Introduzione
La storia linguistica cinese è stata da sempre caratterizzata dalla diversità e dalla convivenza con locutori di idiomi diversi, non sinitici.1)Branner David P., Problems in Comparative Chinese Dialectology: The Classification of Miin and Hakka. (Berlin-New York: Mouton de Gruyter, 2016). Behr Wolfgang, “Role of Language in Early Chinese Constructions of Ethnic Identity”, Journal of Chinese Philosophy, 37, 3, 2010, 567–587. Le caratteristiche tipologiche delle lingue sinitiche moderne sono in misura importante attribuite al contatto linguistico, sia intrafamiliare, sia con lingue di altre famiglie, anche come conseguenza dei movimenti di popolazione avvenuti a partire dalla Dinastia Qin e dei periodi di dominazione “straniera”.2)LaPolla Randy J., “The Role of Migration and Language Contact in the Development of the Sino-Tibetan Family”, in Alexandra Y. Aikhenvald e Robert M. W. Dixon (a cura di), Areal Diffusion and Genetic Inheritance (Oxford: Oxford University Press, 2001), 225–254. In questo contesto, le autorità imperiali, con qualche eccezione, non si sono mai preoccupate di definire e/o di promuovere una “lingua standard” parlata, laddove il ruolo di elemento di coesione linguistica era proprio del “cinese classico/letterario”, lingua scritta unitaria. Se i primi tentativi di definizione di uno standard per la lingua parlata (sul modello del Giappone) avvengono già nel primo periodo repubblicano, è solo con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese (R.P.C.) che inizia un’opera sistematica di promozione della neonata “lingua comune”, il Putonghua 普通话. Quest’opera di diffusione (a cui spesso ci si riferisce con la forma abbreviata Tuipu 推普) è inevitabilmente avvenuta a scapito della competenza nei dialetti, varietà dominanti (e spesso esclusive) per la popolazione cinese fino a tempi recenti. Inoltre, la diffusione del Putonghua è entrata in conflitto, soprattutto negli ultimi anni, con la tutela delle lingue (e identità etniche) minoritarie, che pure godono di protezione legale.
In questo contributo, dopo un inquadramento storico delle concezioni e degli atteggiamenti nei confronti della diversità linguistica nella cultura cinese, ci dedicheremo all’analisi del rapporto tra lingua standard, dialetti e lingue minoritarie nella Cina contemporanea, focalizzandoci sul ruolo della lingua come elemento identitario, demarcatore di confini, e sui cambiamenti innescati dalla pressione del Putonghua.
1. Lingua, diversità e identità nel contesto cinese: una panoramica storica
Nella descrizione della situazione linguistica della “Cina” (etichetta qui intesa, per semplicità, in senso astorico, includendo tutte le entità politico-culturali tradizionalmente associate alla “civiltà” cinese), è pratica comune riferirsi alla “lingua cinese” come entità unica, al singolare, eventualmente da suddividere ulteriormente in periodi storici. Diciture quali “cinese moderno”, “cinese classico”, “cinese antico”, o “cinese letterario” sono di uso comune nella letteratura specialistica e non, così come nella pratica didattica e nella comunicazione scientifica.3)Si veda, ad esempio, Jerry Norman: “[f]or want of a better term, I will also refer to the totality of all forms of Chinese, ancient and modern, local and standard, as Chinese”. The Chinese Dialects: Phonology, in Graham Thurgood e Randy J. LaPolla (a cura di), The Sino-Tibetan Languages. London: Routledge, 72. Tuttavia, questa semplificazione necessaria non deve portare a pensare che esista solo una lingua cinese, e che ogni epoca abbia avuto il suo “cinese”: con le parole di Branner, “there does not seem to have been a time when Chinese was not diverse”.4)Branner, Problems in Comparative Chinese Dialectology, 24. Inoltre, come accennato nell’introduzione, sin dagli albori lo sviluppo delle lingue sinitiche è avvenuto in situazioni di contatto con idiomi di famiglie diverse, tra cui troviamo lingue tibeto-birmane, austronesiane, tai-kadai, hmong-mien, austroasiatiche e, successivamente, turciche, mongoliche e tungusiche.5)Behr, “Role of Language”, 568.
Dal punto di vista storico, la prima testimonianza certa di una lingua sinitica sono, come è noto, le iscrizioni su ossa oracolari (jiaguwen 甲骨文), le più antiche delle quali risalgono al XIII secolo a.C.: si tratta di brevi testi divinatori, incisi su gusci di tartaruga o ossa bovine, che rappresentano quesiti e responsi oracolari, secondo l’interpretazione del divinatore. La natura frammentaria e formulaica di questi testi pone dei limiti alle informazioni che ne possiamo trarre rispetto alla lingua rappresentata in essi, a cui ci si riferisce convenzionalmente come cinese Shang 商, dal nome del periodo storico della realizzazione delle iscrizioni: tuttavia, già in questa fase, è possibile scorgere delle differenze tra i testi prodotti in diversi centri del mondo Shang, che si suppone possano riflettere variazione dialettale nella competenza dei divinatori stessi.6)Takashima Ken-ichi, “Shāng 商 Chinese, Textual Sources and Decipherment”, in Rint Sybesma et al. (a cura di), Encyclopedia of Chinese Language and Linguistics (Leiden: Brill, 2017). Il periodo storico immediatamente successivo, l’epoca Zhou 周, coincide con la frammentazione in senso feudale delle popolazioni sinofone e, conseguentemente, con lo sviluppo ulteriore della diversità linguistica. In questo senso, troviamo indizi nei testi classici circa la situazione linguistica della Cina premoderna. Ad esempio, nel Libro dei riti (Liji 礼记), viene menzionato esplicitamente che “i popoli delle diverse regioni hanno modi diversi di parlare” (wu fang zhi min, yan yu bu tong 五方之民言語不同); nel Commentario di Zuo (Zuozhuan 左传), viene narrata una vicenda del 614 a.C., in cui viene richiesto l’intervento di un traduttore per le negoziazioni tra lo stato di Jin 晋 e lo stato di Qin 秦, che erano confinanti.7)Branner, Problems in Comparative Chinese Dialectology, 4-6.
Da questo punto di vista, uno dei riferimenti più discussi nella letteratura sulla situazione linguistica della Cina antica è un passaggio dei Dialoghi (Lunyu 论语) confuciani in cui viene menzionata la cosiddetta yayan 雅言 o “lingua elegante”:
- 子所 雅 言 詩 書 執禮 皆 雅 言 也。
zǐ suǒ yǎ yán shī shū zhí
maestro rel elegante lingua canzoni documenti officiare
lǐ jiē yǎ yán yě
riti tutto elegante lingua ptc
“Quando il maestro recitava le Odi e i Documenti, e officiava i riti, ricorreva sempre a un linguaggio aulico”8)Traduzione in italiano tratta da: Scarpari Maurizio e Andreini Attilio, Grammatica della lingua cinese classica (Milano: Hoepli, 2020, 146). rel = marca di frase relativa; ptc = particella.
L’interpretazione di questo passaggio è sicuramente controversa, rispetto a cosa si intenda per “lingua elegante”. L’interpretazione probabilmente più comune di questo passaggio è che la yayan sia una forma di “lingua standard”, intesa qui come varietà di prestigio usata dalle élites del periodo Zhou(probabilmente basata su uno o più dialetti delle Pianure Centrali, o Zhongzhou 中州).9)Per una disamina recente delle diverse possibili interpretazioni del concetto di yayan, e sugli argomenti a sostegno e non rispetto all’esistenza di una lingua franca nel periodo Zhou, si veda Behr Wolfgang, “Tracing variation in Old Chinese: What, if Anything, was Yǎyán 雅言?”, Journal of Chinese Linguistics, 51, 2, 2023, 287−346. Tuttavia, in questa fase la lingua non sembra avere un ruolo importante nella definizione dell’identità etnica “cinese”.10)Behr, “Role of Language”, 580.
In seguito, dall’inizio dell’età imperiale (a partire dalla unificazione Qin 秦, 221 A.C.), si assiste alla graduale fossilizzazione della lingua scritta, che sarà canonizzata nella forma del “cinese letterario” (wenyan 文言), basata sulla lingua dei testi fondativi della cultura cinese (come i già menzionati Dialoghi di Confucio, o il Commentario di Zuo; ovvero, il cosiddetto “cinese classico”). Da qui fino all’inizio del XX secolo, il cinese letterario resterà l’unica forma di lingua scritta per gli usi “elevati”, così come il veicolo dell’unità e della continuità culturale ed ideologica delle diverse entità politiche cinesi: la conoscenza di questa varietà scritta diventa anche, a partire dal settimo secolo e fino all’inizio del ventesimo, fondamentale per superare gli esami imperiali per il mandarinato (keju 科举), diventando così centrale nella formazione. Non è un caso che, in questo stesso periodo, vengano prodotti anche dizionari e tavole di rime, per formalizzare una norma non già per la lingua parlata, ma per la pronuncia corretta nella lettura dei testi letterari. Questo è riflesso anche nel fatto che, curiosamente, nella tradizione cinese l’espressione che indica la lingua nel suo complesso è yuyan wenzi 语言文字: letteralmente, “lingua parlata” (yuyan) e “lingua scritta” (wenzi): i due concetti sono dunque designati da termini separati.11)Kaske Elizabeth, The Politics of Language in Chinese Education, 1895–1919 (Leiden: Brill, 2008). Se la lingua scritta era unica per tutto il mondo cinese, l’unica preoccupazione era appunto quella di fissare le pronunce letterarie corrette, ma non standardizzare la lingua parlata, in un territorio essenzialmente dialettofono, linguisticamente frammentato. Anche la koinè amministrativa usata per la comunicazione tra parlanti di dialetti diversi (a cui ci si riferisce convenzionalmente con il termine guanhua 官话 “lingua dei funzionari”, “mandarino”) non era standardizzata nel senso moderno del termine, ma era piuttosto basata sulle esigenze contingenti della comunicazione. Solo nel 1728, con un editto dell’imperatore Yongzheng vengono istituite delle “accademie per la pronuncia corretta” (zhengyin shuyuan 正音书院) per educare i funzionari del sud della Cina; tuttavia, in breve tempo l’obbligo diventò una semplice raccomandazione, e molte accademie chiusero poco dopo.12)Ibid. Al di là delle esigenze pratiche, dunque, nella Cina prenovecentesca il senso dell’unità delle popolazioni sinofone proveniva, innanzitutto, dal condividere una lingua scritta, in larga parte stabile nel tempo e nello spazio (semplificando), leggibile in maniera sostanzialmente indipendente dalla varietà parlata dei singoli, che era anche la lingua della cultura alta e dell’amministrazione. Ciò che è importante sottolineare è che, di fatto, il cinese letterario era in realtà padroneggiato solo da una piccola parte della popolazione, quella che aveva accesso a quel tipo di formazione: era un simbolo di coesione, ma appannaggio delle élites.
L’avvento di una vera politica linguistica volta a standardizzare la lingua parlata, e a rendere la lingua scritta più strettamente connessa con il parlato, ha dovuto attendere l’inizio del XX secolo. Con l’abolizione degli esami imperiali (1905), il cinese letterario non fu più necessario per l’ingresso nell’amministrazione pubblica, elemento che favorì l’ascesa del “cinese vernacolare” (baihua 白话), più vicino ai dialetti settentrionali parlati; inoltre, come è noto, il modello principale per la modernizzazione della Cina in questo periodo è il Giappone del Rinnovamento Meiji, che si riteneva avesse ottenuto grande successo nell’alfabetizzazione di massa grazie al riavvicinamento di lingua parlata e lingua scritta. Non è un caso che il primo termine usato per riferirsi al nuovo standard nazionale fu Guoyu 国语 (lett. “lingua nazionale”), nient’altro che un prestito grafico del giapponese Kokugo 国語. Il Guoyu, che conobbe una certa elaborazione, era a base pechinese; questa caratterizzazione essenziale, come è noto, rimane nel suo erede, il Putonghua.
Il Putonghua rivela la sua natura già dal nome stesso, “lingua comune”: come sintetizzato efficacemente da Zhou Minglang, “as it was defined, Putonghua began without any native speakers. […] Putonghua was an imagined standard language for a growing modern nation in the 1950s”.13)Zhou Minglang, “Introduction: The Contact between Putonghua (Modern Standard Chinese) and Minority Languages in China”, International Journal of the Sociology of Language 215, 2012, 1–17, 3. Nelle prossime due sezioni, discuteremo dell’impatto della promozione e diffusione del Putonghua sulle varietà in qualche modo subordinate ad esso: i dialetti cinesi, e le lingue minoritarie.
2. La promozione del Putonghua e il ruolo dei “dialetti”
Nel mondo di lingua cinese, una questione particolarmente problematica è la natura della distinzione tra “lingua” cinese e “dialetti” cinesi. Quando parliamo di lingua cinese, in italiano (ma anche in molte altre lingue: langue chinoise, Chinesische Sprache, etc.), ci si riferisce generalmente al Putonghua, alla lingua (parlata e scritta) ufficiale della R.P.C. (oltre che di Taiwan e Singapore). Il Putonghua, come accennato sopra, è una forma standardizzata di varietà settentrionali, mandarine, con il dialetto di Pechino come base per la fonologia. Tuttavia, il termine “cinese” potrebbe essere usato con riferimento a qualunque varietà sinitica, anche non standardizzata: ovvero, i cosiddetti “dialetti cinesi”. Ad esempio, uno dei termini più comuni per riferirsi alla lingua cinese è Zhongwen 中文; ad Hong Kong, Zhongwen (cantonese Jūngmàhn) spesso indica il cinese in luogo dell’inglese, la lingua coloniale (che ha ancora statuto ufficiale). Dunque, il nome della Chinese University of Hong Kong, o Xianggang Zhongwen Daxue 香港中文大學, contiene il termine Zhongwen nel suo nome per indicare il fatto che, a differenza della più antica University of Hong Kong, dove l’inglese è la lingua principale di istruzione, il cinese è la lingua usata per la didattica: tuttavia, nei fatti questo cinese comprende sia la lingua standard, sia il cantonese, il dialetto cinese dominante a Hong Kong, che può essere ugualmente Zhongwen (ma non, ovviamente, Putonghua). Questa ambiguità è resa possibile anche dal fatto che, come detto in precedenza, storicamente la lingua scritta è stata più importante, come elemento unitario ed identitario, rispetto alle varietà parlate: ancora oggi, in molte scuole di Hong Kong si studia il cinese standard scritto, come nel resto della Cina, letto però usando la pronuncia cantonese dei caratteri, superando così la barriera dialettale.
Dal punto di vista strettamente linguistico, non vi è sostanziale differenza tra lingua e dialetto, nel contesto cinese: nelle pubblicazioni in lingua inglese (così come in diverse altre lingue europee), è diffuso l’uso della dicitura Sinitic languages per riferirsi, appunto, agli idiomi sinitici della Cina. In effetti, il livello di diversità tra questi sistemi linguistici è, seppur variabile a seconda dei singoli casi, decisamente ampio, tanto che Norman parla addirittura di centinaia di lingue sinitiche distinte.14)Norman, “The Chinese Dialects”, 72. Inoltre, dal punto di vista storico-linguistico, i dialetti cinesi non sono derivati dal Putonghua (come è il caso, invece, dei dialects of English, ad esempio), ma sono lingue sorelle del Putonghua, che è appunto il prodotto della standardizzazione di dialetti mandarini. La situazione, in questo senso, è del tutto simile a quella dell’italiano: la lingua standard, come sappiamo, deriva da varietà toscane; gli altri dialetti italiani sono dunque lingue sorelle del toscano, che ha dato origine all’italiano standard. Tuttavia, nelle pubblicazioni in lingua cinese, è assolutamente dominante l’uso di Hanyu fangyan 汉语方言, appunto “dialetti cinesi”, dove Hanyu 汉语 è il termine scientifico per indicare la lingua cinese e, appunto, tutti i sistemi non standardizzati che condividono la stessa origine.
Questa scelta terminologica è facilmente spiegabile con l’ideologia connessa con i concetti stessi di “lingua” e “nazione”. Si vedano le seguenti citazioni:
“Since having its own language is one of the normal characteristics of a ‘nation’ or mínzú, to regard, say, Cantonese and Mandarin as different languages, merely because they are mutually unintelligible, would seem to imply that Cantonese and Mandarin speakers belong to a different mínzú – a conclusion which would be both historically inaccurate and politically unacceptable”15)Baxter William, A Handbook of Old Chinese Phonology (Berlin-New York: Mouton de Gruyter, 1992), 8.
“Calling the varieties of Chinese ‘dialects’ (方言 Fāngyan) rather than languages does have a strong political undertone, as it serves the unity of the Chinese people. If a vast majority of inhabitants speak one language, the country is also unified. […]
The choice between the terms ‘dialect’ and ‘language’ is not merely a political question, but can also interfere in the sense of ethnic identity […]”16)Kurpaska, Maria, Chinese Language(s). A Look through the Prism of the Great Dictionary of Modern Chinese Dialects (Berlin-New York: Mouton de Gruyter, 2010), 2-3.
Dunque, sia il rapporto pressoché unico tra scrittura e lingua nella tradizione cinese, sia alcune idee novecentesche sulla relazione tra nazione e lingua, hanno contribuito a formare una visione dello Hanyu (o persino del Zhongwen) come lingua cinese, pur riconoscendo la differenza tra lo standard, il Putonghua, e i dialetti. In questo senso, il confine tra sinofoni e non-sinofoni non si sovrappone assolutamente a quello tra Putonghua e dialetti: anche chi non parla lo standard nazionale resta parte della comunità sinofona. Questo confine è evidente anche nel mondo della didattica e della certificazione delle abilità linguistiche: mentre i non-sinofoni possono studiare sui manuali di Hanyu e sostenere l’esame Hanyu Shuiping Kaoshi 汉语水平考试, spesso noto come HSK, i sinofoni possono studiare sui manuali di Putonghua e sostenere il Putonghua Shuiping Ceshi 普通话水平测试, o “test delle competenze in Putonghua”, necessario per accedere ad alcune professioni (con livelli di competenza differenziati a seconda del tipo di lavoro). Inoltre, il secondo test assegna un peso notevolissimo alla correttezza della pronuncia, rimandando ancora alla concezione premoderna descritta nel paragrafo precedente, dello “standard” come “pronuncia corretta”.17)Sull’importanza della pronuncia standard nella didattica del Putonghua nelle scuole, si veda anche Saillard Claire, “On the promotion of Putonghua in China: how a standard language becomes a vernacular”, in Minglang Zhou e Hongkai Sun (a cura di), Language Policy in the People’s Republic of China: Theory and Practice since 1949 (Boston: Kluwer, 2004), 153–176.
A questo proposito, pare interessante analizzare brevemente la caratterizzazione della lingua standard e dei dialetti nel documento probabilmente più importante della politica linguistica della R.P.C., ovvero la “Legge sulla lingua scritta e parlata standard” (Guojia Tongyong Yuyan Wenzi Fa 国家通用语言文字法) del 2001 (https://tinyurl.com/59xfdcnk). Nell’art. 2 della legge, la “lingua scritta e parlata standard” viene definita come “il Putonghua e i caratteri cinesi standard” (Putonghua he guifan Hanzi 普通话和规范汉字). Gli articoli dal 3 al 15 della legge stabiliscono i princìpi generali della promozione del Putonghua (e dei caratteri standard): tra gli altri, che tutti i cittadini possono imparare e utilizzare la lingua standard, che questa debba essere usata in modo da mantenere la sovranità e la dignità nazionali, l’unificazione del paese, e l’unità tra i diversi gruppi etnici; che il Putonghua è la lingua da utilizzare per gli organi dello Stato, nell’istruzione, nell’editoria, in radio e televisione, nei servizi, e nell’IT; che il Putonghua è la varietà che va insegnata nei corsi di lingua per stranieri. I dialetti (fangyan 方言) vengono menzionati solo nell’art. 16, che stabilisce quattro condizioni eccezionali in cui è concesso l’utilizzo degli stessi. Diversamente, per le lingue minoritarie è previsto un trattamento differenziato: l’art. 8 infatti precisa che “tutti i gruppi etnici hanno il diritto di usare e sviluppare le proprie lingue parlate e scritte”, e che “le lingue parlate e scritte delle minoranze etniche saranno usate secondo le previsioni della Costituzione, della Legge sulle Autonomie Regionali, e delle altre leggi” (trad. mia). Come osservato anche da Liang Sihua, il fatto che le lingue sinitiche diverse dal Putonghua siano appunto considerate dialetti della lingua cinese fa sì che non si renda necessaria una politica educativa in merito che vada oltre la promozione del Putonghua.18)Liang Sihua, Language Attitudes and Identities in Multilingual China (Cham: Springer, 2014), 14.
Il principio guida della politica linguistica della R.P.C. è stato definito in Zhou Qingsheng come “one common language and linguistic diversity”: richiedere l’uso del Putonghua come lingua comune, ma ammettere diversità etnolinguistica.19)Zhou Qinsheng, Ethnic Minority Languages in China. Policy and Practice (Boston/Berlin: De Gruyter Mouton, 2020), 23. Tuttavia, questo riguarda essenzialmente, appunto, le lingue delle minoranze etniche, e non i dialetti cinesi, il cui uso appare essere meramente tollerato, ma non particolarmente incoraggiato. Il confine, dunque, corre tra sinofoni e non-sinofoni, ma anche tra appartenenti all’etnia maggioritaria Han 汉 e minoranze etniche: anche se in diversi gruppi la conoscenza del cinese standard è molto diffusa, se non addirittura pressoché esclusiva (è il caso dell’etnia mancese, ad esempio), le norme sanciscono il diritto all’uso e allo sviluppo della lingua etnica, mentre limitano notevolmente quello dei dialetti cinesi.
In questo senso, un caso del tutto particolare è quello del cantonese, unico “dialetto” che riesca a imporsi, almeno in parte, sull’egemonia del Putonghua. Il cantonese (Guangdonghua 广东话 o Guangzhouhua 广州话) è la varietà di riferimento dei dialetti Yue 粤, basata originariamente sulla parlata di Guangzhou, ma che ora conosce uno (o un altro) standard de facto nella varietà parlata ad Hong Kong. Il cantonese ha uno statuto diverso dagli altri dialetti cinesi, dovuto al prestigio culturale e al peso economico del Guangdong e di Hong Kong, così come delle comunità della diaspora cantonese nel mondo. Il cantonese è pressoché l’unico dialetto insegnato sistematicamente in università e scuole di lingua, anche per stranieri, e che viene appreso da locutori di altre varietà sinitiche per motivi di studio, lavoro, o anche semplicemente per integrarsi nella società di lingua cantonese. Inoltre, il cantonese è il dialetto non mandarino che ha la più ricca tradizione scritta, e che è tuttora usato regolarmente per la scrittura informale, soprattutto a Hong Kong, con un’ortografia basata sui caratteri cinesi, ma con convenzioni diverse e caratteri specifici (testimoniata anche dalla disponibilità di Input Method Editors per il cantonese per i dispositivi elettronici).20)Sul cantonese scritto, si veda Snow Don, Cantonese as Written Language: The Growth of a Written Chinese Vernacular (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2004). La particolarità della situazione sociolinguistica del cantonese ha portato ad alcune anomalie rispetto al rapporto con il Putonghua: innanzitutto, il fatto che il cantonese sia l’unico dialetto cinese diffusamente usato nei media audiovisivi nella Cina continentale, e in maniera assolutamente dominante a Hong Kong.21)Liang Sihua, Language Attitudes, 19. La situazione specifica del cantonese lo rende un caso che sfida il confine tra lingua e dialetto, e in alcuni casi addirittura tra lingua e identità. Basta pensare, ad esempio, alle proteste del 2010 a Guangzhou (e Hong Kong) causate dalla proposta di aumentare l’uso del Putonghua nelle trasmissioni del network locale Guangzhou Guangbo Dianshitai 广州广播电视台. Ad Hong Kong, l’uso del cantonese (e dell’inglese) in luogo del Putonghua è pure un importante simbolo di una identità ‘hongkongese’ distinta da quella della Cina Popolare, a testimonianza della natura molto particolare del cantonese rispetto al confine tra lingua e dialetto, e tra identità culturali, politiche e linguistiche.
Da ultimo, l’incontro(/scontro) tra Putonghua e dialetti ha portato allo sviluppo di varietà parlate, in un certo senso, intermedie tra questi due livelli: sono i cosiddetti difang Putonghua 地方普通话 “Putonghua locali”. Come avvenuto in Italia, con la diffusione dell’italiano standard nelle masse perlopiù dialettofone, la promozione del Putonghua in Cina ha portato alla differenziazione e alla frammentazione dello standard stesso, in larga misura dovuta proprio al background dialettale dei parlanti: questi Putonghua locali, varietà diatopiche dello standard nazionale, sono le varietà usate nella comunicazione quotidiana, rappresentando dunque il modo nativo in cui la stragrande maggioranza dei sinofoni parla cinese; si differenziano dallo standard soprattutto per la fonologia, ma anche nel lessico e nella sintassi. Queste forme di lingua colloquiale, appunto diffusissime nell’esperienza comunicativa quotidiana, rappresentano una categoria di confine: non sono fangyan, ma non corrispondono nemmeno allo standard normativo, creando un ponte tra i due livelli.
3. Le lingue minoritarie nella società e nell’istruzione
Oltre alla dicotomia tra lingue e dialetti, il quadro della diversità linguistica nel mondo sinofono è arricchito dalle già menzionate lingue minoritarie (o “lingue delle minoranze etniche”, shaoshu minzu yuyan 少数民族语言), quali ad esempio il mongolo, o l’uiguro. Oltre all’etnia Han, la R.P.C., come è noto, riconosce 55 minoranze etniche, e vi sono almeno 130 lingue minoritarie parlate nella Cina continentale.22)Huang Xing 黄行 e Dao Bu 道布, “Zhongguo shaoshu minzu yuyan 中国少数民族语言 [Lingue minoritarie della Cina]”, in Istituto di Linguistica dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, Istituto di Etnologia e Antropologia dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, Language Information Sciences Research Centre della Chinese University of Hong Kong (a cura di), Zhongguo Yuyan Dituji – Shaoshu Minzu Yuyan Juan 中国语言地图地 – 少数民族语言卷 [Atlante delle lingue della Cina – Le lingue minoritarie], Seconda edizione (Beijing: The Commercial Press, 2012), 18-26. Il numero effettivo di lingue non sinitiche parlate dalle etnie minoritarie della Cina è certamente superiore, ma il loro riconoscimento non è completo: in maniera simile a quanto fatto per le minoranze dell’URSS ai tempi di Lenin, “the principal argument for recognition was not some fundamental human right or some linguistic notion like mutual intelligibility, but a pragmatic realization that providing education in the minority languages would be the fastest way to achieve national ideological goals”.23)Spolsky Bernard, “Language Management in the People’s Republic of China”, Language, 90, 4, 2014, 165-179. Nella prima rilevazione del 1953, furono registrati oltre 400 nomi di gruppi etnici: una volta fissato il numero di etnie in 55 (56 con l’etnia maggioritaria Han), nel 1979, sono state effettuate delle ulteriori modifiche, ma che non hanno intaccato il numero complessivo. Appare dunque evidente che non ci possa sempre essere una corrispondenza 1:1 tra etnie e lingue minoritarie: esistono gruppi che hanno (“avrebbero”, come vedremo tra poco) una sola lingua etnica, come i tibetani o gli yi; gruppi che hanno più di una lingua, come gli yao che ne hanno cinque; e gruppi che hanno abbandonato (o stanno abbandonando) la propria lingua etnica a favore di una lingua sinitica, come detto sopra per i mancesi, o anche gli she. Le incongruenze nella costruzione di un’identità etnica ufficiale sono ancora più evidenti se si tiene in considerazione l’origine di queste etnie: il multilinguismo degli yao, ad esempio, è spiegabile con il fatto che originano da cinque gruppi distinti, che hanno sviluppato un’identità etnica (ma non una lingua) comune in seguito ad una convivenza di secoli. In altri casi, come per i mongoli, l’identità etnica viene affermata a dispetto del fatto che una parte dei mongoli non è di lingua mongola, a causa di migrazioni precedenti.24)Zhou, Ethnic Minority Languages in China, 69-76. Inoltre, anche le etnie “ufficialmente” monolingue non sono necessariamente, all’atto pratico, parlanti della stessa varietà: i tibetani e gli yi citati sopra sono un caso paradigmatico. Pur condividendo una lingua scritta, i tibetani della Cina parlano in realtà tre varietà ben distinte; gli yi parlano addirittura sei varietà, abbastanza differenti da non permettere la comunicazione tra i rispettivi locutori.25)Spolsky, “Language Management”, 170-172. Questa frammentazione ha conseguenze inevitabili nella gestione delle lingue minoritarie, soprattutto nell’istruzione.
Secondo l’analisi di Zhou Minglang, negli anni ’50 il modello ispiratore della politica linguistica cinese era quello sovietico, che prevedeva uno sviluppo indipendente di varietà standard per il cinese e per le lingue minoritarie, che si sarebbero poi integrati in un’unica lingua parlata da tutta la popolazione. Tuttavia, con il crollo dell’URSS, le politiche linguistiche cinesi si sono riorientate verso un modello indipendente, di nazione multiculturale inclusiva, dove il Putonghua è la lingua dominante e le lingue minoritarie hanno un ruolo sussidiario: alle lingue minoritarie è riservato un ruolo secondario, rispetto al Putonghua, nell’istruzione, così come nella comunicazione quotidiana, in cui il Putonghua è chiaramente dominante.26)Zhou, “Introduction”, 3-4.
Inoltre, come accennato sopra, la presenza di più idiomi, spesso molto distanti, all’interno di una stessa minoranza, così come la convivenza di identità diverse nella stessa etnia ufficiale, pone problemi importantissimi nell’uso delle lingue minoritarie nell’istruzione. La situazione richiamata sopra dell’etnia yi è indicativa in questo senso: uno degli ostacoli maggiori all’implementazione della lingua nel sistema scolastico è proprio la difficoltà di individuare uno standard unitario, viste le notevoli differenze tra le sei varietà; problemi simili si incontrano anche nelle aree delle etnie bai e zhuang.27)Spolsky, cit., 171-172. A ciò si somma la carenza di personale qualificato, in quanto, soprattutto in alcune aree, non vi è sufficiente disponibilità di docenti con competenze adeguate nelle lingue minoritarie, soprattutto nei contesti di frammentazione linguistica.
Da ultimo, non tutte le minoranze etniche hanno le stesse possibilità di accesso all’istruzione nella propria lingua. Solo 21 minoranze hanno implementato modelli di istruzione bilingue, e nella maggior parte dei casi la lingua principale dell’istruzione resta il Putonghua. Se i gruppi etnici più consistenti, come i tibetani e gli uiguri, possono scegliere tra scuole dove il mezzo di istruzione è il Putonghua o una lingua etnica, i gruppi più piccoli, come i Salar o i Jino, non hanno un’offerta educativa nella loro lingua. Inoltre, il maggior peso del Putonghua nella società cinese, nell’istruzione superiore e nel mercato del lavoro, rende l’istruzione bilingue una scelta potenzialmente dannosa per gli appartenenti alle minoranze etniche, in termini di possibilità di carriera. A ciò si aggiunge il fatto che a partire dagli anni ’90, e con maggior forza negli anni recenti, si è vista una maggiore promozione di modelli educativi in cui le lingue minoritarie sono studiate, ma con il Putonghua come lingua usata nell’insegnamento, riducendo ulteriormente i margini per il mantenimento degli idiomi etnici nella scuola.28)Zhang Lubei e Tsung Linda T.H., “Tibetan Bilingual Education in Qinghai: Government Policy vs Family Language Practice”, International Journal of Bilingual Education and Bilingualism, 22, 3, 2018, 290–302.
4. Conclusioni
La storia linguistica della Cina è da sempre caratterizzata dall’oscillazione tra due poli: da un lato, l’idea di un sistema unitario, di prestigio, destinato all’uso scritto, che serva da elemento di coesione culturale; e, dall’altro, una certa tolleranza per la diversità linguistica, soprattutto nelle varietà parlate, considerate secondarie rispetto al carattere unificatore della parola scritta. L’influenza delle idee europee, sovietiche e giapponesi sul rapporto tra lingua e nazione, così come le esigenze pratiche nella costruzione di un paese moderno in seguito alla fondazione della R.P.C., hanno portato ad un enfasi molto maggiore sul ruolo della lingua parlata e scritta come elemento essenziale della coesione nazionale e del funzionamento dello Stato. Questa espansione dei domini d’uso del Putonghua, lo standard della Cina Popolare, ha portato ad un inevitabile conflitto di interessi con le esigenze del mantenimento delle lingue (ed identità) regionali (dialetti) e minoritarie, non sinitiche: il principio del “one common language and linguistic diversity” è stato nei fatti applicato, soprattutto a partire dagli anni ’90, con un’enfasi notevole sulla prima metà, “one common language”.
In questo senso, le politiche linguistiche della R.P.C. hanno contribuito a costruire, eliminare (almeno sulla carta) e ridefinire confini di varia natura. Il Putonghua è indubbiamente un veicolo essenziale della costruzione di una Zhonghua minzu 中华民族, ovvero di una “nazione cinese” che trascenda i confini etnici e le identità locali; inoltre, come detto sopra, rappresenta un confine forte tra sinofoni (accomunati dallo Hanyu/Zhongwen e dal Putonghua) e non sinofoni, così come tra ‘cinesi’ (includendo le minoranze) e stranieri. La difesa delle identità regionali ed etniche, come visto, passa dunque spesso proprio per la tutela dei domini d’uso (mass media, istruzione) dei dialetti e delle lingue minoritarie; anche il confine tra Cina continentale e Hong Kong è marcato, in un certo senso, dagli usi linguistici. E la formazione naturale di Putonghua locali, entità “di confine” tra standard nazionale e dialetti locali, rappresenta ancora una volta una sfida al confine tra centro e ‘periferie’ nello spazio linguistico e di legittimazione del mondo culturale cinese. Da ultimo, anche la definizione delle 55 minoranze riconosciute, come si è visto, non è stata un’operazione neutra, dal punto di vista dei confini etnico-culturali e linguistici: anzi, uno degli effetti collaterali dell’individuazione delle minoranze è stato proprio quello di attribuire una lingua unica a parlanti idiomi diversi, creando un disallineamento tra confini etnici, linguistici e amministrativi.
Arcodia Lingue come confini PDF
Immagine: Dajia suo putonghua, foto di Vmenkov
Giorgio Francesco Arcodia è professore ordinario di lingua e linguistica cinese all’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha conseguito il dottorato in Linguistica Teorica e Applicata all’Università di Pavia, e ha studiato lingua cinese presso l’Università Renmin di Pechino e la National Taiwan Normal University di Taipei. La sua ricerca si incentra sui temi della linguistica cinese e della tipologia linguistica: in particolare, sulla tipologia areale delle lingue sinitiche, sulla formazione di parola, sull’espressione di significati grammaticali, e sulla genesi della morfologia. È autore della monografia Chinese Linguistics: An Introduction (Oxford: Oxford University Press, 2021, con Bianca Basciano).
↑1 | Branner David P., Problems in Comparative Chinese Dialectology: The Classification of Miin and Hakka. (Berlin-New York: Mouton de Gruyter, 2016). Behr Wolfgang, “Role of Language in Early Chinese Constructions of Ethnic Identity”, Journal of Chinese Philosophy, 37, 3, 2010, 567–587. |
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↑2 | LaPolla Randy J., “The Role of Migration and Language Contact in the Development of the Sino-Tibetan Family”, in Alexandra Y. Aikhenvald e Robert M. W. Dixon (a cura di), Areal Diffusion and Genetic Inheritance (Oxford: Oxford University Press, 2001), 225–254. |
↑3 | Si veda, ad esempio, Jerry Norman: “[f]or want of a better term, I will also refer to the totality of all forms of Chinese, ancient and modern, local and standard, as Chinese”. The Chinese Dialects: Phonology, in Graham Thurgood e Randy J. LaPolla (a cura di), The Sino-Tibetan Languages. London: Routledge, 72. |
↑4 | Branner, Problems in Comparative Chinese Dialectology, 24. |
↑5 | Behr, “Role of Language”, 568. |
↑6 | Takashima Ken-ichi, “Shāng 商 Chinese, Textual Sources and Decipherment”, in Rint Sybesma et al. (a cura di), Encyclopedia of Chinese Language and Linguistics (Leiden: Brill, 2017). |
↑7 | Branner, Problems in Comparative Chinese Dialectology, 4-6. |
↑8 | Traduzione in italiano tratta da: Scarpari Maurizio e Andreini Attilio, Grammatica della lingua cinese classica (Milano: Hoepli, 2020, 146). rel = marca di frase relativa; ptc = particella. |
↑9 | Per una disamina recente delle diverse possibili interpretazioni del concetto di yayan, e sugli argomenti a sostegno e non rispetto all’esistenza di una lingua franca nel periodo Zhou, si veda Behr Wolfgang, “Tracing variation in Old Chinese: What, if Anything, was Yǎyán 雅言?”, Journal of Chinese Linguistics, 51, 2, 2023, 287−346. |
↑10 | Behr, “Role of Language”, 580. |
↑11 | Kaske Elizabeth, The Politics of Language in Chinese Education, 1895–1919 (Leiden: Brill, 2008). |
↑12 | Ibid. |
↑13 | Zhou Minglang, “Introduction: The Contact between Putonghua (Modern Standard Chinese) and Minority Languages in China”, International Journal of the Sociology of Language 215, 2012, 1–17, 3. |
↑14 | Norman, “The Chinese Dialects”, 72. |
↑15 | Baxter William, A Handbook of Old Chinese Phonology (Berlin-New York: Mouton de Gruyter, 1992), 8. |
↑16 | Kurpaska, Maria, Chinese Language(s). A Look through the Prism of the Great Dictionary of Modern Chinese Dialects (Berlin-New York: Mouton de Gruyter, 2010), 2-3. |
↑17 | Sull’importanza della pronuncia standard nella didattica del Putonghua nelle scuole, si veda anche Saillard Claire, “On the promotion of Putonghua in China: how a standard language becomes a vernacular”, in Minglang Zhou e Hongkai Sun (a cura di), Language Policy in the People’s Republic of China: Theory and Practice since 1949 (Boston: Kluwer, 2004), 153–176. |
↑18 | Liang Sihua, Language Attitudes and Identities in Multilingual China (Cham: Springer, 2014), 14. |
↑19 | Zhou Qinsheng, Ethnic Minority Languages in China. Policy and Practice (Boston/Berlin: De Gruyter Mouton, 2020), 23. |
↑20 | Sul cantonese scritto, si veda Snow Don, Cantonese as Written Language: The Growth of a Written Chinese Vernacular (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2004). |
↑21 | Liang Sihua, Language Attitudes, 19. |
↑22 | Huang Xing 黄行 e Dao Bu 道布, “Zhongguo shaoshu minzu yuyan 中国少数民族语言 [Lingue minoritarie della Cina]”, in Istituto di Linguistica dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, Istituto di Etnologia e Antropologia dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, Language Information Sciences Research Centre della Chinese University of Hong Kong (a cura di), Zhongguo Yuyan Dituji – Shaoshu Minzu Yuyan Juan 中国语言地图地 – 少数民族语言卷 [Atlante delle lingue della Cina – Le lingue minoritarie], Seconda edizione (Beijing: The Commercial Press, 2012), 18-26. |
↑23 | Spolsky Bernard, “Language Management in the People’s Republic of China”, Language, 90, 4, 2014, 165-179. |
↑24 | Zhou, Ethnic Minority Languages in China, 69-76. |
↑25 | Spolsky, “Language Management”, 170-172. |
↑26 | Zhou, “Introduction”, 3-4. |
↑27 | Spolsky, cit., 171-172. |
↑28 | Zhang Lubei e Tsung Linda T.H., “Tibetan Bilingual Education in Qinghai: Government Policy vs Family Language Practice”, International Journal of Bilingual Education and Bilingualism, 22, 3, 2018, 290–302. |