Introduzione

La società cinese è universalmente riconosciuta dagli studiosi della diversità religiosa come un caso notevole caratterizzato da una diversità antica ancora molto vivace.1)Traduciamo, su gentile concessione dell’autore, una sintesi del saggio: Vincent Goossaert “Historiens et anthropologues repensent la diversité religieuse en Chine”, Extrême-Orient Extrême-Occident, 45, 2022, 15-33. La profondità storica, l’abbondanza di documentazione, la rilevanza quantitativa del mondo cinese e, più recentemente, la circolazione globale delle tradizioni religiose cinesi attraverso tutti i continenti dovrebbero logicamente portare a una situazione in cui gli studi sulla Cina svolgono un ruolo centrale nei dibattiti scientifici. Tuttavia, non è esattamente così. Non possiamo che constatare, con rammarico, che il lavoro delle scienze sociali sulla diversità religiosa in Cina, con rare eccezioni (gli studi sui rituali sono senza dubbio l’esempio migliore2)Un’opera teorica, a cura di una sinologa, che ha avuto un’eco significativa è il volume di Catherine Bell, Ritual theory, ritual practice (Oxford: Oxford University Press, 1992).) applica in gran parte teorie sviluppate in Occidente e contribuisce solo marginalmente ai rinnovamenti teorici e analitici del settore.

L’oggetto di questo articolo è la diversità, intesa come la presenza oggettiva all’interno di una medesima società di diverse tradizioni e forme di pratica religiosa (compresa la diversità interna alle “grandi religioni”), sia essa riconosciuta o meno. Quando viene riconosciuta, si può parlare di pluralità; lo studio della diversità può concentrarsi su credenze e pratiche, mentre quello della pluralità implica il concetto di regolamentazione, che è molto più ampia rispetto alla semplice analisi di leggi e politiche. Affronterò qui entrambi gli aspetti: la diversità, essenzialmente da un punto di vista individuale, e la pluralità dal punto di vista sociale.

Mi sembra essenziale distinguere chiaramente la pluralità dal pluralismo, quest’ultimo definito come una posizione (o addirittura un’ideologia) volta a presentare la diversità come naturale, sana e desiderabile, da cui derivano politiche per riconoscere la diversità. Il pluralismo implica tolleranza, mentre la pluralità può ignorarla. Molti studi stabiliscono il pluralismo come norma; tuttavia, se non posso che essere personalmente d’accordo con questa norma, insisto sul fatto che una buona comprensione della storia e dell’attualità della diversità religiosa nel mondo cinese deve partire dal fatto che gli attori (politici o religiosi) non la condividono, almeno in molti casi. In Cina abbiamo una pluralità (dove diverse tradizioni religiose sono riconosciute da molto tempo) che non è pluralismo: le tradizioni religiose riconosciute sono infatti in numero fisso, la barriera per i “nuovi arrivati” è molto alta e le tradizioni riconosciute sono inquadrate da sistemi normativi molto restrittivi.

1. Diversità religiosa in Cina: approcci teorici

Il lavoro delle scienze sociali sulla situazione religiosa nel mondo cinese contemporaneo è stato caratterizzato, a partire dalla metà degli anni 2000, dall’ascesa della teoria del mercato religioso (o della scelta razionale), che è stata adattata al contesto cinese dal suo promotore più importante, Yang Fenggang.3)Fenggang Yang, Religion in China: Survival and Revival under Communist Rule (New York: Oxford University Press, 2012). Tale teoria presuppone che gli attori facciano scelte ponderate, secondo i propri interessi, tra le diverse religioni a loro accessibili in un dato contesto a seconda della regolamentazione statale. I dibattiti scientifici sulla rilevanza di questa teoria in generale, e in particolare sulla sua applicazione al mondo cinese, sono molto ricchi, e non è questo il luogo per ripeterli.4)Per una discussione sull’applicazione di questa teoria al contesto cinese, vedi David Palmer, “Gift and Market in the Chinese Religious Economy”, Religion, 41, 4, 2011, 569-594. Vorrei semplicemente sottolineare che la teoria del mercato religioso prende in considerazione solo le religioni istituzionalizzate, seguendo in gran parte, nel caso cinese, le definizioni politiche contemporanee di religione. L’attenzione risulta pertanto focalizzata sulle cinque religioni ufficiali (wuda zongjiao 五大宗教): buddhismo, taoismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo. Tuttavia, anche se i fenomeni di confessionalizzazione stanno rapidamente aumentando il numero di persone che rispondono ai sondaggi identificandosi con una di queste religioni, resta il fatto che un numero molto più elevato di intervistati riconosce un’attività religiosa (come un altare domestico, la visita ai templi, la partecipazione a rituali, l’organizzazione di funerali religiosi, ecc.) e credenze specifiche (come il baoying 報應, la retribuzione morale degli atti, ad esempio) senza considerarsi legati a nessuna delle cinque religioni. A mia conoscenza, i teorici del mercato religioso non hanno trovato una soluzione soddisfacente capace di integrare questa vastissima area di diversità religiosa nel loro pensiero.

Da parte loro, storici e antropologi che lavorano sulle religioni cinesi hanno avanzato una serie di proposte teoriche e analitiche per rendere conto di questa diversità: religione popolare (o folk religion), religione comune, religione cinese, religione vernacolare, culti locali, tradizioni settarie, società segrete, società di redenzione (jiushi tuanti 救世團體), credenze popolari (minjian xinyang 民間性樣), senza dimenticare categorie politiche come il patrimonio immateriale (feiyi 非遺), le sette (huidaomen 會道門) o i culti deviati (xiejiao 邪教).

Possiamo solo notare che vi è disaccordo (se non addirittura fraintendimento) sull’uso di queste categorie, il cui significato varia tra le lingue occidentali e il cinese, e a seconda del contesto politico cinese. Quella di religione popolare resta utilizzata in modo estremamente vario (e spesso ambiguo), sia per designare la religione del popolo in contrapposizione a quella delle élite (i rituali e gli esercizi spirituali valorizzati dalla cultura dei letterati) e delle istituzioni monastiche, sia al contrario per indicare un quadro comprensivo comune (da cui emergerebbero i Tre Insegnamenti: buddhismo, taoismo, confucianesimo); in alcuni casi include, o designa specificamente, movimenti devozionali cosiddetti “settari”, in altri li esclude per designare essenzialmente i templi e i culti comunitari nei villaggi.5)Philip Clart, “Conceptualizations of ‘Popular Religion’ in Recent Research in the People’s Republic of China”, in Wang Chien-chuan 王見川, Li Shih-wei 李世偉 e Hung Ying-fa 洪瑩發 (a cura di), Yanjiu xinshiye: Mazu yu Huaren minjian xinyang guoji yantaohui lunwenji 研究新視界:媽祖與華人民間信仰國際研討會論文集 (Taipei; BoyYoung Publishing, 2014), 391–412. Si noti inoltre che alcuni studiosi considerano le tradizioni “settarie” come una “quarta religione” chiaramente distinta dalle altre, mentre altri tendono a relativizzare fortemente questa separazione. Per l’ultima posizione, vedi Thomas David DuBois, The Sacred Village: Social Change and Religious Life in Rural North China (Honolulu: University of Hawai’i Press, 2005).

A questa ricchezza, spesso confusa, si aggiunge un uso talvolta irriflessivo della tanto bistrattata nozione di sincretismo. Questa nozione, se ben rappresenta movimenti come le società redentrici del ventesimo secolo, che pretendono di inglobare, superare e quindi rendere obsolete le religioni preesistenti, è invece poco adatta a parlare di modalità di convivenza delle diverse tradizioni religiose, che mantengono la propria identità e che vediamo all’opera in tutta la società cinese.

Concetti come “buddhismo popolare” (minjian fojiao 民間佛教)6)Tam Wai Lun 譚偉倫 (a cura di), Minjian fojiao yanjiu 民間佛教研究 (Beijing: Zhonghua shuju, 2007). hanno avuto il grande merito di attirare l’attenzione su interi settori della vita religiosa cinese trascurati dagli studi sul buddhismo (che tendono a privilegiare le élite monastiche e laiche) così come da quelli sulla “religione popolare”, che talvolta cercano di affermare l’indipendenza della cultura popolare rispetto alle istituzioni clericali (una posizione estrema vòlta a minimizzare o addirittura negare l’impatto dei Tre Insegnamenti nei villaggi cinesi).7)Vincent Goossaert, “Is There a North China Religion? A Review Essay”, Journal of Chinese Religions, 39, 2011, 83-93. Tuttavia, non sono riusciti a chiarire la questione delle categorie utilizzate e condivise.

In breve, quindi, le riflessioni sulla diversità religiosa cinese che si fondano su queste categorie che identificano grandi tradizioni religiose distinte – buddhismo, taoismo, confucianesimo, religione popolare, tradizioni settarie, ecc. – con i propri specifici individui, luoghi, pratiche o testi, sembrano scontrarsi con insidie e contraddizioni. Queste categorie, ancora fortemente contestate politicamente e poco adatte a ordinare la realtà cui si riferiscono (il recente sviluppo di forme popolari di rinascita del confucianesimo ne è un buon esempio8)Sébastien Billioud e Joël Thoraval, Le Sage et le peuple. Le renouveau confucéen en Chine: Le renouveau confucéen en Chine (Paris: Editions du CNRS, 2014).), non funzionano molto meglio sul piano scientifico, a causa dell’assenza di definizioni condivise e ampiamente accettate, e per il fatto che gran parte della vita religiosa reale, osservabile nei testi o sul campo, difficilmente vi si adatta.

2. Diversità individuale e diversità collettiva

Consapevoli dei limiti imposti da questi quadri analitici classici sulla diversità religiosa, vari studiosi hanno cercato di sviluppare concetti etici (e quindi potenzialmente comparativi) pur basandosi sull’osservazione sul campo. Tra i concetti che hanno attirato maggiormente l’attenzione vi è quello proposto da Adam Chau di “cinque modalità di fare religione” (“five modalities of doing religion”).9)Adam Yuet Chau, “Modalities of Doing Religion”, in David A. Palmer, Glen Shive e Philip L. Wickeri (a cura di), Chinese Religious Life (Oxford: Oxford University Press, 2011), 67–84; “Modalities of Doing Religion and Ritual Polytropy: Evaluating the Religious Market Model from the Perspective of Chinese Religious History”, Religion 41, 4, 2011, 547–568; “A Different Kind of Religious Diversity: Ritual Service Providers and Consumers in China”, In Perry Schmidt-Leukel e Joachim Gentz (a cura di), Religious Diversity in Chinese Thought (New York: Palgrave Macmillan, 2013), 141–154. Queste cinque modalità sono così definite: (1) discorsiva/scritturale, che coinvolge essenzialmente la composizione e l’uso di testi; (2) personale (auto-coltivazione), che comporta un investimento a lungo termine in pratiche di auto-trasformazione; (3) liturgica, che prevede procedure rituali elaborate che richiedono l’intervento di specialisti; (4) pratica-immediata, che mira a risultati e benefici rapidi attraverso semplici tecniche rituali o magiche (che possono essere apprese da tutti); (5) relazionale, che pone al centro della pratica religiosa le relazioni personali, sia tra esseri umani che con le divinità e gli antenati.

Il modello delle modalità, oltre al suo carattere chiaramente comparativo, mira a focalizzare l’attenzione su ciò che gli attori fanno concretamente e sulle forme del loro coinvolgimento nelle attività religiose, piuttosto che su appartenenze formali che non tengono conto delle notevoli differenze individuali.

In un recente articolo,10)Vincent Goossaert, “Diversity and Elite Religiosity in Modern China: A Model”, Approaching Religion, 7, 1, 2017, 10-20. ho cercato di sviluppare un modello che aggiungesse a quello proposto da Adam Chau altre due dimensioni del coinvolgimento personale nella religione: da un lato ciò che le persone sanno o capiscono della religione in generale (compresa quella degli altri – ciò che ho chiamato ‘cultura religiosa’11)Vincent Goossaert, “Yu Yue (1821-1906) explore l’au-delà. La culture religieuse des élites chinoises à la veille des revolutions”, in Roberte Hamayon, Denise Aigle, Isabelle Charleux e Vincent Goossaert (a cura di), Miscellanea Asiatica (Sankt Augustin: Monumenta Serica, 2011), 623-656.) e dall’altro i loro modi di fare religione e le loro preferenze, il loro “stile”, che tiene conto della dimensione estetica ed emotiva della vita religiosa. La somma di questi fattori permette di comprendere la religiosità personale, da collocare su una mappa lungo due assi, l’uno atto a misurare il livello di coinvolgimento personale, l’altro la cultura o conoscenza religiosa (e quindi l’apertura ad altre forme religiose rispetto a quella che si pratica personalmente). Ritengo che le trasformazioni del ventesimo secolo abbiano coinvolto meno il primo asse rispetto al secondo, prefigurando l’evoluzione verso una diversità in cui gli attori conoscono o comprendono meno (e quindi tollerano meno) altre pratiche religiose rispetto alla propria.

Questi diversi modelli consentono di far avanzare la ricerca sulla diversità delle pratiche religiose, delle credenze e delle visioni del mondo dei cinesi, in termini che consentono una buona comprensione delle discontinuità e delle continuità storiche tra l’era premoderna e quella moderna, diversamente dai modelli che presuppongono un tipo di appartenenza confessionale che non esisteva (o esisteva solo marginalmente) prima del ventesimo secolo. Hanno però lo svantaggio di concentrare tutta l’attenzione sulle scelte, sulle pratiche e sul coinvolgimento individuali, mentre una parte significativa della vita religiosa è collettiva e deriva da scelte fatte dalle comunità (anche se talvolta guidate da individui dominanti).

Mi ripropongo quindi di focalizzare l’attenzione sul livello collettivo, pur mantenendo l’obiettivo di integrare un modello della diversità delle religiosità individuali, come quelli sopra menzionati, con un modello della diversità delle istituzioni e dei gruppi.

3. Le quattro dimensioni della società cinese

Un primo approccio per pensare alla diversità religiosa a livello sociale è partire dalle strutture fondamentali della vita sociale piuttosto che dalle istituzioni religiose in senso stretto. Una distinzione particolarmente utile tra i gruppi religiosi cinesi è quella tra comunità ascrittive (o assegnate), alle quali l’appartenenza è obbligatoria per tutti i nuclei familiari (spesso rappresentati dal capofamiglia o dalla matriarca), e congregazioni caratterizzate da partecipazione individuale e volontaria.12)Per un approfondimento: Vincent Goossaert e David A. Palmer, La question religieuse en Chine (Paris: CNRS éditions, 2012), 32-33. Prima del ventesimo secolo (e in una certa misura ancora oggi) esistevano in Cina tre principali tipologie di comunità ascrittive: comunità territoriali, lignaggi e corporazioni di mestiere, corrispondenti a tre forme di legame sociale: il territorio (diyuan 地緣), ossia lo spazio; la filiazione (xueyuan 血緣), ovvero la storia; e l’economia. Queste tre tipologie, alle quali si aggiunge il vincolo volontario di associazione, costituiscono le quattro dimensioni essenziali in cui la vita individuale si organizza all’interno di strutture sociali, ciascuna contrassegnata, ma in modi diversi, da una forte dimensione culturale e rituale.

Questo modello evidenzia tre aspetti cruciali delle modalità cinesi di regolamentare la pluralità. Innanzitutto, ci permette di comprendere il livello relativamente basso di competizione che esiste tra le istituzioni religiose, e in particolare tra i templi. Infatti, contrariamente alle analisi contemporanee che pongono l’accento su templi imprenditoriali che cercano di attrarre nuovi ‘clienti’ ed entrano in competizione tra loro –fenomeni di questo ordine esistono, favoriti da sviluppi socio-politici molto recenti, ma rimangono del tutto marginali13)Selina Ching Chan e Graeme Lang, “Temples as Enterprises”, in Adam Y. Chau (a cura di), Religion in contemporary China: revitalization and innovation (Londra: Routledge, 2011), 133-153. – i templi che sono stati al centro dell’organizzazione sociale cinese per un buon millennio occupano quasi tutti nicchie distinte. In un villaggio, c’è un tempio per la comunità territoriale del villaggio, altri per lignaggi e segmenti di lignaggio, e altri ancora gestiti da associazioni di volontariato. Non sono in alcun modo in competizione, ma hanno funzioni e base sociale distinte, il che non impedisce alla maggior parte degli abitanti del villaggio di essere affiliati, a vario titolo, a templi diversi. Ciò non significa affatto completa libertà di costruire nuovi templi; al contrario, l’emergenza di nuovi culti mette sempre in discussione l’ordine costituito, crea facilmente tensioni e quindi richiede trattative per trovare un nuovo equilibrio.

Il modello quadridimensionale pone poi al centro della riflessione sulla pluralità la questione dei diversi aspetti della vita religiosa degli individui. Qualsiasi analisi della religiosità individuale, in particolare quella delle élite alfabetizzate (molto meglio documentata nell’era premoderna rispetto a quella della gente comune), deve tenere conto delle differenze tra una vita pubblica, in gran parte occupata da obblighi (di partecipare a riti e ad altre attività ascrittive delle comunità) e una vita più privata, dove le scelte e la socialità degli individui sono più libere, e le differenze maggiori da un individuo all’altro in termini di livello di impegno e coinvolgimento.14)Goossaert, “Diversity and Elite Religiosity in Modern China: A Model”.

Infine, il modello delle quattro dimensioni permette di evidenziare e spiegare livelli di secolarizzazione molto variabili. Evidentemente, la dimensione associativa è la meno secolarizzata, perché è quella che dipende principalmente dalle scelte e dalle convinzioni personali. Tuttavia, l’attaccamento a una comunità territoriale attraverso la quale può essere assicurata la salvezza degli individui non è affatto scomparso e continua a informare il comportamento degli individui all’inizio del ventunesimo secolo.15)Vincent Goossaert, “À quel point les Chinois sont-ils sortis de la religion? Quelques réflexions à partir de la vie religieuse locale au Jiangnan”, Monde chinois nouvelle Asie, 35, 2013, 62-66; “Territorial Cults and the Urbanization of the Chinese World. A Case Study of Suzhou”, in Peter van der Veer (a cura di), Handbook of Religion and the Asian City (Berkeley: University of California Press, 2015), 52-68. La dimensione economica è certamente la più secolarizzata delle quattro. La dimensione cultuale e rituale è stata efficacemente eliminata dalle reti e organizzazioni economiche fin dai primi anni del regime socialista. Anche la dimensione di lignaggio ha conosciuto movimenti di secolarizzazione, volti a ridurre o addirittura eliminare le attività rituali a partire dal periodo repubblicano. Se un grande movimento per ricostruire i templi di lignaggio è diventato evidente a partire dagli anni ’80, questi templi ricostruiti sono spesso vuoti e, come mostra Michael Szonyi, è l’aspetto informale della rete di fiducia e di mutuo aiuto (piuttosto che i suoi aspetti rituali) che costituisce la parte essenziale del contemporaneo dinamismo dei lignaggi.16)Michael Szonyi, “Lineages and the Making of Contemporary China”, Vincent Goossaert, Jan Kiely e John Lagerwey (a cura di), Modern Chinese Religion II: 1850-2015 (Leiden: Brill, 2016), 433-487.

4. I quadri liturgici17)Per un approfondimento, si rimanda alla più amplia trattazione nel testo originale: Goossaert “Historiens et anthropologues repensent la diversité religieuse en Chine”.

Un secondo approccio, complementare a quello delle quattro dimensioni, consiste nel partire non dai legami sociali ma dalla pratica rituale. Si tratta della nozione di quadro liturgico sviluppata da Kenneth Dean.18)Vedi ad esempio Kenneth Dean e Zhenman Zheng, Ritual Alliances of the Putian Plain (Leiden: Brill, 2010). Secondo Dean, un quadro liturgico è un insieme di norme e disposizioni che, nel corso di un evento rituale, mettono in ordine gli individui (e i loro affetti), le divinità, lo spazio, le risorse e le istituzioni presenti localmente. È essenziale comprendere che tutti questi elementi possono essere ugualmente presenti in eventi distinti, ma ordinati diversamente nei vari quadri liturgici.

La più grande virtù euristica della nozione di quadro liturgico è certamente quella di porre il rito al centro dell’analisi, piuttosto che focalizzare l’attenzione sulle credenze e le affiliazioni degli individui.19)Con un approccio molto diverso, anche Weller e Seligman sotttolineano l’importanza del rituale nella formazione delle identità religiose e quindi della diversità religiosa cinese. Vedi Robert P. Weller e Adam B. Seligman, “Pluralism and Chinese Religions. Constructing Social Worlds through Memory, Mimesis, and Metaphor”, Review of Religion and Chinese Society, 1, 2014, 29-47. È infatti durante gli eventi rituali che il posto e il ruolo di ciascuna persona divengono manifesti e che l’ordine religioso della società, e le relazioni tra le sue diverse componenti, sono mostrati e rinegoziati. Costituiscono quindi una finestra unica sulla questione della pluralità.

I quadri liturgici mantengono rapporti molto stretti con le diverse tradizioni degli specialisti religiosi che ne sono custodi e che le attuano durante i rituali. Per parlare della società locale del Jiangnan, si possono identificare (senza contare le tradizioni musulmane e cristiane) almeno sei diversi quadri liturgici operanti in questa regione in tempi premoderni e moderni. Il quadro buddhista, in primo luogo, messo in atto da un vasto clero che va dalle élite dei grandi monasteri al clero locale e agli specialisti sposati nei villaggi; quello dei taoisti, caratterizzato da un’analoga organizzazione clericale gerarchica che va dai grandi templi centrali ai preti locali; quello del clero confuciano dei ‘maestri di cerimonia’;20)Sulla controversa nozione di clero confuciano, vedi Vincent Goossaert, “Un clergé confucianiste? Avancées récentes de la recherche”, in Dominique Avon (a cura di), Faire autorité. Les religions dans le temps long et face à la modernité (Rennes: Presses Universitaires de Rennes, 2017), 89-98. quello dei cantastorie dei baojuan 寶卷 (“rotoli preziosi”, il più importante genere di letteratura rituale vernacolare, che racconta la vita delle divinità ed espone storie morali); quello dei medium (uomini o, più spesso, donne, chiamati nello Jiangnan con i termini più diversi, tra cui shiniang 師娘, “maestra”); tradizioni devozionali o “settarie” (jiaomen 教門). È nella collaborazione e nell’articolazione tra questi diversi specialisti e i rispettivi quadri liturgici che si costruisce la vita religiosa locale. Tale collaborazione è ovviamente segnata da tensioni, asimmetrie negli equilibri di potere e conflitti occasionali; resta il fatto che essi rimangono strettamente dipendenti l’uno dall’altro, il significato e l’importanza degli elementi degli uni dipendono in parte dal loro uso in altri quadri liturgici.

Se le quattro dimensioni della società cinese e i quadri liturgici sono due strumenti per analizzare la pluralità ciascuno con i propri vantaggi, come possiamo articolarli e integrarli in un approccio onnicomprensivo? Mi sembra che si possano evidenziare affinità forti, anche se non esclusive, tra certi quadri e certe dimensioni. Ad esempio, la dimensione del territorio ha da lungo tempo, e ancora oggi (nel Jiangnan come altrove nel mondo cinese), un legame privilegiato con il quadro liturgico taoista. Le principali celebrazioni regolari delle divinità del territorio rientrano, come regola generale, in un quadro liturgico taoista: i sacerdoti taoisti sono invitati a celebrare un rito di alleanza (jiao 醮) e (nel Jiangnan) ci si reca al proprio tempio taoista per riaffermare l’iscrizione degli individui e del loro dio in un ordine spaziale gerarchico che garantisce l’accesso agli dèi più elevati. La dimensione storica e di lignaggio mantiene, come possiamo facilmente intuire, un rapporto privilegiato con il quadro liturgico confuciano, che regola i rituali di riproduzione, alleanza e trasmissione, anche se non bisogna dimenticare l’importanza del quadro buddhista nei rituali per i defunti. La dimensione economica ha più legami con il quadro taoista (si pensi ai santi protettori dei mestieri, che rivendicano stretti legami con il taoismo, e al ruolo dei rituali e del clero taoista nella vita delle corporazioni fino agli anni ’30). Infine, la dimensione associativa ha legami con tutti gli ambiti liturgici, compreso quello delle tradizioni cosiddette “settarie”.

 5. La divisione del lavoro religioso

Abbiamo visto che diverse forme di vita religiosa appartengono contemporaneamente a tradizioni rituali distinte e a dimensioni differenti della vita sociale. Questa constatazione dovrebbe indurci a ripensare in modo più ampio il fatto che la società cinese lavora da tempo per organizzare formalmente la coesistenza di queste diverse forme religiose. Infatti, ripercorrendo la storia religiosa cinese dall’era premoderna agli sviluppi più recenti, appare evidente una propensione molto forte a limitare la competizione religiosa e a produrre norme interne o locali a questo scopo. Si tratta di un orientamento culturale, talvolta espresso nelle fonti, che resta difficile da definire con precisione in modo astratto e generale, ma di cui si possono osservare gli effetti formali in innumerevoli circostanze.

In effetti, se consideriamo l’ambito della regolamentazione formale, ci accorgiamo che, fino a tempi recenti, i testi normativi relativi alla vita religiosa riconoscono la pluralità ma limitano con numerosi mezzi la libera scelta degli individui (ad eccezione della religiosità personale, ben poco regolamentata) e delle comunità, la concorrenza e la commercializzazione dei servizi religiosi, che sono tre aspetti distinti ma strettamente correlati del pluralismo.21)Sulla commercializzazione, vedi Adam Yuet Chau, “The Commodification of Religion in Chinese Societies”, in Goossaert, Kiely e Lagerwey (a cura di), Modern Chinese Religion II: 1850-2015, 949-976.

Una spiegazione generalmente accettata della pluralità religiosa cinese si basa sull’idea della libera concorrenza; tutti “provano”, si dice, religioni e soluzioni rituali diverse e alla fine adottano quella che “funziona” meglio. Il motivo principale che mi porta a rifiutare questa visione è che la società cinese premoderna è, al contrario, caratterizzata da una regolamentazione molto rigida che prescrive formalmente e con precisione chi ha il diritto di praticare rituali o fornire altri servizi religiosi, a chi, in quale luogo e in quali condizioni. Questa regolamentazione è in gran parte a carico delle società locali e delle loro istituzioni (i grandi templi e le loro élite buddhiste o taoiste al centro delle reti religiose; i patroni dei templi, delle corporazioni e delle associazioni, ecc.) molto più che dello Stato, che generalmente si limita a convalidare queste regole provenienti dalla base.22)Per un approfondimento, vedi: Vincent Goossaert, “A Question of Control: Licensing Local Ritual Specialists in Jiangnan, 1850-1950”, in Shufen Liu e Paul R. Katz (a cura di), Xinyang, shijian yu wenhua tiaoshi. Proceeding of the Fourth International Sinology Conference 信仰、實踐與文化調適. 第四屆國際漢學會議論文集 (Taipei: Academia Sinica, 2013), 569-604. Le leggi imperiali, che hanno maggiormente attratto l’attenzione degli studiosi rispetto alla realtà della regolamentazione sul territorio, sono molto vaghe e lasciano ampio margine di manovra ai funzionari locali nelle loro negoziazioni con gli attori della società locale.

Questa regolamentazione si basa su una precisa divisione del lavoro rituale. La realtà, osservata da molti etnografi, è che la concorrenza tra diversi tipi di specialisti religiosi è limitata per il semplice motivo che non forniscono gli stessi servizi. In molti luoghi, i buddhisti eseguono solo rituali funebri e i taoisti solo rituali per i vivi, il che elimina ogni possibile causa di competizione. Va ancora notato che qui si parla di ruoli e non di identità personale esclusiva; lo stesso specialista religioso può essere qualificato, indipendentemente, per eseguire rituali taoisti e buddhisti, il che non toglie nulla all’effetto della regolamentazione.

La competizione come possiamo osservarla, storicamente o etnograficamente, opera più all’interno delle tradizioni; ad esempio, tra due gruppi taoisti capaci di eseguire lo stesso rituale (ma in stili diversi, a costi diversi, ecc.). Per limitare questo tipo di concorrenza, sono stati sviluppati sistemi di regolamentazione (documentati fin dai secoli quindicesimo e sedicesimo, ma che hanno indubbiamente origini più antiche) che distribuiscono il lavoro rituale. Fino agli anni ’30, nel Jiangnan, un caso ben documentato ma probabilmente per nulla atipico, gli specialisti religiosi avevano ciascuno una “parrocchia”, chiamata mentu 門圖 (o 門徒) o menjuan 門眷, all’interno della quale godevano di un monopolio rituale. Inoltre, a ogni famiglia veniva assegnato un taoista, un buddhista, un sacerdote confuciano (lisheng 禮生), una troupe di musicisti e altri specialisti che godevano del diritto esclusivo di fornire loro i servizi rituali corrispondenti alla loro area di competenza. Una famiglia o comunità che assumesse specialisti diversi da quelli a cui era legata da questo contratto a lungo termine di menjuan, avrebbe potuto essere citata in tribunale dal titolare del diritto di monopolio, che avrebbe vinto la causa. Questi rapporti contrattuali rimanevano stabili nel lungo periodo; i diritti non appartenevano allo specialista religioso come individuo ma al suo lignaggio religioso e potevano essere scambiati, venduti o ipotecati dal loro detentore.

Il caso delle parrocchie menjuan del Jiangnan fornisce l’esempio concreto della modalità di attuazione della preferenza culturale per una divisione altamente regolamentata del lavoro religioso, una forma di pluralità imposta. Bisogna aggiungere un elemento essenziale: fin dall’inizio del ventesimo secolo le autorità a tutti i livelli hanno portato avanti un’opera incessante di smantellamento di questi sistemi di regolamentazione della vita religiosa locale. Già negli ultimi anni dell’impero, i membri degli strati più alti della società protestavano contro i vincoli che questi sistemi imponevano loro (l’obbligo di pagare regolarmente un’ampia varietà di specialisti religiosi e l’impossibilità di scegliere chi avrebbe celebrato i rituali familiari nella loro dimora23)Questa situazione ha alimentato un forte anticlericalismo. Vedi Vincent Goossaert, “Late Imperial Chinese Anticlericalism and the Division of Ritual Labor”, History of Religions, 61, 1, 87-104.), riuscendo talvolta a convincere i funzionari locali a negare la validità di questi regolamenti e contratti. Il disfacimento da parte dello Stato repubblicano (in alcuni luoghi, brutalmente, fin dalle prime settimane della Repubblica, all’inizio del 1912) degli organismi religiosi (taoisti, buddhisti e specialisti della divinazione) che erano intermediari cruciali tra lo Stato e la società su scala locale e costituivano il cuore dei sistemi normativi, ha accelerato il declino di questi ultimi. Infine, è emerso un discorso sulla ‘libera scelta’, che rivendica per ognuno il diritto di trattare, o di non trattare, con gli specialisti religiosi di propria scelta. Tuttavia, il sistema della parrocchia e quello del diritto di esercizio rimasero ampiamente praticati fino al 1949, e se ne trovano tracce ancora oggi.

A questo cambiamento significativo nelle condizioni della pluralità, in atto da più di un secolo ma non ancora completato e neppure irreversibile, se ne deve aggiungere un altro, senza dubbio più visibile e meglio compreso nella storiografia: l’ascesa delle religioni esclusive che non hanno alcuna intenzione di aderire a una divisione del lavoro rituale che lasci spazio ad altri attori religiosi. Questo è certamente il caso del cristianesimo, ma anche, in modo diverso, di altri due grandi attori del panorama religioso cinese: le società di redenzione e il buddhismo. Le società redentrici che svilupparono a partire dagli anni ’10 un quadro istituzionale moderno perpetuando una religiosità derivante tanto dai preesistenti movimenti ‘settari’ quanto dal confucianesimo, si presentano come tradizioni religiose complete e sincretiche, che scoraggiano (ma con effetti variabili a seconda dei casi) i loro membri a partecipare alle attività religiose di altri gruppi, comunità e istituzioni. Il caso meglio studiato e più influente a livello globale è quello dello Yiguandao.24)Sébastien Billioud, Reclaiming the Wilderness: Contemporary Dynamics of the Yiguandao (Oxford: Oxford University Press, 2020). Da parte sua, il buddhismo, attraverso le sue varie trasformazioni nel corso dei secoli ventesimo e ventunesimo, ha teso a diventare confessionale, e quindi a inventare e proporre ai suoi seguaci rituali che prima rientravano in altri contesti liturgici (il matrimonio, per esempio), tanto che sempre più cinesi, nella Cina popolare come altrove, si affermano come esclusivamente buddhisti e quindi non partecipano più, o partecipano il meno possibile, ad altri rituali o attività religiose.

Conclusioni

Per concludere brevemente, vorrei tornare su un punto discusso nell’introduzione: la necessità di un modello di analisi della diversità e della pluralità che sia allo stesso tempo ancorato alla realtà sul territorio cinese e che apra prospettive comparatiste. Abbiamo tentato di delineare un quadro della diversità sul campo, basato su dati relativi al periodo dal sedicesimo al ventunesimo secolo, ma che sarebbe sostanzialmente valido anche per le epoche precedenti. Un quadro che suggerisce un progetto sociale che mira a una forte regolamentazione religiosa all’interno della società (con un ridimensionamento del ruolo dello Stato centrale in questo processo), lasciando allo stesso tempo ampio spazio alla diversità delle religiosità individuali e dividendo il lavoro religioso tra numerosi attori secondo dimensioni diverse della vita sociale. Questo progetto sociale è stato messo in discussione nel ventesimo secolo da altre influenze importate (quelle del mercato, per dirla in sintesi) ma non è affatto scomparso.

L’analisi di tale pluralità non passa attraverso le appartenenze confessionali ma attraverso l’osservazione delle diverse modalità di socialità in cui sono coinvolti gli individui e del modo in cui essi creano eventi religiosi a seconda del contesto e delle diverse regolamentazioni. Questi strumenti formano un modello analitico che è al contempo flessibile ed empirico, molto più orientato alla descrizione accurata delle variazioni che alle generalizzazioni e previsioni.

Mi sembra che un modello del genere catturi bene ciò che accade in Cina, ma sia altrettanto rilevante anche per altre società, sia in Asia orientale (Corea, Giappone, Vietnam tra gli altri) sia nel subcontinente indiano. In effetti, nell’Asia meridionale si osserva una diversità religiosa antichissima, anch’essa fortemente regolamentata, con sistemi di divisione del lavoro rituale che sono, nei loro principi fondamentali, comparabili a quelli della Cina, anche se ovviamente molto diversi nelle loro modalità concrete. Le affiliazioni degli individui sono molteplici, collettive per casta e individuali per adesione a una tradizione devozionale o ascetica, e gli specialisti rituali di questi diversi quadri non sono in competizione. Troviamo ancora, nel mondo indiano, rapporti contrattuali (detti jajman) che le famiglie intrattengono con un gran numero di specialisti. Un’analisi comparativa di questi modelli di regolamentazione potrebbe rinnovare profondamente il campo di studio della diversità religiosa.25)Peter van der Veer, The Modern Spirit of Asia: The Spiritual and the Secular in China and India (Princeton: Princeton University Press, 2014); Vincent Goossaert e Peter van der Veer (a cura di), Réguler les pluralités religieuses: mondes indiens et chinois comparés (numéro spécial Archives de sciences sociales des religions 193, 2021).

(Tradotto dal francese da Ana-Maria Luca)

Goossaert, La diversità religiosa in Cina PDF

Immagine: Taoisti durante un rituale comunitario jiao in un villaggio nei Nuovi Territori, Hong Kong, gennaio 2007 (Foto dell’autore)

Vincent Goossaert è Directeur d’études all’École pratique des hautes études ed è stato guest professor all’Università di Ginevra, alla Chinese University of Hong Kong e alla Renmin Daxue di Pechino. Il suo ambito di ricerca riguarda la storia sociale delle religioni in Cina in età moderna, con una particolare attenzione al taoismo, ai professionisti delle pratiche religiose e al loro ruolo sociale, alle politiche religiose e alla produzione delle norme morali. Fra i suoi numerosi volumi: The Religious Question in Modern China (Chicago: Chicago Univrsity Press, 2011), scritto insieme a David Palmer.

References
1 Traduciamo, su gentile concessione dell’autore, una sintesi del saggio: Vincent Goossaert “Historiens et anthropologues repensent la diversité religieuse en Chine”, Extrême-Orient Extrême-Occident, 45, 2022, 15-33.
2 Un’opera teorica, a cura di una sinologa, che ha avuto un’eco significativa è il volume di Catherine Bell, Ritual theory, ritual practice (Oxford: Oxford University Press, 1992).
3 Fenggang Yang, Religion in China: Survival and Revival under Communist Rule (New York: Oxford University Press, 2012).
4 Per una discussione sull’applicazione di questa teoria al contesto cinese, vedi David Palmer, “Gift and Market in the Chinese Religious Economy”, Religion, 41, 4, 2011, 569-594.
5 Philip Clart, “Conceptualizations of ‘Popular Religion’ in Recent Research in the People’s Republic of China”, in Wang Chien-chuan 王見川, Li Shih-wei 李世偉 e Hung Ying-fa 洪瑩發 (a cura di), Yanjiu xinshiye: Mazu yu Huaren minjian xinyang guoji yantaohui lunwenji 研究新視界:媽祖與華人民間信仰國際研討會論文集 (Taipei; BoyYoung Publishing, 2014), 391–412. Si noti inoltre che alcuni studiosi considerano le tradizioni “settarie” come una “quarta religione” chiaramente distinta dalle altre, mentre altri tendono a relativizzare fortemente questa separazione. Per l’ultima posizione, vedi Thomas David DuBois, The Sacred Village: Social Change and Religious Life in Rural North China (Honolulu: University of Hawai’i Press, 2005).
6 Tam Wai Lun 譚偉倫 (a cura di), Minjian fojiao yanjiu 民間佛教研究 (Beijing: Zhonghua shuju, 2007).
7 Vincent Goossaert, “Is There a North China Religion? A Review Essay”, Journal of Chinese Religions, 39, 2011, 83-93.
8 Sébastien Billioud e Joël Thoraval, Le Sage et le peuple. Le renouveau confucéen en Chine: Le renouveau confucéen en Chine (Paris: Editions du CNRS, 2014).
9 Adam Yuet Chau, “Modalities of Doing Religion”, in David A. Palmer, Glen Shive e Philip L. Wickeri (a cura di), Chinese Religious Life (Oxford: Oxford University Press, 2011), 67–84; “Modalities of Doing Religion and Ritual Polytropy: Evaluating the Religious Market Model from the Perspective of Chinese Religious History”, Religion 41, 4, 2011, 547–568; “A Different Kind of Religious Diversity: Ritual Service Providers and Consumers in China”, In Perry Schmidt-Leukel e Joachim Gentz (a cura di), Religious Diversity in Chinese Thought (New York: Palgrave Macmillan, 2013), 141–154.
10 Vincent Goossaert, “Diversity and Elite Religiosity in Modern China: A Model”, Approaching Religion, 7, 1, 2017, 10-20.
11 Vincent Goossaert, “Yu Yue (1821-1906) explore l’au-delà. La culture religieuse des élites chinoises à la veille des revolutions”, in Roberte Hamayon, Denise Aigle, Isabelle Charleux e Vincent Goossaert (a cura di), Miscellanea Asiatica (Sankt Augustin: Monumenta Serica, 2011), 623-656.
12 Per un approfondimento: Vincent Goossaert e David A. Palmer, La question religieuse en Chine (Paris: CNRS éditions, 2012), 32-33.
13 Selina Ching Chan e Graeme Lang, “Temples as Enterprises”, in Adam Y. Chau (a cura di), Religion in contemporary China: revitalization and innovation (Londra: Routledge, 2011), 133-153.
14 Goossaert, “Diversity and Elite Religiosity in Modern China: A Model”.
15 Vincent Goossaert, “À quel point les Chinois sont-ils sortis de la religion? Quelques réflexions à partir de la vie religieuse locale au Jiangnan”, Monde chinois nouvelle Asie, 35, 2013, 62-66; “Territorial Cults and the Urbanization of the Chinese World. A Case Study of Suzhou”, in Peter van der Veer (a cura di), Handbook of Religion and the Asian City (Berkeley: University of California Press, 2015), 52-68.
16 Michael Szonyi, “Lineages and the Making of Contemporary China”, Vincent Goossaert, Jan Kiely e John Lagerwey (a cura di), Modern Chinese Religion II: 1850-2015 (Leiden: Brill, 2016), 433-487.
17 Per un approfondimento, si rimanda alla più amplia trattazione nel testo originale: Goossaert “Historiens et anthropologues repensent la diversité religieuse en Chine”.
18 Vedi ad esempio Kenneth Dean e Zhenman Zheng, Ritual Alliances of the Putian Plain (Leiden: Brill, 2010).
19 Con un approccio molto diverso, anche Weller e Seligman sotttolineano l’importanza del rituale nella formazione delle identità religiose e quindi della diversità religiosa cinese. Vedi Robert P. Weller e Adam B. Seligman, “Pluralism and Chinese Religions. Constructing Social Worlds through Memory, Mimesis, and Metaphor”, Review of Religion and Chinese Society, 1, 2014, 29-47.
20 Sulla controversa nozione di clero confuciano, vedi Vincent Goossaert, “Un clergé confucianiste? Avancées récentes de la recherche”, in Dominique Avon (a cura di), Faire autorité. Les religions dans le temps long et face à la modernité (Rennes: Presses Universitaires de Rennes, 2017), 89-98.
21 Sulla commercializzazione, vedi Adam Yuet Chau, “The Commodification of Religion in Chinese Societies”, in Goossaert, Kiely e Lagerwey (a cura di), Modern Chinese Religion II: 1850-2015, 949-976.
22 Per un approfondimento, vedi: Vincent Goossaert, “A Question of Control: Licensing Local Ritual Specialists in Jiangnan, 1850-1950”, in Shufen Liu e Paul R. Katz (a cura di), Xinyang, shijian yu wenhua tiaoshi. Proceeding of the Fourth International Sinology Conference 信仰、實踐與文化調適. 第四屆國際漢學會議論文集 (Taipei: Academia Sinica, 2013), 569-604.
23 Questa situazione ha alimentato un forte anticlericalismo. Vedi Vincent Goossaert, “Late Imperial Chinese Anticlericalism and the Division of Ritual Labor”, History of Religions, 61, 1, 87-104.
24 Sébastien Billioud, Reclaiming the Wilderness: Contemporary Dynamics of the Yiguandao (Oxford: Oxford University Press, 2020).
25 Peter van der Veer, The Modern Spirit of Asia: The Spiritual and the Secular in China and India (Princeton: Princeton University Press, 2014); Vincent Goossaert e Peter van der Veer (a cura di), Réguler les pluralités religieuses: mondes indiens et chinois comparés (numéro spécial Archives de sciences sociales des religions 193, 2021).