Et avec tout ça, je n’aurai pas vu le kiki d’un seul Chinois. Or que connaître d’un peuple, si on ne connaît pas son sexe ?1)Roland Barthes, Carnets de voyage en Chine (Paris : Bourgois, 2008), 117.

1.Corpi repubblicani

Il cinema riprende i corpi, e li costruisce. Ciò che segue non vuole essere una storia del cinema cinese, ma un percorso attraverso i corpi che il cinema cinese ha filmato, scolpito, censurato, sublimato. Tenendo presente, di conseguenza, che si tratta di paradigmi indicativi ove le eccezioni e gli scarti alla norma del tempo sono possibili, anzi benvenuti. Alcune tendenze, purtuttavia, mi sembrano forti e di conseguenza tacciabili.
Di cosa parliamo quando parliamo di corpi al cinema? In un primo tempo, come sottolinea il seminale articolo di Tom Gunning,2)Tom Gunning, “Le Cinéma d’attraction: le film des premiers temps, son spectateur, et l’avant-garde”, 1895. Mille huit cent quatre-vingt-quinze, 50, 2006. di corpi presentati come attrazioni. Erotiche, certo, ma non solo. Gunning definisce la categoria operativa di “cinema delle attrazioni” rifacendosi a Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, da cui prende a prestito il termine. Se il celebre regista e teorico russo cerca una definizione per analizzare il teatro e i suoi effetti, Gunning se ne appropria per sottolineare come (parafraso), anche al di là del quadro del film d’attualità – che oggi chiameremmo reportage o documentario –, il cinema delle origini non era dominato da quel desiderio di finzione e racconto che più tardi lo definirà; una concezione di cinema come serie di vignette da presentare allo spettatore per sorprenderlo appartiene, dunque, tanto all’approccio “realista” dei Lumière quanto all’illusione di un Méliès, che non è narratore quanto prestidigitatore. E in questo gesto del mostrare, i corpi degli individui diventano naturalmente soggetto di predilezione. Tanto dello spettatore quanto, molto in fretta, dei cineasti.3)Si potrebbe aggiungere che, anche al giorno d’oggi, si assiste a un risorgere ciclico di forme di cinema come attrazione, se si pensa alla diffusione (massiccia soprattutto in Cina, si veda David Bordwell, Pandora’s Digital Box: Films, Files, and the Future of Movies, Madison, Wisconsin: The Irvington Way Institute Press, 2012) della 3D e dei multiplex che creano un’esperienza attorno al film fatta di cibo, musica, consumo – che insomma fa tornare il cinema al suo carattere di oggetto di consumo collettivo a uso di tribù urbane. Lo racconta bene un film particolare: Shadow Magic (2000). Il film di Ann Hu racconta l’introduzione del cinema in Cina e in maniera pedagogica ma precisa mostra come la nuova tecnica dall’Occidente sia tanto una finestra verso il mondo che sta invadendo l’Impero di mezzo, quanto una formidabile espressione del locale, dell’intimo, del “nostro”. Gli spettatori appaiono dapprima costernati davanti alle immagini della Francia di fine secolo; ma poi, quando i cineasti pionieri cominciano a filmare Pechino e le sue strade, i suoi volti e i suoi corpi, ecco che le “ombre occidentali” vengono fatte proprie dal pubblico cinese. Il film termina con l’eulogia del cinema-specchio: il pubblico è anche attore: a turno passano sullo schermo le immagini riprese a Pechino, e davanti alla propria immagine si estasia, si entusiasma, adotta. È solamente quando può riconoscersi che il pubblico capisce appieno le potenzialità del mezzo. E infatti, la storia tramanda che il primo film cinese, La Montagna Dingjun (Dingjun shan, Ren Jingfeng, 1905) sia l’appropriazione di una performance di Tan Xinpei, leggendario interprete d’opera di Pechino.
Menzionare l’attore d’opera ci porta all’altra, grande rivoluzione che il cinema accompagna: il corpo femminile estromesso, assente, sublimato da corpi maschili sulle scene teatrali dev’essere ripensato in direzione di un realismo che, benché sia sempre necessario definire, preme alle porte della coscienza del mezzo cinematografico. Le nuove concezioni mediche, sociali, politiche che si confrontano o si completano a vicenda per fondare la nuova Cina repubblicana danno anche voce a nuove concezioni del corpo, e segnatamente del corpo giovane, motore ideologico delle aspirazioni dell’intellighenzia cinese post-Quattro Maggio 1919. In ambito cinematografico è possibile cogliere alcuni leitmotiv caratteristici della cultura dell’epoca: diverse interpretazioni e proposte ideali della gioventù come realtà storica e portavoce della Nuova Cina vengono sviluppate dai cineasti.4)Ho trattato per esteso le tematiche della Bildung e delle nuove concezioni della giovinezza in Âges inquiets: cinémas chinois, une répresentation de la jeunesse (Lyon: Tigre de Papier, 2009). Degli studi di Sun Yu in America, e dell’impatto di questi sulla sua creazione cinematografica una volta rientrato in patria ho trattato in “Sun Yu and the Early Americanization of Chinese Cinema”, in Kingsely Bolton and Jan Olsson (a cura di), Media, Popular Culture, and the American Century (London: Wallpaper, 2011), 227-248. Sun Yu 孙瑜5)Si rimanda a Sun Yu 孙瑜, Yinhai fanzhou – huiyi wo de yisheng 银海泛舟 回忆我的一生 [Navigare sullo schermo – I ricordi della mia vita] (Shanghai: Shanghai Wenyi chubanshe, 1987) per l’autobiografia del regista. è, tra i registi dell’epoca, colui che più compiutamente riesce a fondere una visione autoriale con un cinema popolare e commerciale; attraverso un linguaggio popolare dove sperimenta tecniche e linguaggi elabora una forma di cinema forte tanto da un punto di vista estetico quanto politico.
L’elemento più innovatore è la sensualità che le immagini di Sun Yu riescono a veicolare; tanto che la spontaneità dei suoi corpi è rimasta a tutt’oggi ineguagliata nel panorama cinematografico cinese: essi esprimono ansia rivoluzionaria, tensioni sessuali, irrequietezze giovanili: la rivoluzione sessuale e quella politica vanno di pari passo.6)Si veda Pang Laikwan, Building a New China in Cinema. The Chinese Left-Wing Cinema Movement, 1932-1937 (Boston: Rowman and Littlefield, 2002), 101. Se in altri film (come si vedrà a breve) è la figura femminile che viene fantasticata e ricreata, in Big Road (Da lu 大路, 1935)7)Si rimanda a Sun Yu 孙瑜, Dalu zhi ge 大路之歌 [La canzone di Big Road(Taibei: Yuanliu, 1990) per una ricostruzione, da parte del regista stesso, della produzione di Big Road. è un nuovo ideale maschile a essere forgiato. Infrangendo una tradizione rappresentativa e ideologica di corpi maschili intellettuali e deboli,8)Si veda Song Geng, The Fragile Scholar. Power and Masculinity in Chinese Culture (Hong Kong: Hong Kong University Press), 2004. Sun Yu propone un nuovo ideale maschile: forte, muscoloso, generoso, virile, segnato dal lavoro e dalla sofferenza, rude e semplice, trascinatore di folle.9)È lo stesso Sun Yu a stigmatizzare il nuovo “eroe” che, incurante delle intemperie e delle condizioni politiche e sociali, contribuisce a costruire il paese col sudore della sua fronte (Sun Yu, Dalu zhi ge, 128-133 – pagine che sono una apologia dell’operaio eroico e patriota). Jin Ge è il nuovo eroe per una nuova epica. Viene presentato ancora infante, quando i genitori morenti si trascinano per il deserto. Poi segue una sovrimpressione sul volto del bambino, sono passati tre anni, il piano frontale medio leggermente inclinato verso l’alto (un’inquadratura di stile sovietico che enfatizza la nobiltà operaia) mostra il bambino accanto al padre che si accascia e muore. Sovrimpressione: sul volto infantile che piange appare il corpo muscoloso di Jin Ge che trascina, insieme ai compagni, il rullo compressore: sudore, muscoli, carne tagliata dalle corde e un volto sorridente su cui però è segnata in filigrana la sofferenza del bambino. Da notare che l’eroe viene presentato in gruppo. A questo proposito, v’è una sequenza paradigmatica: le due protagoniste cercano i loro amici. Li trovano al torrente: un piano totale li riprende giocare nudi nell’acqua. I ragazzi si accorgono di essere osservati, e stanno al gioco provocando le due. Si alzano dalle acque (totale sul fiume, le montagne, i corpi nudi e lontani degli uomini che si avvicinano alla cinepresa) e montano sulla collina dove stanno le due ragazze. Per finire, quando i sei ragazzi arrivano alla sommità della collina rompono un’anguria e la dividono con le amiche: in cinese, aprire un’anguria (po gua破瓜) è una figura usata per indicare la deflorazione.10)Questa sequenza è stata analizzata da Chris Berry (“The Sublimative Text: Sex and Revolution in Big Road”, in East-West Film Journal, 2.2, 1988, 66-89) con una suggestiva critica freudiana, rielaborata poi da Wang Laikwan (op. cit., 98-102) e criticata da Zhang Yingjin (Screening China, 2002, 101-103). Si tratta d’una sequenza sorprendente per le finezze psicologiche che rivelano sulle due amiche più di ogni didascalia e per la schiettezza con cui viene rappresentato il desiderio femminile e il sesso: la metafora dell’anguria condivisa dai corpi seminudi appena usciti dall’acqua difficilmente sarebbe sfuggita a uno spettatore dell’epoca. Laikwan Pang parla di “iniziazione”:

[i]f we take the theme of initiation into consideration, it is not difficult to see the importance of the bathing scene. The gaze of the women invites the men into the realm of sexuality, a crucial step for the boys to reach manhood. Without prior knowledge, the boys’ sexual urges have to be initiated by experienced women, as shown by their voluptuous bodies and sensual laughter, in these sexual rites (2002, p. 104).11)I testi cinesi sorvolano su questi aspetti preferendo concentrarsi sui temi rivoluzionari. Vedi Li Suyuan 郦苏元 e Hu Jubin 胡菊彬, Zhonggguo wusheng dianying shi 中国无声影史 [Storia del cinema muto cinese] (Beijing: Zhongguo dianying, 1997), e Dai Xiaolan 戴小, Zhongguo wusheng dianying 中国无声影 [Il cinema muto cinese] (Beijing: Zhongguo dianying), 1996.

Si comincia a canonizzare l’eroica figura del martire patriottico: i lavoratori sfidano apertamente il feudatario collaborazionista. Vengono immediatamente condotti alle segrete; qui, un’ombra sul muro mostra il carnefice che strappa la camicia a Jin Ge e comincia a frustarlo. Poi, la cinepresa non arretra e mostra il corpo dell’eroe mentre la frusta cade su di lui tracciando rosse ferite; Jin Ge sorride. Sun Yu crea qui l’icona del martire maschile rivoluzionario. Ma la sua sensualità istintiva e spontanea non sarà mai più riprodotta: pur se abbonderanno martiri incatenati e frustati, essi saranno sempre coperti e ben vestiti dell’uniforme asessuata della rivoluzione. È nei film di Sun Yu che per la prima volta si sperimenta la spontaneità del corpo: l’ideale del regista corrisponde ai numerosi appelli degli intellettuali dell’epoca affinché la giovinezza prenda attivamente parte al combattimento antimperialista.12)Rimando a Liu Xiaofeng 刘小, “Guanyu wusi yi dai de shehuixue sikao zhaji 关于五四一代的社会学思考札记” [Riflessioni sociologiche sul Quattro Maggio], in Dushu, 5, 1989, 35-43, per una riflessione sociologica sul Quattro Maggio; a Frank Dikötter, Sex, Culture and Modernity in China (London: Hurst&Company, 1995) per una panoramica sui mutamenti della concezione del corpo e della sessualità. ì La nuova giovinezza deve essere sana e forte, distaccata il più possibile dal modello tradizionale dell’intellettuale debole e remissivo. Il corpo acquista nuova importanza, anche per via della diffusione di teorie mediche e fisiche provenienti dall’Occidente. Big Road è il primo film cinese in cui il corpo maschile è fieramente esibito nella sua giovinezza, salute e forza fisica – allontanandosi così dalle stereotipate rappresentazioni cinematografiche dei primi anni, fortemente indebitate al teatro tradizionale, che prevedeva ampio uso di trucchi e maschere, nonché l’abitudine alla confusione dei generi. In un teatro, infatti, ove le compagnie erano esclusivamente composte da maschi o da femmine, la rappresentazione dei sessi era subordinata a una rigida serie di simboli e convenzioni. Con Sun Yu irrompe invece nel cinema l’idea di una differenza fisica, corporea, sensuale tra maschi e femmine, e nella fattispecie tra ragazzi e ragazze. Tra gli altri capolavori di Sun Yu: Daybreak (Tianming 天明, 1933), di cui ricordo la straordinaria sequenza finale: la protagonista è condannata a morte per essere stata spia al servizio della Rivoluzione. Chiede di essere fucilata indossando gli abiti con cui è arrivata in città – attestando così la sua umile origine e la purezza intatta del suo cuore – e muore ridendo – mostrando della gioventù gli ideali e le speranze. La cinepresa si allontana, montata su una gru, fino a riprendere tutto lo scenario del cortile dove è avvenuta l’esecuzione, sino a mostrare, dietro al muro, il nascere d’una nuova alba. La donna ha capito il valore dell’immagine; ridotta a immagine in vita – il suo corpo come merce di scambio per ricchi affaristi – nella morte vuole che il suo corpo rappresenti ciò che lei non è più, una contadina innocente. Consapevolmente, sorride provocante e diventa il simbolo della rivoluzione, estraniandosi da ogni contingenza personale e felice del suo ruolo rivoluzionario, di offrire alla causa il suo corpo usato ma ancora bellissimo, che aspira alla virginale innocenza del popolo. Qui Sun Yu costruisce con grazia un feticcio erotico ricorrente (la prostituta travestita da contadina – la puttana santa), un ideale martire rivoluzionario, e un modello di forza e coraggio per tutte le giovani donne cinesi, nonché un’immagine filmica di grande potenza espressiva.13)Yomi Braester in Witness Against History (Palo Alto: Stanford Univeristy Press, 2003) elabora, facendo riferimento proprio a Daybreak e a Song of Midnight (Yeban gesheng 夜半歌声, Maxu Weibang, 1937) un’estetica della rivoluzione come piaga, ferita, dell’atto rivoluzionario come esposizione dell’orrore fisico. Secondo lo studioso, sarebbero strategie di senso per “testimoniare contro la storia” (witness against history), ovverosia levare la voce in opposizione alla storiografia ufficiale. Si vede inoltre come, benché l’esegesi del partito abbia sempre sottolineato l’aspetto realistico di questo cinema pionieristico, esso fosse invece intriso di elementi romantici, sensuali e melodrammatici.14)Per uno studio sul concetto di melodramma si veda Peter Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess (New Haven: Yale University Press, 1976); con riferimenti alla cultura cinematografica cinese si vedano invece Nick Brown, “Society, and Subjectivity: On the Political Economy of Chinese Melodrama”, in Nick Browne et al. (a cura di), New Chinese Cinemas. Forms, Identities, Politics, Cambridge (Cambridge: Cambridge University Press, 1994) 40-56; Wimal Dissanayake (a cura di), Melodrama and Asian Cinema (Cambridge: Cambridge University Press, 1993); Stephen Teo, “Il genere wenyi: una esegesi del melodramma cinese”, in Festival del cinema di Pesaro, Stanley Kwan. La via orientale al melodrama(Roma: Il Castoro, 2000).
Un altro importante film di Sun Yu è Queen of Sports (Tiyu huanghou 体育皇后, 1934), una delle prime pellicole a occuparsi di sport, soggetto nuovo all’epoca, parte dei progetti governativi per lanciare una “nuova vita” 新生活, con nuovi valori di patriottismo, produttività, salute. In particolare, Sun Yu riprende qui elementi fondanti della sua poetica per un’opera di propaganda fresca e immediata: l’importanza del corpo sano, la giovinezza come modello di innocenza e salute fisica, la spontaneità della recitazione come nuovo modello di condotta sociale che infranga gli stantii rituali feudali. In perfetta corrispondenza con l’ideale nazionalista della costruzione di una Nuova Cina il corpo sano diventa l’emblema di uno spirito sano, poiché, come dice all’inizio la protagonista, uno dei motivi di debolezza della Cina è la salute cagionevole dei suoi abitanti. Di questa etica ed estetica del corpo, affatto nuove in Cina, è fondamentale ricordare le origini: da un lato l’interesse per la medicina e la scienza occidentali (gli studenti in classe studiano anatomia, oltre che libri quali Teorie dello sport e Breve storia dello sport), che porta alla pubblicazione di numerosi trattati originali e traduzioni sul corpo, sulla sessualità e sulla medicina, dall’altro le tendenze autoritarie di simpatie fasciste del governo Nazionalista, che prende a prestito, mutatis mutandis, l’enfasi mussoliniana sul corpo statuario degli eroi romani. Sono, insomma, gli anni delle Olimpiadi filmate da Leni Riefenstahl e i cinesi, colti da severi complessi di inferiorità per la presunta arretratezza della loro patria, sentono la necessità di rimettersi in pari e primeggiare anche nel dominio dello sport: ciò è chiaramente mostrato nel film, e detto testualmente in un più tardo film sportivo, socialista questa volta, Girl Basketball Player n°5 (Nü lan wu hao 女篮五号, Xie Jin 谢晋, 1957).

2. Corpi comunisti

Si menziona Xie Jin, verosimilmente la figura autoriale più importante del cinema comunista. Ne Il distaccamento femminile rosso (Hongse niangzi jun 紅色娘子軍, 1961) Xie Jin traccia il modello del corpo martire: la giovane protagonista è presentata sotto i colpi di frusta dei suoi aguzzini proprietari terrieri spalleggiatori del Partito Nazionalista (il film è ambientato nel 1930, “epoca di grande sofferenza per i cinesi, ma anche anni che videro la fondazione dell’Armata di Liberazione!”). Lo sguardo della ragazza sfida i suoi aguzzini. Ma la vera presa di coscienza politica del suo corpo martirizzato avviene quando, dopo una fuga rocambolesca, arriva infine al Distaccamento femminile dell’Armata di Liberazione. Qui si intrufola tra un gruppo di soldatesse in piena esercitazione, viene immediatamente segnalata all’istruttrice, che comincia a chiederle se appartiene alla classe dei proprietari o se invece è una proletaria. La ragazza esita; non sa cosa voglia dire, “proletaria”. Ma quando le viene chiesto il perché voglia arruolarsi, la camera compie un leggero movimento verso di lei, la inquadra dal basso, e lei con voce stentorea ruggisce: “Perché? Ecco perché!” e si slaccia la camicia con gesto rapido, e mostra le tracce delle frustate sul petto. “Voglio Vendetta!”; così basta, è sufficiente per garantire la sua buona fede, la traccia della sofferenza è evidente sulla sua pelle, non c’è bisogno d’altro.15)Si veda Chris Berry, “Stereotypes and Ambiguities: An Examination of the Feature Films of the Chinese Cultural Revolution, Journal of Asian Culture, 6, 1982, 37-62. Si rimanda anche a  Witness Against History di Yomi Breaster per una lettura della ferita come dichiarazione rivoluzionaria. Invero sì, ma solo una nota perché ci porterebbe troppo lontano: come sottolineato da Dai Jinhua, questo film è l’emblema della Bildung femminile del periodo socialista: la ragazza infatti deve prima sottostare alle regole del partito, e solo in seguito potrà compiere la sua vendetta. La giusta vendetta non conta se non è veicolata dall’appartenenza al partito. A causa dell’irruenza (errore tattico) della ragazza, l’eroe che l’aveva liberata viene catturato e bruciato vivo dagli orribili capitalisti. Ed è proprio quando il volto coraggioso dell’eroe (maschio) che brucia urlando “lunga a vita al Partito!” si sovrappone alle lacrime della protagonista che capisce che solo una volta ottenuta la carta del Partito – e solo quando sarà interamente sottomessa alle regole dei generali – potrà agire in maniera legittima.
I corpi cinesi non hanno finito, però, di coprirsi ed astrarsi: la Rivoluzione Culturale vede l’arrembaggio di Jiang Qing, Madame Mao, nell’industria cinematografica. Jiang Qing, un tempo attricetta poco nota, prende le redini della produzione e costituisce un canone di otto opere rivoluzionarie modello (geming yangban xi), che formano il repertorio unico (che sarà in seguito leggermente allargato) delle troupe teatrali, spettacoli radiofonici, e creazioni cinematografiche per una decina d’anni. Si distinguono balletti filmati (o drammi danzati, baleiwuju) e vere e proprie opere cantate (o moderne opere di Pechino, xiandai jingju). Nel tentativo epico di creare una mitologia nazionale ripudiando il passato imperiale, i temi delle opere modello sono rievocazioni agiografiche di episodi eroici della presa di potere comunista. L’estetica del realismo socialista sovietico si innesta sul balletto classico occidentale e sui codici dell’opera di Pechino. La rappresentazione dei personaggi deve seguire rigidi dettami simbolici, cromatici ed ideologici; i valori della rivoluzione (uguaglianza dei sessi e tra le etnie, lotta di classe, antiimperialismo) sono conquistati attraverso battaglie feroci in cui brillano il coraggio e il sacrificio dei martiri popolari, così come la vigliaccheria e l’avidità dei capitalisti sono deprecate senza appello. Le soluzioni registiche riescono sovente a cogliere la precisione acrobatica tipica dell’opera di Pechino nelle scene di combattimento, così come a fondere con le esigenze ideologiche del Partito l’amore del pubblico cinese per i ritmi dell’opera classica, con le sue pose espressive, le codificazioni rituali dei gesti, trucco e costumi allegorici. A ventagli e fazzoletti si sostituiscono pistole e forconi, al posto di maniche svolazzanti i protagonisti agitano bandiere rosse. E soprattutto, i corpi si asessualizzano: nella versione balletto rivoluzionario del Distaccamento femminile rosso, durante la prima parte le protagoniste danzano con una treccia posticcia incollata alla blusa (in modo che svolazzi gentilmente ma non troppo), nella seconda, entrate nell’esercito, la perdono in funzione d’un più pratico caschetto. Corpi muscolosi, tondeggianti e truccati: l’estetica socialista si innesta sul balletto classico occidentale, in un ossimoro che incarna l’ideale politico marxista-cinese così come l’ideale filmico del partito.
Ciò detto, una nota: nulla toglie che rappresentazioni di pura propaganda non possano suggerire scintille erotiche. Ce lo ricordano numerosi romanzi, da Su Tong a Mo Yan a Yu Hua, film (Jiang Wen), ma anche studiosi come Chen Xiaomei che (parafraso) era affascinata dalle iconiche immagini di eroi ed eroine di propaganda come fossero stelle di Hollywood : “today, looking back, I am aware that my treasuring of these images was not unrelated to their voluptuous appeal and bodily beauty, which was securely disguised by the focus on an ideologically correct story and equipping the womanly body with a “manly spirit”, as it was traditionally defined”.16)Chen Xiaomei, “Growing Up with Posters in the Maoist Era”, in Harriet Evans e Stephanie Donald, Picturing Power in the People’s Republic of China: Posters of the Cultural Revolution (Lanham, MD: Rowman and Littlefield, 1999), 111-112.

3. Corpi febbrosi

 Corpi propagandistici ed erotici. Tabù esplorato da Jiang Wen 姜文, figura emblematica della “Febbre culturale” degli anni Ottanta e Novanta. L’attore infatti interpreta il protagonista di Sorgo Rosso ( 红高粱 Hong gaoliang,张艺谋 Zhang Yimou, 1987), capostipite dei film della Quinta Generazione che rivoluzioneranno il cinema cinese. I nomi che spiccano sono Chen Kaige 陈凯歌 e Zhang Yimou. Istanza principale della Quinta Generazione è da un lato il lavoro consapevole di ri-creazione del mezzo filmico; dall’altro l’inserimento di tematiche già care alla letteratura di inizio anni Ottanta quali l’identità cinese, la critica alla rivoluzione permanente, in breve una summa delle correnti della “ferita” e delle “radici” – se per “letteratura delle radici” si indica la riscoperta di un carattere originario e apolitico dell’identità cinese, la “letteratura della ferita” rievoca e tenta la catarsi dei momenti più bui della Rivoluzione Culturale. Queste due correnti possono evidentemente sovrapporsi, soprattutto quando gli autori mettono in scena la loro esperienza di zhiqing 知情– si intendono con questo termine i giovani istruiti inviati nelle campagne per “rieducarsi” presso i contadini. Da queste esperienze autobiografiche gli autori della Quinta Generazione traggono ispirazione per raccontare da un lato la loro riscoperta di una Cina originale, naturale e anche selvaggia, dall’altro per rievocare i grandi sconvolgimenti politici del paese. Vengono messi in scena il patrimonio culturale cinese e le “passioni primitive” che al suo interno si agitano irriducibili, secondo una celebre definizione di Rey Chow.17)Rey Chow, Primitive Passions. Visuality, Sexuality, Ethnography & Contemporary Chinese Cinema (New York: Columbia University Press, 1995). È un cinema che compie un’operazione di auto-etnografia, che ricerca nel passato, nella natura e nella sessualità l’origine della cultura cinese, da tempo soffocata dalla macchina del partito. Lo sguardo di Gong Li che apre Sorgo Rosso è entrato nell’iconografia del cinema e delle arti cinesi. Si tratta di uno sguardo che fissa la macchina da presa e che pare chiamare lo spettatore a testimone della sorte incerta che attende l’eroina – un matrimonio combinato. Spettatore che sarà poi sollecitato, in una sequenza successiva, tanto dal piacere estetico di fronte alle composizioni coloristiche di Zhang Yimou, quanto dalla perturbante novità di un soggetto cinese che racconta e rivendica la propria individualità, i propri desideri, la propria soggettività. Mi riferisco al celebre piano in soggettiva che mostra la realtà vista dagli occhi della protagonista, e in particolare le robuste spalle del portatore del palanchino – Jiang Wen. L’uomo, come ci dice la voce off, diventerà il nonno del narratore – facendoci intuire che al matrimonio combinato si sostituirà un matrimonio altro, scandaloso, desiderato. Di un desiderio che non nasce più (o: non è più sublimato) dalla forza ideologica dell’uomo, bensì dalla sua carica sessuale. I corpi, dunque, ricominciano a spogliarsi e a dire i loro desideri. Jiang Wen, appunto: nel suo primo film da regista, In the Heat of the Sun (阳光灿烂的日子Yangguang canlan de rizi, 1994), ricorda con gesto autobiografico il periodo della Rivoluzione Culturale come un periodo di enorme libertà, in cui i ragazzi scoprono i loro corpi (sequenze sotto la doccia con battute su un sesso colto da improvvisa erezione) e i corpi delle ragazze, magnificate dalla fotografia che le immerge in bagni di luce, sul bordo di una piscina.18)Sandrine Chenivesse, “La grande Révolution culturelle: un goût de fête [Des jours éblouissants de Jiang Wen]”, Perspectives chinoises, 25, 1994, 51-53.

I corpi, si diceva, si spogliano. A mia conoscenza, il primo nudo frontale del cinema cinese post-maoista è quello di Wang Hongwei 王宏伟, che nel primo film di Jia Zhangke 贾樟柯(小武 Xiao Wu, 1994) viene mostrato in un bagno pubblico, mentre canta, da solo. Lungi, qui, da ogni ostentazione erotica. I gusti sono gusti, certo, ma non credo che in Jia ci fosse l’idea di scolpire un corpo iconico; il suo attore feticcio è (nel film) un povero ladruncolo, occhialuto, abbandonato da tutti, perfino dalla prostituta con la quale vagheggiava un’intesa amorosa. Ma non è questo il punto: credo che il punctum (torniamo a Barthes) sia la messa a nudo di un nuovo cinema indipendente che cerca l’autenticità, “”che spoglia gli antichi fronzoli di propaganda per tendere alla nuda verità. Parlo qui del cinema indipendente, capitanato da Wu Wenguang 吴文光 (documentarista) e artisti quali Jia Zhangke, Wang Xiaoshuai 王小帅, Lou Ye 娄烨, Zhang Yuan 张元… i quali pur con importanti differenze di stile e contenuti, sono registi risolutamente urbani e volti alla contemporaneità, autori che trattano dei mutamenti del tessuto sociale nelle grandi metropoli. Aiutati anche dai progressi della tecnica che permette di utilizzare cineprese più leggere e troupe ridotte, i film degli anni Novanta si intrufolano nei vicoli delle città, nei concerti rock, nelle mostre d’arte contemporanea, intervistano personaggi liminali e alternativi, denunciano i mali della società con gesti sovente coraggiosi che attirano le ire della censura:Mother (Mama 妈妈, Zhang Yuan, 1990; una madre coraggio cerca di ottenere cure adeguate per il figlio handicappato, affrontando l’ostracismo della società), Beijing Bastards (Beijing zazhong 北京杂种, Zhang Yuan, 1993; con la rock star Cui Jian 崔健, mosaico di personaggi sbandati tra notti alcoliche e timide ribellioni), Dirt (Toufa luan le 头发乱了, Guan Hu 管虎, 1994; ancora la scena rock della capitale), Suzhou River (Suzhou he 苏州河, Lou Ye, 2000; pastiche hitcockiano a Shanghai nel mondo dei night club), The Days (Dongchun de rizi 冬春的日子, Wang Xiaoshuai, 1993; gli artisti squattrinati), Frozen (Jidu hanleng 极度寒冷, Wang Xiaoshuai, 1997; la body art e la critica d’arte), Quitting (Zuotian 昨天, Zhang Yang张扬, 2000; semidocumentario sulla tossicodipendenza), Biciclette di Pechino (Shiqi sui de danche 十七岁的单车, 2001; versione moderna del classico di Lao She 老舍Risciò, sui mingong 民工, i lavoratori immigrati dalle campagne), So Close to Paradise (Yuenan guniang 越南姑娘, Wang Xiaoshuai 1997; night club, sesso, violenza, prostituzione). Nonché una vastissima produzione documentaria di cui i principali esponenti sono Wu Wenguang e Wang Bing 王兵 – di quest’ultimo è necessario qui citare Till Madness do us part (疯爱Feng’ai, 2013),19)Di questo ho trattato nel numero di Sinosfere dedicato alla follia. discesa all’inferno in un asilo psichiatrico raccontato nei suoi più sordidi dettagli corporali. Già da questa incompleta lista si può intravedere un catalogo di corpi prima inesplorato (o quantomeno, esplorato soltanto sino agli anni Quaranta): corpi venduti di prostitute, corpi disabili, corpi distrutti dall’alcool o dall’eroina, corpi sottoposti alle esperienze liminali della body art; e poi corpi che fanno l’amore, che si stuprano, che abortiscono, che invecchiano. Sempre, certo, in un equilibrio incerto e mobile con la censura. Il mercato però si allarga, i fondi possono essere ricercati all’estero, e a tratti le maglie della censura si allentano per lasciare filtrare degli inattesi successi di pubblico per film che presentano soggetti apparentemente poco monetizzabili, come, per citare un caso notevole, Dying to Survive (我不是药神 Wo bu shi yaoshen, Wen Muye 文牧野, 2018). La storia ripercorre la biografia di un imprenditore che si dedica a comprare medicinali per la leucemia in India dove, grazie ai farmaci generici, costano un decimo rispetto ai prezzi proibitivi applicati in Cina. Se, come è naturale aspettarsi, il governo non viene criticato apertamente, purtuttavia il film indulge in scene dove i corpi malati sono filmati frontalmente, e i volti sofferenti si levano la maschera per rendere omaggio al protagonista imbarcato dalle forze dell’ordine.

 4. Corpi digitali

E poi oggi. Un diluvio di film, una corsa a perdifiato al primato mondiale, generi vecchi che ritornano in auge (su tutti, i wuxiapian), nonché i corpi scolpiti di modelle e modelli che non nascondono l’abuso di chirurgia plastica. O sono annegati in un mare digitale ove spesso solo il volto dell’attore/attrice appare vagamente riconoscibile, tutto il resto è una creazione digitale che se non assomiglia a un videogioco di certo ricorda che il post-cinema azzera le differenze di un tempo tra realtà pro-filmica e immagine digitale.20)“Once live-action footage is digitized (or directly recorded in a digital format), it loses its privileged indexical relationship to pro-filmic reality. The computer does not distinguish between an image obtained through the photographic lens, an image created in a paint program, or an image synthesized in a 3-D graphics package, since they are made from the same material—pixels. And pixels, regardless of their origin, can be easily altered, substituted one for another, and so on. Live-action footage is reduced to just another graphic, no different from images that were created manually”. Lev Manovich, “What is Digital Cinema?” in Denson and Leyda (a cura di), Post-Cinema. Theorizing 21st Century Cinema (Falmer: REFRAME Books, 2016). Tutto è pixel, i volti e le creature mostruose, i paesaggi e i corpi che volteggiano sulle nuvole. L’attore che interpreta Sun Wukong non è più distinguibile dal dragone che combatte, in un ritorno eterno dell’aspetto “attrazione” del cinema con cui si iniziava questa panoramica.
Due film vorrei segnalare, che raccontano storie della scomparsa del corpo con un vero lavoro teorico rispetto al medium stesso. Due film che riflettono, appunto, sulla moltiplicazione degli schermi e la digitalizzazione globale. Mi riferisco a People’s Republic of Desire (Hao Wu吴皓, 2018) e Dragonfly Eyes (蜻蜓之眼 Qingting zhi yan, 徐冰 Xu Bing, 2017). Il primo è un documentario sui cam idol: uomini e donne che diventano star di broadcast su Internet, sollecitano i loro fan a donare soldi, si iscrivono in competizioni online ove, filmati a casa loro, si esibiscono in karaoke improvvisati, blaterano del più e del meno, inanellano battute o – soprattutto nel caso delle ragazze – si esibiscono in pose sensuali e giocano con il bisogno d’essere desiderati dai loro patroni più generosi. Non certo specifica della Cina, ma in Cina estremamente praticata, questa generalizzazione dello spettacolo à la Grande Fratello è sintomo della società dello spettacolo ove i celebri 15 minuti di gloria passano attraverso la spettacolarizzazione del quotidiano, l’ode al voyerismo e alla manipolazione mediatica. Il desiderio è rivelato, pagato, offerto e mercificato online in una spirale di cui ancora non vediamo la fine, nonostante il documentario sia ben preciso nell’indicare una sorta di strada di non ritorno della tirannia digitale contemporanea.
Derive ben note a Xu Bing che, con il suo primo film, rompe tutti gli schemi usando esclusivamente footage di camere di sorveglianza per raccontare una storia di finzione. Storia che non si segue, bisogna dire, molto agevolmente – sarebbe strano il contrario. Eppure, Xu Bing (e la sua troupe) infonde al racconto un sottofondo buddhista che evoca l’impermanenza della polvere rossa del mondo, la reincarnazione come possibilità offerta concretamente mediante chirurgia plastica dal mondo moderno, un mondo dove le identità si fondono ed abbandonano ogni pretesa di privacy. Gli spettatori si trovano così a seguire dei personaggi fittizi “interpretati” da gente comune, che appunto non interpreta alcunché, ma passa per strada, si guarda alla specchio, fa un incidente in macchina, si pulisce le unghie in fila alla posta… opera sperimentale e di difficile accesso, Dragonfly Eyes è stato presentato al Festival di Venezia come film (e non in una galleria come opera d’arte), segno che la riflessione sulle identità, i corpi malleabili, la perdita consensuale della privacy e l’accettazione dello spettacolo in repeat della nostra vita, presto sottomessa a riconoscimenti facciali anche per pagare la spesa, possono essere considerati materia narrativa in un oggetto che trascende le definizioni di cinema, documentario, sperimentale e narrativo. Non il film più rappresentativo della Cina di oggi (guarderemo piuttosto ai blockbuster SF), ma certo pratica artistica necessaria che afferma che le rappresentazioni del corpo e le loro conseguenti prescrizioni passeranno per la Cina come nuovo barometro e avanguardia del futuro.

Immagine: fotogramma da Big Road (Sun Yu, 1934).

Neri, Corpi del cinema cinese PDF

Corrado Neri (corrado.neri@univ-lyon3.fr) è professore associato all’università Jean Moulin, Lyon 3. Il suo primo libro è una monografia sul regista taiwanese Tsai Ming-liang (Cafoscarina, 2004); Âges inquiets: Cinémas chinois, une représentation de la jeunesse (Tigre de papier, 2009) si dedica all’analisi del Bildungsfilm nel mondo cinese; infine Retro Taiwan: Vintage culturel et imaginaire national dans le cinéma sinophone contemporain (Asiathèque, 2016) si concentra sulle questioni della memoria e della nostalgia. Oltre a numerosi articoli su riviste specializzate, ha curato Taiwanese Cinema/Le Cinéma taiwanais (con Kirstie Gormley, Asiexpo, 2009) ; Global Fences (con Florent Villard, IETT, 2011); Reinventing Mao: Maoisms and National Cinemas/La Réinvention de Mao. Maoïsmes et Cinémas Nationaux (Special issue of Cinéma & Cie International Film Studies Journal (con Marco Dalla Gassa e Federico Zecca) e Politics and representation in Sinophone Cinema after the 1980s/Politique et Représentation dans le Cinéma Sinophone après 1980 (Special #55 di Monde Chinois Nouvelle Asie, con Jean-Yves Heurtebise).

References
1 Roland Barthes, Carnets de voyage en Chine (Paris : Bourgois, 2008), 117.
2 Tom Gunning, “Le Cinéma d’attraction: le film des premiers temps, son spectateur, et l’avant-garde”, 1895. Mille huit cent quatre-vingt-quinze, 50, 2006.
3 Si potrebbe aggiungere che, anche al giorno d’oggi, si assiste a un risorgere ciclico di forme di cinema come attrazione, se si pensa alla diffusione (massiccia soprattutto in Cina, si veda David Bordwell, Pandora’s Digital Box: Films, Files, and the Future of Movies, Madison, Wisconsin: The Irvington Way Institute Press, 2012) della 3D e dei multiplex che creano un’esperienza attorno al film fatta di cibo, musica, consumo – che insomma fa tornare il cinema al suo carattere di oggetto di consumo collettivo a uso di tribù urbane.
4 Ho trattato per esteso le tematiche della Bildung e delle nuove concezioni della giovinezza in Âges inquiets: cinémas chinois, une répresentation de la jeunesse (Lyon: Tigre de Papier, 2009). Degli studi di Sun Yu in America, e dell’impatto di questi sulla sua creazione cinematografica una volta rientrato in patria ho trattato in “Sun Yu and the Early Americanization of Chinese Cinema”, in Kingsely Bolton and Jan Olsson (a cura di), Media, Popular Culture, and the American Century (London: Wallpaper, 2011), 227-248.
5 Si rimanda a Sun Yu 孙瑜, Yinhai fanzhou – huiyi wo de yisheng 银海泛舟 回忆我的一生 [Navigare sullo schermo – I ricordi della mia vita] (Shanghai: Shanghai Wenyi chubanshe, 1987) per l’autobiografia del regista.
6 Si veda Pang Laikwan, Building a New China in Cinema. The Chinese Left-Wing Cinema Movement, 1932-1937 (Boston: Rowman and Littlefield, 2002), 101.
7 Si rimanda a Sun Yu 孙瑜, Dalu zhi ge 大路之歌 [La canzone di Big Road(Taibei: Yuanliu, 1990) per una ricostruzione, da parte del regista stesso, della produzione di Big Road.
8 Si veda Song Geng, The Fragile Scholar. Power and Masculinity in Chinese Culture (Hong Kong: Hong Kong University Press), 2004.
9 È lo stesso Sun Yu a stigmatizzare il nuovo “eroe” che, incurante delle intemperie e delle condizioni politiche e sociali, contribuisce a costruire il paese col sudore della sua fronte (Sun Yu, Dalu zhi ge, 128-133 – pagine che sono una apologia dell’operaio eroico e patriota).
10 Questa sequenza è stata analizzata da Chris Berry (“The Sublimative Text: Sex and Revolution in Big Road”, in East-West Film Journal, 2.2, 1988, 66-89) con una suggestiva critica freudiana, rielaborata poi da Wang Laikwan (op. cit., 98-102) e criticata da Zhang Yingjin (Screening China, 2002, 101-103).
11 I testi cinesi sorvolano su questi aspetti preferendo concentrarsi sui temi rivoluzionari. Vedi Li Suyuan 郦苏元 e Hu Jubin 胡菊彬, Zhonggguo wusheng dianying shi 中国无声影史 [Storia del cinema muto cinese] (Beijing: Zhongguo dianying, 1997), e Dai Xiaolan 戴小, Zhongguo wusheng dianying 中国无声影 [Il cinema muto cinese] (Beijing: Zhongguo dianying), 1996.
12 Rimando a Liu Xiaofeng 刘小, “Guanyu wusi yi dai de shehuixue sikao zhaji 关于五四一代的社会学思考札记” [Riflessioni sociologiche sul Quattro Maggio], in Dushu, 5, 1989, 35-43, per una riflessione sociologica sul Quattro Maggio; a Frank Dikötter, Sex, Culture and Modernity in China (London: Hurst&Company, 1995) per una panoramica sui mutamenti della concezione del corpo e della sessualità. ì
13 Yomi Braester in Witness Against History (Palo Alto: Stanford Univeristy Press, 2003) elabora, facendo riferimento proprio a Daybreak e a Song of Midnight (Yeban gesheng 夜半歌声, Maxu Weibang, 1937) un’estetica della rivoluzione come piaga, ferita, dell’atto rivoluzionario come esposizione dell’orrore fisico. Secondo lo studioso, sarebbero strategie di senso per “testimoniare contro la storia” (witness against history), ovverosia levare la voce in opposizione alla storiografia ufficiale.
14 Per uno studio sul concetto di melodramma si veda Peter Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess (New Haven: Yale University Press, 1976); con riferimenti alla cultura cinematografica cinese si vedano invece Nick Brown, “Society, and Subjectivity: On the Political Economy of Chinese Melodrama”, in Nick Browne et al. (a cura di), New Chinese Cinemas. Forms, Identities, Politics, Cambridge (Cambridge: Cambridge University Press, 1994) 40-56; Wimal Dissanayake (a cura di), Melodrama and Asian Cinema (Cambridge: Cambridge University Press, 1993); Stephen Teo, “Il genere wenyi: una esegesi del melodramma cinese”, in Festival del cinema di Pesaro, Stanley Kwan. La via orientale al melodrama(Roma: Il Castoro, 2000).
15 Si veda Chris Berry, “Stereotypes and Ambiguities: An Examination of the Feature Films of the Chinese Cultural Revolution, Journal of Asian Culture, 6, 1982, 37-62. Si rimanda anche a  Witness Against History di Yomi Breaster per una lettura della ferita come dichiarazione rivoluzionaria.
16 Chen Xiaomei, “Growing Up with Posters in the Maoist Era”, in Harriet Evans e Stephanie Donald, Picturing Power in the People’s Republic of China: Posters of the Cultural Revolution (Lanham, MD: Rowman and Littlefield, 1999), 111-112.
17 Rey Chow, Primitive Passions. Visuality, Sexuality, Ethnography & Contemporary Chinese Cinema (New York: Columbia University Press, 1995).
18 Sandrine Chenivesse, “La grande Révolution culturelle: un goût de fête [Des jours éblouissants de Jiang Wen]”, Perspectives chinoises, 25, 1994, 51-53.
19 Di questo ho trattato nel numero di Sinosfere dedicato alla follia.
20 “Once live-action footage is digitized (or directly recorded in a digital format), it loses its privileged indexical relationship to pro-filmic reality. The computer does not distinguish between an image obtained through the photographic lens, an image created in a paint program, or an image synthesized in a 3-D graphics package, since they are made from the same material—pixels. And pixels, regardless of their origin, can be easily altered, substituted one for another, and so on. Live-action footage is reduced to just another graphic, no different from images that were created manually”. Lev Manovich, “What is Digital Cinema?” in Denson and Leyda (a cura di), Post-Cinema. Theorizing 21st Century Cinema (Falmer: REFRAME Books, 2016).