Dopo che l’immagine di un mondo globale, interconnesso e interculturale aveva fatto sperare nell’abbattimento di tutti i muri fisici e ideologici, assistiamo oggi al proliferare di nuovi “confini” e al consolidarsi di vecchi. Da una parte, il riemergere del nazionalismo rinsalda i confini degli stati-nazione eretti più per ostacolare il flusso di persone e meno quello di merci e capitali, nonostante qualche tentativo di attuare politiche protezioniste. Dall’altra, l’immagine di “nuova guerra fredda” incentrata sullo scontro tra “democrazie e autoritarismi” ha rispolverato la divisione del mondo in blocchi contrapposti, che sembrava ormai relegata ai cassetti della Storia.  E ancora più di recente, riemergono ambizioni imperialiste imperniate sull’espansione dei confini fisici degli Stati. Ne sono un esempio eloquente le recenti esternazioni del neo-eletto presidente statunitense, Donald Trump, sulla sovranità degli Stati Uniti sul Canale di Panama e sulla Groenlandia nonché sull’annessione del Canada e sul ribattezzare il Golfo del Messico come “Golfo d’America” (dove per America s’intende gli Stati Uniti, e non di certo un inclusivo continente americano).

Eppure, il confine non è mai una linea netta e naturale, immutabile ed eterna; esso delimita piuttosto uno spazio politico e sociale che, in quanto tale, è artificiale e costruito, e spesso ciclicamente ricostruito. Nel suo essere un costrutto sociale, il confine non si limita alla dimensione spaziale e fisica, ma riguarda altresì quella temporale, ideologica, linguistica, culturale, disciplinare, in breve ogni ambito della realtà: il confine è uno strumento discorsivo che distingue il dentro dal fuori, l’incluso dall’escluso, il legittimo dall’illegittimo, il nuovo dal vecchio.1)Mezzadra, Sandro, e Brett Neilson, Confini e frontiere, La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (Bologna: Il Mulino, 2014).  E nel momento stesso in cui crea tali divisioni, produce al contempo delle connessioni: connette i vari elementi che racchiude e li trasforma in un’unica unità omogenea, distinta, appunto, da ciò che si trova al di là del confine.

Anche nel caso della Cina, il confine è un dispositivo in grado di “naturalizzare l’arbitrarietà” e far apparire come naturale ciò che, in realtà, è artificiale. Così, per esempio, l’assenza di “confini” temporali produce l’immagine della storia imperiale della “Cina” come una continuità caratterizzata dal susseguirsi di dinastie, quasi come se l’Impero cinese fosse un involucro fisso e stabile il cui contenuto varia senza mai intaccarne le caratteristiche fondamentali.2)Millward, James, “Decolonizing Chinese Historiography”, 2021. https://ecommons.cornell.edu/items/f0500877-ef84-44d8-a5fe-3584a9faf56d E ancora, è sulla produzione discorsiva di un confine temporale che si fonda la rappresentazione che distingue tra la vecchia e la “nuova Cina”, e più di recente l’inizio di una “nuova era”, l’era di Xi Jinping, che segnerebbe la trasformazione del Paese in una “potenza” (qiangguo 强国).

Muovendo dalla problematizzazione del confine nel contesto della Grande Cina, i saggi di questo numero di Costellazioni si propongono di esplorare criticamente la complessità e la contraddittorietà del concetto di confine attraverso una pluralità di prospettive disciplinari e metodologiche.

Giorgio Francesco Arcodia si concentra sulla complessità linguistica e sulle politiche in materia messe in atto nella RPC, e indaga il ruolo giocato dal “confine” tra dialetti e lingua standard (Putonghua) e tra quest’ultima e le lingue minoritarie nella Cina contemporanea. Il contributo mette in luce il processo storico e le ragioni politiche dietro la promozione del Putonghua, che va sempre più a scapito non solo delle lingue sinitiche locali ma anche delle lingue delle altre nazionalità non-Han riconosciute nella RPC. Così, il saggio mette in luce il potere attribuito al Putonghua nel tracciare i confini della “nazione cinese” e dissolvere invece quelli interni tra identità locali. Ciononostante, proprio la promozione della lingua standard spinge verso la creazione di “entità ‘di confine’ tra standard nazionale e dialetti locali”, che ancora una volta sfidano il confine tra centro e ‘periferie’.

Anche nel saggio di Sara Corsaro la questione nazionalista è al centro della trattazione, ma è analizzata nel suo legame con la globalizzazione della tecnologia in prospettiva filosofica. In particolare, l’autrice, da un lato, problematizza la presunta universalità del pensiero occidentale sulla tecnica, osservando come invece sia basato su nuove forme di Alterità. Dall’altro, esamina il discorso sulla “civiltà ecologica” come emblema del modo in cui le autorità cinesi rispondono alla globalizzazione della tecnica articolando prospettive culturaliste che renderebbero la modernizzazione con caratteristiche cinesi intrinsecamente incline all’armonia tra persone e resto della natura. Così, nell’epoca iper-industriale e del capitalismo tecnologico globale, vecchi confini – quale quello tra Occidente e Oriente – riaffiorano e ne vengono tracciati di nuovi, qual è quello eretto dal discorso culturalista-nazionalista cinese che dipinge la sua “civiltà ecologica” come “uno sviluppo sostenibile alternativo”.

Il saggio di Stefania Renda contribuisce a mettere in luce come la storia politica del paese s’intreccia con la definizione dei confini, in questo caso quelli tra le varie nazionalità che abitano nella RPC. In particolare, il contributo si concentra sull’analisi di come i “confini etnici” definiti dallo Stato cinese moderno, se da un lato sono un simbolo del potere politico, dall’altro innescano dinamiche di rappresentazione e autorappresentazione, spingendo le popolazioni locali all’adozione di pratiche di resistenza nello spazio domestico e turistico. Attraverso uno studio antropologico del gruppo etnico Mosuo, Renda illustra chiaramente la natura fluida del confine interetnico e offre una disamina delle pratiche di resistenza messe in atto dalla popolazione Mosuo per preservare le loro pratiche sociali distintive dall’oppressione esercitata dal controllo statale cinese.

Anche il contributo di Serena Di Maria si concentra sull’intreccio tra confini politici e identitari, questa volta quelli che interessano lo stretto di Taiwan. Nel suo studio, Di Maria analizza il romanzo Relazioni predestinate di Li Ang, scrittrice taiwanese che affronta il rapporto tra genere, identità e politica. Il saggio esplora il modo in cui la narrativa taiwanese problematizza il confine culturale e politico tra Cina e Taiwan, sfidando le tradizionali nozioni di identità e sovranità. La politica di “una sola Cina” ha contribuito più a rafforzare le divisioni che a favorire l’unità, rendendo Taiwan uno spazio liminale, diplomaticamente isolato ma culturalmente vivo. Di Maria utilizza la letteratura per interrogare il ruolo delle mitologie nazionali e proporre un’alternativa post-nazionale, in cui la comunità non si definisce attraverso confini rigidi ma attraverso una negoziazione continua delle identità.

Nella Cina contemporanea, la realtà sembra sfuggire alle tradizionali categorie del reale e dell’irreale. Nel suo saggio, Nicolò Brescia esplora questa condizione attraverso il cinema d’autore cinese, adottando il concetto di mitorealismo (shenshizhuyi 神实主义) teorizzato dal Yan Lianke, uno dei più importanti romanzieri cinesi contemporanei. In un contesto post-socialista segnato da trasformazioni rapide e contraddittorie, la liminalità diventa una chiave di lettura per comprendere come il cinema ridefinisca i confini del reale. Attraverso un’analisi di film come Still Life, Behemoth e Kaili Blues, Brescia mostra come il mitorealismo non si limiti a rappresentare la realtà, ma la ricrei, facendo emergere le tensioni tra sogno e memoria, ordine e caos, individualità e collettività.

Come conclusione di questo numero sul confine, presentiamo il saggio di Iacopo Adda, che si concentra sulla frontiera sino-russa e ne analizza le trasformazioni tra il 1990 e il 1992 attraverso la stampa locale. L’apertura del confine, avviata con le riforme di Gorbačëv e accelerata dal crollo dell’URSS, ridefinì i rapporti tra Russia e Cina, trasformando un confine “alienato” in uno “interdipendente”. Attraverso un’analisi degli articoli dell’Amurskaja Pravda (La verità dell’Amur), Adda esplora il modo in cui la stampa locale trattò opportunità e incertezze legate al cambiamento. Il lavoro si concentra sulle reazioni della comunità dell’Amur, mostrando come la narrazione dei media abbia contribuito a costruire e interpretare la nuova realtà di confine aperto.

Gallelli e Sciorati Confini PDF

Immagine: Luoshui 2019, danza Jiacuo, foto dell’autrice

Beatrice Gallelli è ricercatrice all’Università Ca’ Foscari di Venezia e all’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma. Il suo lavoro combina studi sulla comunicazione e analisi del discorso, con un focus sulla politica interna della Repubblica popolare cinese, oltre che sulle pratiche traduttive come strumento di riformulazione delle narrazioni. Si interessa altresì di politica estera cinese e relazioni Cina-UE.  

Giulia Sciorati è ricercatrice presso il dipartimento di relazioni internazionali della London School of Economics and Political Science. Si occupa di teoria della narrazione politica, revisionismo storico e promozione dell’autocrazia, concentrandosi principalmente sulla Repubblica popolare cinese, il suo ruolo nel sistema internazionale e le sue relazioni con lo spazio ex-sovietico.

References
1 Mezzadra, Sandro, e Brett Neilson, Confini e frontiere, La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (Bologna: Il Mulino, 2014). 
2 Millward, James, “Decolonizing Chinese Historiography”, 2021. https://ecommons.cornell.edu/items/f0500877-ef84-44d8-a5fe-3584a9faf56d