quanto meno distintivo) e più appariscente, una volta esposto. Per questo, in questa sede si parlerà anche di sangue come referente metonimico.
Non rientra tra le mie finalità citare tutti i testi cinesi in cui si rintracciano in modo più o meno esplicito riferimenti a pratiche cannibalistiche, ma può essere utile accennare al ruolo letterale e simbolico che queste hanno rivestito in Cina sin dall’antichità e provare a capire se e come questo ruolo è stato preservato riverberandosi nell’alveo di quella che possiamo definire “avanguardia”. Si ritorna qui alla tesi iniziale per cui è l’arte, in particolare quella non-normata, a utilizzare in modo più proficuo il rimosso e l’inquietante.
In particolare, una serie di studi recenti che uniscono il resoconto storico alla narrazione letteraria, hanno fatto luce – non senza controversie e contraccolpi sugli autori – sui numeri e dettagli riguardanti un episodio centrale nella storia della Cina contemporanea: la Grande carestia (1958-1962). Ancor più della Rivoluzione Culturale, la Grande carestia è stata persistente oggetto di censura, al punto di essere divenuta uno dei maggiori tabù politici in Cina. Opere come Scarlet Memorial: Tales of Cannibalism in Modern China di Zheng Yi, The Great Famine in China, 1958-1962: A Documentary History di Zhou Xun e i numeri del giornale Annals of the Yellow Emperor (炎黄春秋 Yanhuang Chunqiu) pubblicati dal 2013 al 2014 da Yang Jisheng, rivedono drasticamente verso l’alto le stime delle vittime della carestia, portando l’evidenza di numerosi casi di cannibalismo in cui la carenza di cibo e un desiderio feroce di eliminare i nemici spesso si combinavano.5)Zheng Yi, Scarlet Memorial: Tales of Cannibalism in Modern China (London and New York: Routledge, 2018 [1996]); Zhou Xun (a cura di), The Great Famine in China, 1958-1962: A Documentary History (New Haven: Yale University Press, 2012); Wu Si, “Annals of the Yellow Emperor – Reconstructing Public Memory of the Mao Era”, in Sebastian Veg (a cura di), Popular Memories of the Mao Era: From Critical Debate to Reassessing History (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2019), 43-44.
Nel mondo cattolico il cannibalismo è entrato nel subconscio dei fedeli attraverso il culto eucaristico, rituale per cui l’ostia consacrata somministrata durante la comunione non rappresenta solo il corpo di Cristo ma lo è per “antonomasia”, in virtù del principio noto come “transustanziazione”. Noto brevemente che se il rito ha la funzione primaria di “normalizzare” il potenziale disturbante del gesto, il suo valore intrinseco consiste nella capacità di testimoniare ogni volta qualcosa – in questo caso il sacrificio di Cristo – e di farlo nel modo più concreto possibile. In Cina non è il rito che si appropria del cannibalismo ma l’esatto opposto, come dimostrano le testimonianze del ricorso al cannibalismo come pratica curativa.6)Nella cultura cinese tradizionale il cibo è interamente assimilabile a una medicina e l’assunzione di carne o altre parti umane non fa eccezione, come testimoniato dalle prescrizioni contenute all’interno del Bencao Gangmu 本草纲目, noto anche come Compendium of Materia Medica, trattato di medicina cinese del XVI secolo di Li Shizhen. Vedi Richard Sugg, Mummies, Cannibals and Vampires: the History of Corpse Medicine from the Renaissance to the Victorians (London and New York: Routledge 2011), 117; Li Shizhen, Essentials of Chinese Materia Medica: 本草纲目 Ben Cao Gang Mu (100 Books of Ancient China Classics Book 1). Donare il proprio sangue e la propria carne a un genitore malato assume una forte connotazione rituale e sacrificale e può essere considerata una delle manifestazioni più eclatanti del principio confuciano della pietà filiale.7)La pratica per cui un figlio/a, spesso la nuora, offrisse in segno di devozione parti di sé al genitore malato, documentata fino a tutto il XX secolo, rientra nella tradizione confuciana del “keku” 刻苦,ovvero superare le difficoltà. Vedi R. Sugg, Mummies, Cannibals and Vampires; vedi anche Rukang Tian, Male Anxiety and Female Chastity: A Comparative Study of Chinese Ethical Values in Ming-Ch’ing Times, (Leiden New York: Brill, 1988), 152.
Date queste premesse, non sorprende che all’interno di un sistema che applica in modo radicale i principi alla base del suo “benessere spirituale” e che ha al contempo dismesso – almeno sulla carta – qualsiasi forma di superstizione, sia stata espressa, soprattutto in anni recenti, una condanna dell’“oscuro” e con esso di tutto ciò che è potenzialmente inquietante, ciò che Freud definiva con il termine “unheimlich”e che in Cina è stato storicamente bollato con la generica definizione “decadente”. Questa condanna si è tradotta in un bando che vale soprattutto per i film e prodotti affini.8)Ilaria Maria Sala, “No ghosts. No gay love stories. No nudity: tales of film-making in China”, The Guardian, 22/09/2016. L’applicazione totalizzante della norma sembra generare il paradosso per cui il perturbante, eliminato dalla cultura ufficiale perché fin troppo reale e recente, si infiltra per lo stesso motivo nelle narrative “individuali” e non-ufficiali. Uno dei tratti distintivi della letteratura cinese contemporanea è infatti il ricorso al grottesco e al “sanguinolento” all’interno dell’impianto tendenzialmente allegorico di molte narrative, in cui il sangue diventa segno e sintomo di un’anomalia politica ma anche invito a reagire.9)David Der-wei Wang descrive il fenomeno come “familiarization of the uncanny”. Vedi Pang-Yuan Chi e David Der-wei Wang (a cura di), Chinese Literature in the Second Half of a Modern Century: A Critical Survey (Bloomington e Indianapolis: Indiana University Press, 2000), xxxiv. Sarebbe pertanto un’ingenuità interpretare l’efferato nella narrativa cinese come espressione di umorismo macabro fine a se stesso: è piuttosto una risposta e reazione alla violenza che ha sotteso e sottende ancora l’esercizio del potere.
Così l’“horror” passa dall’essere una specie di carnevale – se per “carnevale” s’intende il ribaltamento di ruoli e dell’ordine costituito – a una condizione psicologica cronicizzata. Sottolineo per l’ennesima volta che il cannibalismo, tema centrale di questo saggio, sarà trattato come cannibalismo letterale e letterario, per evidenziare come in Cina i due siano collegati al punto che l’uno non esisterebbe senza l’altro. L’uno è diventato il fantasma che evoca l’altro, esattamente come i fantasmi rappresentano il ritorno del represso e del rimosso.10)Tale è il potere del rimosso che esso si trasla lontano dal “rimovente” e finisce per ritorcerglisi contro, come dimostra la persistente leggenda metropolitana che aleggia da decenni a Hong Kong, secondo cui i “mainlanders” sarebbero accaniti cannibali.
Nel suo celebre testo sulla “Letteratura del Terzo Mondo”, Fredric Jameson cita en passant la centralità che la sfera orale assume nella cultura cinese: Jameson nota in particolare le svariate applicazioni metaforiche associate all’atto del mangiare nella lingua cinese comune.11)Fredric Jameson, Third-World Literature in the Era of Multinational Capitalism, Social Text, 15, 1986, 72-73. Uno dei testi letterari più conosciuti e citati a questo proposito è il racconto di Lu Xun Diario di un pazzo (狂人日记 Kuangren riji, 1918) in cui si descrive un uomo paranoico convinto che le persone intorno a lui si cibino di altre persone. Jameson ha dedicato grande attenzione al testo, ritenuto un perfetto esempio di allegoria che catalizza istanze politiche (ovvero collettive) passando dalla sfera (apparentemente) privata a quella pubblica. Per il filosofo post-marxista, all’interno del racconto citato e di Medicina (药 Yao, 1919) contenuto nella stessa raccolta e anch’esso incentrato su una patologia curata in modo del tutto inefficace se non controproducente, Lu Xun costruisce un’atmosfera di strisciante disperazione (per la situazione politica di un paese senza speranza) che sembra riecheggiare l’orrore evocato dal colonnello Kurtz nel romanzo di Joseph Conrad Cuore di Tenebra (1899), altro esempio di commistione tra paranoia individuale e disastro collettivo nel bilancio drammatico che Conrad traccia dell’esperienza coloniale.12)Ibid., 70. Così, contrariamente alle narrative occidentali tradizionali che tendono a ricondurre e reintegrare il politico-collettivo all’interno della sfera personale e della dimensione libidinale, Lu Xun parte dall’esperienza individuale per poi applicarla alla sfera pubblica e politica. Lu prende le mosse dall’esperienza autobiografica, come si evince dalla sua ossessione per la malattia e la medicina (che ha studiato in Giappone), in particolare quella tradizionale, da lui considerata simbolo di un paese fatiscente e sull’orlo di un imminente catastrofe, proprio come gli individui malati descritti.13)Tale fu il padre Zhou Boyi 周伯益 mortodi tubercolosi nel 1986, non prima di essere stato sottoposto a costose cure tradizionali che non ebbero altro effetto se non quello di depauperare la già impoverita casata. L’intolleranza che ne deriva per quella che Lu, erede di una famiglia feudale in rovina, non esita a definire vera e propria “ciarlataneria”, diventa centrale nell’immaginario dello scrittore. In Medicina il malato è un bambino al quale sono dati panini al vapore intinti del sangue di un condannato a morte. Neanche il bambino si salverà. È evidente che Lu Xun non intravede alcuna speranza per la Cina, diventando così una voce critica che riecheggia ancora oggi. Nel suo veemente attacco contro le superstizioni, lo scrittore invoca un razionalismo di matrice occidentale coerente con il messaggio di fondo del movimento per la nuova cultura, che non solo aveva pienamente abbracciato ma di cui si era fatto portavoce. Nella Cina di oggi, che ha riscoperto un forte orgoglio nazionalista, non sembra esserci molto spazio per una simile visione né tantomeno per un pessimismo così radicale.
Jameson parla di “risonanza allegorica” creata da (e a sua volta generatrice di) un’atmosfera di controllata disperazione che deriva anche dalla consapevolezza dell’inutilità del sacrificio. C’è un fatale fraintendimento alla base della volontà di immolarsi per il benessere dei propri cari e, per estensione, quello di tutto l’impero/nazione. Non ci si illuda di raggiungere uno status morale superiore in virtù del proprio sacrificio: la pratica di “donarsi” è qualcosa di necessario, anzi obbligatorio, in una visione generale che va oltre il cinismo delle leggi naturali, ma anche oltre le leggi di mercato nella moderna società capitalista. La necessità che alcuni soccombano deriva da un rigido schema gerarchico per il quale gli strati “bassi” della società non sono altro che ricambi per quelli alti.14)Non è fuori luogo un altro richiamo al film Parasite e a Snowpiercer, diretto dallo stesso regista nel 2013. Questo spiega il perché il sangue che veniva usato come costosa medicina era spesso quello di condannati e riaffiora oggi con la notizia secondo cui le prigioni cinesi sarebbero ancora usate come banche organi.
Nella narrazione di Lu Xun, la pratica del cannibalismo innesca un circolo entropico che prelude al collasso della società perché mentre consente di acquisire energie vitali ne consuma l’equivalente privando altri delle loro. Che sia rituale, punizione o necessità, il cannibalismo appare come il trionfo di una disuguaglianza: quella radicale tra chi mangia e chi viene mangiato. Eppure, paradossalmente, nel portare all’assimilazione e metabolizzazione (letterali) dell’uno nell’altro, si configura come atto che vuole annullare la differenza stessa che ne è alla base.
Il consumismo connota in modo strutturale la Cina contemporanea. Ironicamente, o forse non troppo, questa parola condivide la stessa radice con il verbo “consumare” solitamente associato ai pasti o agli alimenti in generale. L’atto, o meglio lo stile di vita, alla base del “consumo” è prerogativa di chi ha i mezzi, mentre chi ne è privo sembra destinato a soccombere. Purtroppo la storia insegna che il primo bene di consumo di cui le classi dominanti – la cui prerogativa è stabilire ciò che è lecito e giusto – dispongono, sono proprio le persone. Se si pensa a quando e come la Cina si sia preparata ad abbracciare il mercato e con esso lo stile di vista consumistico, si capirà che in Cina il consumo è una questione di vita o di morte – “consuma o sarai consumato” potrebbe essere un perfetto slogan in questo scenario. Nella Cina post-Tian’anmen, l’energia vitale che Yue Gang descrive come un “carnevale primitivo” viene canalizzata nel consumo, del quale il cannibalismo, nelle sue orride varianti “gourmet”, diventa prima e più potente allegoria.15)Gang Yue, The Mouth that Begs: Hunger, Cannibalism, and the Politics of Eating in Modern China (Durham: Duke University Press, 1999), 284. Tanto più efficace se si pensa alla carneficina perpetrata nella capitale cinese: nel momento della loro soppressione, i partecipanti al movimento per la democrazia del 1989 sono stati dati in pasto ai “genitori” per un bene superiore, quello della sopravvivenza degli stessi, ovvero il mantenimento dell’ordine della società gerarchica. Nella nuova fase funzionale alla salvaguardia dell’ordine “rivoluzionario”, quello che è stato cannibalizzato sono anche i ricordi e la memoria della storia recente, eliminati senza essere assimilati.
Ciò che rende realmente perturbante il cannibalismo come dispositivo allegorico all’interno dei romanzi di Mo Yan e Yu Hua, nonché in film come Jiaozi (2004) di Fruit Chan, tratto dall’omonimo romanzo di Lilian Lee, non è la sua rappresentazione come un atto mostruoso ma la sua “normalizzazione” come commercio in cui il bene da consumare è la carne di giovani o addirittura – come nel caso del film citato – feti di bambine.
Se in recenti narrative distopiche il cannibalismo è una manifestazione definitiva della perdita di umanità in uno scenario post-apocalittico di cronica penuria di risorse,16)Tra questi si può citare The Road (2006) di Cormac McCarthy. le narrative oggetto del nostro interesse non sono o non sono semplicemente distopiche. Piuttosto ripercorrono e rievocano, alterandola e aggiornandola, quella che è stata l’apocalisse cinese – la Rivoluzione Culturale. La feroce lotta per la sopravvivenza che ha contraddistinto questa fase storica, sembra essersi inoculata nella coscienza collettiva dove l’horror vacui si traduce nella spinta all’accumulo e al consumo. Come si è visto, già molto prima della Rivoluzione Culturale e prima dell’insediamento del maoismo, Lu Xun aveva stigmatizzato la presenza di cannibali e cannibalizzati nella società cinese come retaggio feudale e confuciano.
Ne Il paese dell’alcol (酒国 Jiu Guo, 1992),17)Mo Yan, Il Paese dell’alcol(Torino: Einaudi, 2016). Mo Yan aggiorna la critica di Lu Xun orientandola verso la deprecabile quanto inedita società (cinese) dei consumi, della quale la “politica del figlio unico” altro non è che un’altra cannibalistica manifestazione.18)In linea con le caratteristiche del romanzo postmoderno, l’identità di narratore che Mo Yan sceglie o meglio crea per sé è più ambigua: se l’io narrante di Lu Xun è moralmente irreprensibile e di conseguenza “superiore”, vittima innocente dell’istinto cannibalistico degli altri (compreso il fratello), Mo Yan si identifica nella voce narrante di un cannibale, che non prende le distanze e non condanna, ma che ha sentimenti contrastanti e alla fine partecipa di questa pratica vista come una forma molto alta di gourmandise. Il romanzo è caratterizzato dalla compresenza di piani narrativi (e metanarrativi) in cui Mo Yan inserisce se stesso. Protagonista di uno dei filoni è un ispettore che si reca a Jiu Guo per indagare sulla presunta specialità culinaria del luogo, il cui consumo rappresenta la forma più alta di privilegio: la “carne di neonato”, piatto forte della cuoca conosciuta come “suocera di Li Yidou” (un dottorando che intrattiene un rapporto epistolare con lo scrittore). Attraverso tutto il racconto permane l’ambiguità circa la vera origine del piatto, ambiguità che anche a causa delle copiose quantità di alcol consumate non viene mai veramente risolta e che per l’autore rappresenta evidentemente la cifra della società cinese contemporanea.19)Se in Lu Xun il narratore è “inaffidabile” perché presumibilmente schizofrenico, in Mo Yan il narratore perde la sua lucidità a causa dell’alcol. Si tratta sempre comunque di (ri)stabilire la verità nella generale mistificazione. Altra caratteristica predominante è la corruzione che prolifera grazie alla stessa ambiguità e che insieme a questa contribuisce a creare un atmosfera di totale dissolutezza: d’altra parte in Cina i cibi rari sono associati al potere e alla sua spiccata discrezionalità. Il testo riprende la macabra tradizione-leggenda che vedeva persone povere vendere i propri figli come carne da macello al mercato. Per chi si trova dall’altra parte della “barricata” e considera il “bambino brasato” come una ricercata prelibatezza, s’intravede il meccanismo di eliminazione e “assunzione” dell’altro gerarchicamente inferiore, per annullare la minaccia (di inferiorità e in ultima analisi morte) che questi porta con sé.20)Meccanismo che Judith Butler applica al ripudio dell’omosessualità e che, come spiega Rosi Braidotti, “traccia un itinerario psichico fatto di una perdita costitutiva”. Ciò si traduce nell’identificazione di un oggetto “malinconico”. Vedi Judith Butler, The Psychic Life of Power: Theories in Subjection (Stanford: Stanford University Press, 1997), 139, e Rosi Braidotti, In metamorfosi: verso una teoria materialista del divenire (Milano, Feltrinelli, 2000), 69.
Altrettanto consapevole dell’orrore reale e allegorico è Yu Hua, che nella sua narrazione ha saputo integrare desiderio e distruzione. Figlio di medici, Yu Hua ha manifestato sin dall’inizio una fascinazione per il corpo fisiologico, che non separa mai dal corpo sociale e politico. Diversamente da quello di Mo Yan, l’impianto allegorico di Yu Hua ha come attivatore il racconto tradizionale, con il quale l’autore si misura per convalidare in modo ancora più radicale e grottesco la sua tesi sulla storia contemporanea del paese. Nella narrativa di Yu Hua, il corpo è quasi sempre i debilitato o sadicamente brutalizzato, come nel racconto “horror” Classical Love (古典爱情 Gudian aiqing, 1988).21)Yu Hua 余華“Gudian aiqing” 古典愛情 (Classical love), in Xianxie meihua 鮮血梅花(Blood and plum blossoms) (Taipei: Rye Field, 2006). Se il cannibalismo in ogni sua forma e funzione ha quasi sempre a che fare con la fame, questa è a sua volta espressione di un desiderio, cosa che la accomuna con l’amore. Il racconto mette insieme generi o meglio filoni diversi della letteratura cinese tradizionale, in particolare quello caizi jiaren 才子佳人, noto come “Scholar-Beauty”, che incorpora spesso il filone fantastico conosciuto col nome di zhiguai 志怪, incentrato su apparizioni di fantasmi e altri eventi sovrannaturali; ma parla anche degli cairen 菜人, persone usate come cibo da altre persone. Già contraddistinti da una notevole stratificazione semantica, in Yu Hua questi filoni diventano elementi di un pastiche postmoderno in cui l’allegoria è esponenzialmente amplificata per evocare la complessità dei recenti accadimenti storici. Nel racconto si narra di uno studente che recandosi a sostenere gli esami imperiali si imbatte, innamorandosene, in una fanciulla di buona famiglia, la quale gli strappa la promessa che indipendentemente dall’esito sarebbe tornato da lei. Lo studente fallisce e si dimentica della ragazza, che trova tre anni dopo, quando va nuovamente a provare l’esame. La scena che stavolta gli si presenta davanti è orripilante: il paesaggio e la stessa abitazione della ragazza sono descritti con l’espressione duan jing can yuan 斷井殘垣, ovvero distruzione e rovine causate dalla carestia abbattutasi sulla zona, che annunciano l’orrore: per volere del padre, la ragazza sta subendo l’amputazione di una gamba che sarà poi venduta al mercato come un pezzo di carne qualsiasi. Inorridito ma morbosamente affascinato, il giovane ucciderà la ragazza su sua richiesta, ponendo così fine alle sue sofferenze. Dieci anni dopo, lo studente ritorna nello stesso luogo e ritrova la ragazza, o meglio il suo fantasma, consumando un rapporto e appagando così il desiderio in passato represso dall’intervento della famiglia di lei. Incerto se la sua amata sia reale o meno, si reca nel luogo della sua sepoltura per verificare se il corpo fosse effettivamente tornato in vita, fermando così il processo di risuscitamento in corso e condannando la donna a morte definitiva.
Dalla trama appare evidente la complessità dei livelli semantici in gioco: le circostanze descritte, ambientate in un passato remoto quanto generico, possono essere lette come un riferimento alla terribile carestia provocata dal “Grande balzo in avanti” e alla Rivoluzione Culturale, segnata a sua volta da una profonda penuria di risorse. Se lo studente rappresenta l’intellettuale cinese per eccellenza, la figura della ragazza sembra incarnare identità diverse e istanze ancor più complesse.22)Può rappresentare la popolazione cinese ripetutamente tradita e condannata al massacro per colpa delle scelte folli di chi è al potere (il padre), ma anche l’ideale rivoluzionario che muore definitivamente e forse persino il corpo imbalsamato di Mao, del quale molti sospettano l’autenticità ma che comunque è quotidianamente dato in pasto a folle di visitatori adoranti. Yu Hua riprende il cannibalismo già trattato da Lu Xun e in pieno spirito postmoderno lo fonde con il tema tradizionale dell’amore tra un giovane candidato agli esami imperiali e una ragazza-fantasma. Con questo gesto non fa altro che creare un nuovo genere dove i dettagli gore permettono di riconsiderare il perturbante nella narrativa cinese, attraverso la lente della contemporaneità e della Rivoluzione Culturale, in cui all’orrore letterale della fame e delle condizioni più abiette si somma l’orrore politico del paradosso che ha visto un paese divorare i suoi abitanti con l’obiettivo di distruggere le residue vestigia del passato: come un genitore che elimina i figli che ha già per fare spazio ai nascituri, in un macabro circolo che trova una temporanea conclusione solo con la scomparsa dei genitori.23)Yibing Huang parla degli orfani letterali e metaforici della Rivoluzione Culturale. Vedi H. Yibing, Chinese Literature, From the Cultural Revolution to the Future, (London: Palgrave Macmillan, 2007), 5.
Finora ho elencato casi in cui si parla o si mette in scena il cannibalismo e mi sono attenuta alla lettura allegorica che cerca di individuare la polisemia del testo e del gesto; ma se per cannibalismo intendiamo la suprema reificazione di qualcuno o qualcosa, allora si può dire che tutta l’arte cinese contemporanea sia contraddistinta da una forma di cannibalismo sottaciuto, che si configura sia come cannibalismo che autocannibalismo.
Abbiamo già accennato al rifiuto, da parte della cultura cinese ufficiale espressione della classe dirigente, di qualsiasi espressione che abbia a che fare con il paranormale, il macabro, il morboso o il grottesco – considerati tutti manifestazione di decadenza e corruzione dei costumi. Per reazione, l’arte e la narrativa sperimentali che reclamano un approccio creativo autonomo, sono piene di sangue e orrore, latenti e impersonali come solo un nemico invisibile può essere.
Alla fine del XX secolo, l’eredità di Lu Xun è passata ad artisti e intellettuali dallo status ambiguo e sfuggente come quello del potere che cercano di contrastare o di cui sono essi stessi emanazione. Si tratta nella maggioranza dei casi di artisti conosciuti più all’estero che in Cina, in virtù della loro scelta di adottare un linguaggio transnazionale.
Artisti visivi e cineasti hanno trovato soluzioni inedite per riassorbire il tema del cannibalismo all’interno della loro pratica; così facendo hanno anche rinnovato l’analisi sulla brutalità estesa ora al mondo capitalista che ha inglobato il paese come una balena ingloba ciò di cui si nutre. Esemplare a questo proposito è il caso del gruppo di artisti del Dashancun Village (rinominato Dong Cun – East Village), tra cui Zhang Huan, Rong Rong, Ma Liuming e Zhu Ming, i quali, trasferitisi nella capitale dalla fine degli anni Ottanta, nella prima metà della decade successiva realizzarono performance passate alla storia per la durezza di azioni al limite dell’umana sopportazione. Quello che questi artisti hanno messo in scena altro non è che una versione ritualizzata delle loro reali condizioni di vita. Quando, nel 1994, Zhang Huang (Anyang, 1965) entrò in una latrina, nudo e cosparso di miele e olio di pesce, seduto e immobile in attesa che le mosche lo ricoprissero, protagonista non era l’uomo bensì l’ambiente circostante che di umano non aveva più niente.24)La performance del 1994, di cui restano le fotografie di Rong Rong, porta il titolo di 12 Square Meters. La performance pone in essere l’annullamento della persona respinta dal suo stesso habitat. In 65 Kg – il peso dell’artista in quel momento – Zhang si fece legare con delle catene al soffitto di una stanza ricoperta di materassi bianchi sui quali erano accomodati gli “spettatori.” Da un ago infilato nel braccio sgocciolava lento e costante il suo sangue, che cadeva in un contenitore di acciaio (di quelli che negli ospedali contengono strumenti operatori) a sua volta collocato su una piastra elettrica. L’odore di sangue bruciato aggiungeva alla situazione un ulteriore fattore di disagio, mentre Zhang, avvicinandosi alla soglia di tolleranza, mostrava la distanza incolmabile che separa le persone anche nello stesso spazio. L’artista si sacrifica con e per il pubblico, o forse nonostante il pubblico. Questo immolarsi, che ricorda il sacrificio rituale con cui i figli onoravano i genitori malati, perde la sua finalità e funzione, rimanendo atto nichilista di autoannientamento.25)Nell’annientamento si raggiunge il massimo livello di realizzazione, in modo non dissimile dalla conclusione del romanzo di Patrick Süskind Il Profumo. Il ricorso all’oscenità (attraverso i tabù) è più di una provocazione, ma è azione necessaria a mostrare gli esiti di un processo di disumanizzazione che ha assunto nuovi connotati con l’ingresso della Cina nel mercato globale. D’altronde, come avvisa Moretti via Marx, il capitalismo annuncia l’arrivo dei vampiri e viceversa.26)Gli artisti in esame hanno usato il proprio corpo per vivere – anche questa una forma di cannibalismo – salvo poi essere in alcuni casi divorati dal sistema globalizzato dell’arte, che ha approfittato del sensazionalismo generato dalle loro azioni e dal loro paese di provenienza. In altri casi si sono “cannibalizzati” a vicenda: chiusi in un’enclave così piccola e opprimente, sono entrati in conflitto tra di loro per questioni di copyright. Si può dire sia stata una guerra fratricida combattuta sul corpo stesso dei contendenti, mentre entrambi forse venivano divorati da un corpo più grande: quello del mercato.
Questo mettere in scena la propria morte, che il regista Wang Xiaoshuai ha ben rappresentato nel suo primo lungometraggio Frozen (极度寒冷 Jidu Hanleng, 1997), è anche un’immolazione in nome di un ideale che non si conosce, o riconosce, più. Afflitti dal caos di una società in perenne trasformazione e riformazione, gli artisti – soggetti particolarmente vulnerabili per antonomasia – rinunciano a lottare, si sottraggono alla competizione e si autoeliminano con un gesto che finisce per catapultarli nuovamente nella mischia, solo in un punto diverso.
Nella Cina che si preparava a entrare nel nuovo millennio, l’artista concettuale decide di diventare un vero cannibale, in un atto talmente violento e apparentemente gratuito da perdere il suo (apparente) contenuto politico per restare come gesto e in un secondo momento immagine. Nel 1997 Xu Zhen (Shanghai, 1977) si filmò nell’atto di sbattere ripetutamente il cadavere di un gatto contro un pavimento di cemento. Anche qui si rintraccia una ricerca dell’orrido “fotogenico” che parla di tante cose, ma soprattutto della perdita di tante cose.27)In quegli anni artisti e curatori spostarono molto in alto l’asticella della morale comune e si cimentarono in una sistematica esplorazione del patologico quotidiano, in un rifiuto della stessa morale e in una celebrazione del nichilismo materialista attraverso mostre dal titolo programmatico come Post-sense Sensibility: Alien Bodies and Delusion (1999).
Una serie di fotografie realizzata per la mostra Fuck Off, curata da Ai Weiwei e evento collaterale della Terza Biennale di Shanghai (2000), vedeva l’artista Zhu Yu (Chengdu, 1971) intento nell’atto di cucinare e poi divorare un feto. Zhu ha dichiarato di aver voluto esplorare – con un’azione evidentemente shoccante – i limiti della morale, sfruttando a suo dire un vuoto legislativo circa l’esplicito divieto di consumare carne umana.Le fotografie non testimoniano una performance come nel caso degli artisti dell’East Village, ma sono concepite come una sequenza di immagini filmiche. Rimosse per timore della censura e non prive di conseguenze legali per l’artista, iniziarono a viaggiare in rete, anche a sostegno di pezzi che diffondevano fake news e leggende metropolitane riguardanti il cannibalismo in Cina. L’atmosfera di ambigua paranoia creata da Lu Xun e riattivata da Mo Yan, sembra trovare qui un paradossale compimento attraverso quella cassa di risonanza collassata su se stessa che è la Rete. Stabilire se quello che l’artista ha mangiato fosse un feto reale o qualcos’altro (parti di altri animali con la ricostruzione di una testa umana) non è solo difficile, ma in primo luogo inutile. Come nel caso delle scatolette di Piero Manzoni, che si dice non contengano veramente le feci dell’artista, non si tratta di stabilire l’“autenticità” del “materiale” o discernere il vero dal falso, ma quello che ha portato l’artista fin lì.
Alla 58° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, Sun Yuan & Peng Yu (Pechino, 1972 e Heilongjiang, 1974) hanno collocato un robot industriale in una grande camera a tenuta stagna con pareti di vetro: il robot raccoglie sistematicamente un liquido denso e rosso dando vita a un sanguinamento continuo e controllato. L’opera porta il titolo criptico e ammiccante di Can’t help myself (2016). Dietro un impianto retorico potente c’è forse anche un sadomasochistico compiacimento lontano dall’orrore reale di un’artista come Ana Mendieta,28)In Untitled (Rape Scene), del 1973, l’artista cubana ha creato una documentazione fotografica in cui si è fatta ritrarre di spalle, nuda, legata e sporca di quello che sembra sangue, nella stessa posizione in cui era stato ritrovato il corpo di una compagna di studi nel campus dell’Università dell’Iowa. Il lavoro rappresentava una reazione immediata dell’artista allo shock della notizia e mirava a generare un ulteriore shock e una riflessione profonda in chi osservava. ma anche dalla sofferta lucidità di Lu Xun.
La disumanizzazione o de-sensibilizzazione che sembrano essere sopraggiunte – con sfumature di sociopatia, se per essa intendiamo la difficoltà di relazionarsi empaticamente con il prossimo – sono viste come un “problema” dell’arte e della società (non solo cinese) at large. In Cina, sin dal 1983, quando fu lanciata la campagna contro l’inquinamento spirituale che ha rappresentato la prima reazione ufficiale al movimento culturale e artistico noto come “cultural new wave”, wenhua xin chao 文化新潮 o xin shidai 新时代 (“new era”), si è manifestata un’aperta tensione tra forze conservative (più che conservatrici) e le spinte di trasformazione e assorbimento della cultura occidentale. Se l’arte della xin chao era caratterizzata da un’attitudine esistenzialista che esprimeva un nichilismo disperato come un grido di aiuto e di rifiuto,29)Famoso il 我不相信 wo bu xiangxin (“Io non credo”) reiterato della poesia Risposta (huida 回答) di Bei Dao. l’odierna arte cinese ha perso la sua cornice politica di riferimento: il suo referente immediato non è più il Governo e gli artisti sono troppo furbi per farsi etichettare come “dissidenti”. D’altra parte è il termine stesso a non avere più un significato incontestabile.30)Se i vecchi dissidenti stanno morendo, i nuovi, ambigui e sfuggenti come Han Han, sono stati anch’essi cannibalizzati dalla società dello spettacolo che ha bisogno di ribelli, come ricorda Guy Debord, per il quale “alla beata accettazione di ciò che esiste può così unirsi come un’unica cosa la rivolta puramente spettacolare”. Guy E. Debord, La Società dello Spettacolo (Viterbo: Stampa Alternativa Editrice, 2006 [1967]), 31. Nel suo film In girum imus nocte et consumimur igni (1978), Debord dice ancora: “This society signs a sort of peace treaty with its most outspoken enemies by granting them a place in its spectacle”. Guy E. Debord, Complete Cinematic Works: Scripts, Stills, Documents (Oakland, CA: AK Press, 2003).
Con il cannibalismo siamo alle prese con un oggetto residuale: della brutalità delle società tribali, della superstizione che informa la medicina tradizionale e con essa altri tipi di credenze al confine con la magia, ma anche con la residua importanza del simbolo e del rito. Oggi il cannibalismo permane in Cina esclusivamente come elemento simbolico all’interno di narrative la cui peculiarità, siano esse letterarie o visive, consiste nel rifiuto della categorizzazione e del genere. Questo può dipendere dal fatto che la sua presenza non è disciplinata ma sconvolgente e volutamente tale, in quanto non derivante da un naturale processo di sedimentazione, ma piuttosto da un’azione di sommovimento dei fondali (del ricordo).
L’impianto allegorico che ricorre al cannibalismo come metafora diventa sempre più utile e al tempo stesso sempre più difficile da applicare per la stratificazione di significati e, più banalmente, l’accumularsi di fatti storici. A questo c’è poi da aggiungere la difficoltà portata dalla globalizzazione, che ha omologato processi e reazioni, rendendo le soluzioni universalmente valide ma anche forse meno potenti. Con questo suggerisco che l’uso più o meno programmatico di immagini e descrizioni cannibalistiche va circoscritto a un periodo preciso in cui si è assistito al commiato virtuale dall’antichità “impresentabile” e incomprensibile al di fuori dei confini cinesi. La ricerca di tracce e permanenze ancora più recenti del cannibalismo sarà un’iniziativa interessante da destinare a un’altra circostanza.
Immagine: Can’t Help Myself, di Sun Yuan and Peng Yu (Mixed media, 2016). 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times. Foto di Andrea Avezzù, Italo Rondinella, Francesco Galli, Jacopo Salvi. Per gentile concessione de La Biennale di Venezia.
Costantino, Quel che resta del corpo PDF
Mariagrazia Costantino è una sinologa, curatrice d’arte e studiosa di cinema. Ha conseguito una laurea in Studi Orientali presso La Sapienza, un Master in Global Media and the Transcultural alla SOAS (Università di Londra) e un dottorato di ricerca in Cinema e Discipline dello spettacolo presso l’Università Roma Tre. Dal 2000 conduce ricerche sulla cultura visiva cinese, sull’arte multimediale e sul cinema. È co-autrice del libro Arte Cinese Contemporanea pubblicato da Electa e collabora con vari siti web e giornali. Dal 2013 al 2016 ha ricoperto il ruolo di direttore artistico presso OCAT (OCT Contemporary Art Terminal) Shanghai. Ultimamente si è dedicata all’insegnamento della Lingua e Letteratura cinese e continua a lavorare come critica indipendente.
↑1 | Vale la pena citare Franco Moretti, il quale nota che le figure centrali della “letteratura del terrore – il mostro e il vampiro”, in quanto metafore, ovvero “figure retoriche costruite sull’analogia tra differenti campi semantici”, non solo devono mettere insieme “paure dalle cause diverse” (economiche, ideologiche, psichiche, sessuali, religiose), ma anche necessariamente “trasformarle, cambiarne la forma”, per permettere alla coscienza sociale di “accettare le proprie paure senza esporsi a uno stigma”. Questa è per lo studioso una “funzione negativa, una forma di ‘mistificazione’ che distorce la realtà”. Ma è anche un lavoro di “produzione” e quello che produce è, almeno in Occidente, la “cultura dominante” che deriva da falsa coscienza. È interessante notare come una simile critica sembri coincidere stranamente (o non troppo se si considera la comune matrice marxista) con l’attuale posizione del Governo cinese. Moretti nota anche che in questa letteratura il “mostro” non è più concepito e percepito come una metafora (da autore e lettori), ma diventa reale come altri personaggi. “Ciò significa, in altre parole, che una particolare costruzione intellettuale – la metafora e l’intrinseca ideologia da questa espressa – è diventata una vera “forza materiale”, un’entità indipendente che sfugge al controllo razionale dell’utente”. Franco Moretti, “The Dialectic of Fear”, in New Left Review, 136, 1982, 82-83. |
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↑2 | Si deve all’etnologo francese al suo Strutturalismo del mito e del totemismo (Roma: Newton Compton Editori, 1975), la più esaustiva descrizione del “sistema simbolico” e del mito nelle culture non-occidentali. Mythologies (Torino: Einaudi, 2016 [1957]) di Roland Barthes prende le mosse dallo strutturalismo di Lévi-Strauss allargandone l’ambito di applicazione alla cultura popolare. |
↑3 | Si passa in poche parole dalla paura di morire mangiati (letteralmente) a quella di vivere da sfruttati. |
↑4 | Per un approfondimento sul lavoro di Zhang Xiaogang rimando al testo Zhang Xiaogang. Disquieting memories, di Jonathan Fineberg e Gary G. Xu (Londra: Phaidon Press, 2015). Si veda inoltre il video: https://stories.mplus.org.hk/en/channel/zhang-xiaogang-bloodlines-and-family/ |
↑5 | Zheng Yi, Scarlet Memorial: Tales of Cannibalism in Modern China (London and New York: Routledge, 2018 [1996]); Zhou Xun (a cura di), The Great Famine in China, 1958-1962: A Documentary History (New Haven: Yale University Press, 2012); Wu Si, “Annals of the Yellow Emperor – Reconstructing Public Memory of the Mao Era”, in Sebastian Veg (a cura di), Popular Memories of the Mao Era: From Critical Debate to Reassessing History (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2019), 43-44. |
↑6 | Nella cultura cinese tradizionale il cibo è interamente assimilabile a una medicina e l’assunzione di carne o altre parti umane non fa eccezione, come testimoniato dalle prescrizioni contenute all’interno del Bencao Gangmu 本草纲目, noto anche come Compendium of Materia Medica, trattato di medicina cinese del XVI secolo di Li Shizhen. Vedi Richard Sugg, Mummies, Cannibals and Vampires: the History of Corpse Medicine from the Renaissance to the Victorians (London and New York: Routledge 2011), 117; Li Shizhen, Essentials of Chinese Materia Medica: 本草纲目 Ben Cao Gang Mu (100 Books of Ancient China Classics Book 1). |
↑7 | La pratica per cui un figlio/a, spesso la nuora, offrisse in segno di devozione parti di sé al genitore malato, documentata fino a tutto il XX secolo, rientra nella tradizione confuciana del “keku” 刻苦,ovvero superare le difficoltà. Vedi R. Sugg, Mummies, Cannibals and Vampires; vedi anche Rukang Tian, Male Anxiety and Female Chastity: A Comparative Study of Chinese Ethical Values in Ming-Ch’ing Times, (Leiden New York: Brill, 1988), 152. |
↑8 | Ilaria Maria Sala, “No ghosts. No gay love stories. No nudity: tales of film-making in China”, The Guardian, 22/09/2016. |
↑9 | David Der-wei Wang descrive il fenomeno come “familiarization of the uncanny”. Vedi Pang-Yuan Chi e David Der-wei Wang (a cura di), Chinese Literature in the Second Half of a Modern Century: A Critical Survey (Bloomington e Indianapolis: Indiana University Press, 2000), xxxiv. |
↑10 | Tale è il potere del rimosso che esso si trasla lontano dal “rimovente” e finisce per ritorcerglisi contro, come dimostra la persistente leggenda metropolitana che aleggia da decenni a Hong Kong, secondo cui i “mainlanders” sarebbero accaniti cannibali. |
↑11 | Fredric Jameson, Third-World Literature in the Era of Multinational Capitalism, Social Text, 15, 1986, 72-73. |
↑12 | Ibid., 70. |
↑13 | Tale fu il padre Zhou Boyi 周伯益 mortodi tubercolosi nel 1986, non prima di essere stato sottoposto a costose cure tradizionali che non ebbero altro effetto se non quello di depauperare la già impoverita casata. |
↑14 | Non è fuori luogo un altro richiamo al film Parasite e a Snowpiercer, diretto dallo stesso regista nel 2013. |
↑15 | Gang Yue, The Mouth that Begs: Hunger, Cannibalism, and the Politics of Eating in Modern China (Durham: Duke University Press, 1999), 284. |
↑16 | Tra questi si può citare The Road (2006) di Cormac McCarthy. |
↑17 | Mo Yan, Il Paese dell’alcol(Torino: Einaudi, 2016). |
↑18 | In linea con le caratteristiche del romanzo postmoderno, l’identità di narratore che Mo Yan sceglie o meglio crea per sé è più ambigua: se l’io narrante di Lu Xun è moralmente irreprensibile e di conseguenza “superiore”, vittima innocente dell’istinto cannibalistico degli altri (compreso il fratello), Mo Yan si identifica nella voce narrante di un cannibale, che non prende le distanze e non condanna, ma che ha sentimenti contrastanti e alla fine partecipa di questa pratica vista come una forma molto alta di gourmandise. |
↑19 | Se in Lu Xun il narratore è “inaffidabile” perché presumibilmente schizofrenico, in Mo Yan il narratore perde la sua lucidità a causa dell’alcol. Si tratta sempre comunque di (ri)stabilire la verità nella generale mistificazione. |
↑20 | Meccanismo che Judith Butler applica al ripudio dell’omosessualità e che, come spiega Rosi Braidotti, “traccia un itinerario psichico fatto di una perdita costitutiva”. Ciò si traduce nell’identificazione di un oggetto “malinconico”. Vedi Judith Butler, The Psychic Life of Power: Theories in Subjection (Stanford: Stanford University Press, 1997), 139, e Rosi Braidotti, In metamorfosi: verso una teoria materialista del divenire (Milano, Feltrinelli, 2000), 69. |
↑21 | Yu Hua 余華“Gudian aiqing” 古典愛情 (Classical love), in Xianxie meihua 鮮血梅花(Blood and plum blossoms) (Taipei: Rye Field, 2006). |
↑22 | Può rappresentare la popolazione cinese ripetutamente tradita e condannata al massacro per colpa delle scelte folli di chi è al potere (il padre), ma anche l’ideale rivoluzionario che muore definitivamente e forse persino il corpo imbalsamato di Mao, del quale molti sospettano l’autenticità ma che comunque è quotidianamente dato in pasto a folle di visitatori adoranti. |
↑23 | Yibing Huang parla degli orfani letterali e metaforici della Rivoluzione Culturale. Vedi H. Yibing, Chinese Literature, From the Cultural Revolution to the Future, (London: Palgrave Macmillan, 2007), 5. |
↑24 | La performance del 1994, di cui restano le fotografie di Rong Rong, porta il titolo di 12 Square Meters. |
↑25 | Nell’annientamento si raggiunge il massimo livello di realizzazione, in modo non dissimile dalla conclusione del romanzo di Patrick Süskind Il Profumo. |
↑26 | Gli artisti in esame hanno usato il proprio corpo per vivere – anche questa una forma di cannibalismo – salvo poi essere in alcuni casi divorati dal sistema globalizzato dell’arte, che ha approfittato del sensazionalismo generato dalle loro azioni e dal loro paese di provenienza. In altri casi si sono “cannibalizzati” a vicenda: chiusi in un’enclave così piccola e opprimente, sono entrati in conflitto tra di loro per questioni di copyright. Si può dire sia stata una guerra fratricida combattuta sul corpo stesso dei contendenti, mentre entrambi forse venivano divorati da un corpo più grande: quello del mercato. |
↑27 | In quegli anni artisti e curatori spostarono molto in alto l’asticella della morale comune e si cimentarono in una sistematica esplorazione del patologico quotidiano, in un rifiuto della stessa morale e in una celebrazione del nichilismo materialista attraverso mostre dal titolo programmatico come Post-sense Sensibility: Alien Bodies and Delusion (1999). |
↑28 | In Untitled (Rape Scene), del 1973, l’artista cubana ha creato una documentazione fotografica in cui si è fatta ritrarre di spalle, nuda, legata e sporca di quello che sembra sangue, nella stessa posizione in cui era stato ritrovato il corpo di una compagna di studi nel campus dell’Università dell’Iowa. Il lavoro rappresentava una reazione immediata dell’artista allo shock della notizia e mirava a generare un ulteriore shock e una riflessione profonda in chi osservava. |
↑29 | Famoso il 我不相信 wo bu xiangxin (“Io non credo”) reiterato della poesia Risposta (huida 回答) di Bei Dao. |
↑30 | Se i vecchi dissidenti stanno morendo, i nuovi, ambigui e sfuggenti come Han Han, sono stati anch’essi cannibalizzati dalla società dello spettacolo che ha bisogno di ribelli, come ricorda Guy Debord, per il quale “alla beata accettazione di ciò che esiste può così unirsi come un’unica cosa la rivolta puramente spettacolare”. Guy E. Debord, La Società dello Spettacolo (Viterbo: Stampa Alternativa Editrice, 2006 [1967]), 31. Nel suo film In girum imus nocte et consumimur igni (1978), Debord dice ancora: “This society signs a sort of peace treaty with its most outspoken enemies by granting them a place in its spectacle”. Guy E. Debord, Complete Cinematic Works: Scripts, Stills, Documents (Oakland, CA: AK Press, 2003). |