Che tutte le famiglie felici si somiglino e che invece ogni famiglia infelice sia disgraziata a modo suo ce lo aveva detto già Tolstoj, che nell’incipit di Anna Karenina cristallizza il manifesto di tutte le famiglie disastrate. Senza voler osare paragoni troppo arditi, anche Cena per sei di Lu Min (Orientalia editrice, Roma, 2023, pp. 392) ci offre uno scorcio di vita familiare, a suo modo disastrata: non della borghesia russa del Settecento, bensì della classe media operaia della periferia industriale cinese nei tardi anni Novanta e primi Duemila.
Il romanzo, tradotto da Natalia F. Riva con la curatela di Silvia Pozzi ed edito da Orientalia, è strutturato in sei capitoli, uno per ogni personaggio protagonista della storia.
Innanzitutto c’è Bai, ragazzo timido e impacciato, per via del suo corpo grasso e per l’insicurezza con cui vive la sua sessualità. Orfano di padre, Bai cresce con la presenza delle due donne della sua vita: la madre Su Qin e la geniale sorella maggiore Lan. Quando la madre inizia una frequentazione con l’operaio Ding Bogang – vedovo anche lui, e a sua volta con due figli a carico, Chenggong e Zhenzhen – Bai coltiva la segreta speranza di trovare in questo nuovo equilibrio familiare la normalità che tanto desidera.
Le due famiglie si riuniscono tutti i sabati a casa Ding per cena. Il menù viene eseguito da Bogang (e di solito consiste in piatti particolarmente ricchi di materia grassa e sapida), e pedissequamente registrato da Bai nel suo diario. Intorno al banchetto i sei personaggi non intrattengono chissà quali conversazioni edificanti, ma sono piuttosto concentrati su sé stessi, “tutti tacitamente consapevoli della loro nuda solitudine” (p. 44), tanto che a Bai queste scene ricordano l’impietoso realismo de I mangiatori di patate di Van Gogh.
Su Qin, che non ha mai superato la morte del marito, vive con reticenza l’ufficialità della sua relazione con Bogang, che in effetti avrebbe preferito tenere segreta. Il suo rapporto con l’uomo, ma anche con i figli, è freddo, e si direbbe distaccato, come se quella che stesse vivendo non fosse in realtà la sua vita, ma quella che il contesto sociale si aspetta che lei conduca. Lan, dal canto suo, si rifugia nello studio e nelle sue ambizioni di fuga dalla “zona industriale”, che sembra inghiottire le persone che la abitano (“In quello che facevano le persone intorno a lei, nel loro passato e nel loro futuro, non c’era nulla di interessante, come se fossero piante o pezzi di arredamento. Per lei l’unica cosa che contava era la sua lotta per distinguersi, per avere successo”, p. 355)
Poi ci sono Bogang, l’ubriacone (“[c]onferire a un uomo questo titolo era una tradizione della zona industriale”, p. 87), che dopo la fine della relazione con Su Qin viene colpito da una grave forma di amnesia, forse un meccanismo difensivo contro la “demolizione continua” (p. 130) che era stata la sua vita: “La confusione sugli eventi passati era un gioco che si era scelto. Camuffava vero e falso nello stesso modo in cui univa i sapori quando preparava il suo contorno di verdure preferito: mescolando e rimescolando” (p. 123). Zhenzhen invece, la figlia minore di Bogang, è una ragazzina svampita ma di buon cuore, l’unica che si occupa e preoccupa davvero della famiglia, nonostante in cambio gli altri dedichino a lei niente altro che disattenzioni quando non proprio disprezzo. E infine c’è Chenggong, forse il personaggio più interessante della sestina. Primogenito di Bogang nonché bambino prodigio, già nel nome, che significa “successo”, si riversa l’aspettativa della famiglia – e del padre soprattutto – di elevarsi dalla condizione operaia (“A un anno, era capace di contare, a due sapeva il pi greco a memoria e a tre le poesie Tang e a quattro leggeva i giornali…”, p. 216). Ma Chenggong disattende una a una tutte le speranze del padre; conduce una vita mediocre, fa l’operaio anche lui nella zona industriale, e rinuncia a realizzarsi persino nella vita sentimentale, scegliendo per sé stesso una relazione impossibile, nella quale si annulla: “…vivi tu per me. Vai all’università per me, lascia il quartiere per me, trova un bel lavoro per me, vivi una vita stupenda per me” (p. 283) dirà Chenggong alla sua amata. L’unica sua passione è il vetro, che impara a lavorare e che in seguito gli darà da vivere. Ma il vetro è anche, simbolicamente, il suo filtro per vedere il mondo, vederlo senza toccarlo né a sua volta esserne toccato.
L’autrice intreccia i fili delle vite dei personaggi rivelando una particolare attenzione e abilità nel delineare – senza peraltro mai risultare giudicante – i loro profili psicologici e le tensioni emotive, che simbolicamente convergono nel banchetto del sabato sera, attorno al quale si consuma la recita dell’esistenza, la cui essenza sta nella ripetizione: “Dialoghi caduti nel dimenticatoio che si ripropongono, pance vuote che si riempiono, desideri spenti che si riaccendono” (p. 49). Questa ripetizione trova senso anche nel modo in cui è strutturato l’intreccio del romanzo, che procede avanti e indietro sulla linea del tempo, seguendo i moti ondulatori delle memorie dei sei personaggi che ricordano e raccontano gli stessi eventi in maniera diversa.
Con Cena per sei, Lu Min ci propone una saga familiare in salsa industriale, in cui la fabbrica non è soltanto l’ambiente in cui si svolge la storia, ma diventa a tutti gli effetti il settimo personaggio: “Era il lievito in cui fermentavano le emozioni, il conservante e il pigmento che preservava il passato” (p. 10). Ma gli anni d’oro della zona industriale sono ormai lontani, i livelli di produzione non sono più quelli di una volta, i licenziamenti e le liquidazioni dei lavoratori sono sempre più frequenti, e l’inquinamento è diventato insostenibile. Il graduale ma inesorabile smantellamento della zona industriale riflette la crisi dei rapporti tra i nostri personaggi e coincide con la demolizione dell’idea di futuro che avevano provato a costruirsi, culminando in un evento “esplosivo” che distruggerà il muro di vetro che questi avevano innalzato tra i loro desideri e la fabbrica, spargendo schegge dappertutto.
Immagine: particolare dalla copertina del libro
Serena De Marchi ha conseguito il dottorato presso Stockholm University con una tesi sulla letteratura del carcere in Cina. Nel 2021 ha ottenuto la Taiwan Fellowship ed è stata visiting researcher presso la National Taiwan Normal University. Dal 2022 è tornata a Stockholm University con un progetto di ricerca postdoc sulla memoria del Terrore bianco (1949-1987) nella narrativa taiwanese contemporanea.