È il febbraio del 1972. I “caotici” anni della Rivoluzione culturale hanno inferto un duro colpo alla credibilità a livello internazionale del Partito comunista cinese, che sta ancora fronteggiando i lasciti della grande carestia che ha colpito il paese negli anni Sessanta. Richard Nixon è il primo presidente degli Stati Uniti a mettere piede nella Repubblica Popolare Cinese: il suo viaggio segna l’avvio dei rapporti diplomatici ufficiali e segue una visita condotta in segreto tre mesi prima, che vede l’allora segretario di Stato Henry Kissinger (venuto a mancare il 29 novembre scorso) incontrare il premier Zhou Enlai per favorire il processo di normalizzazione dei rapporti.

Ma c’è un altro colloquio, assai meno noto, che anticipa il riavvicinamento tra Pechino e Washington. Nel 1971, recatosi in Cina per comprendere lo stato della scienza nel paese, il professore di geofisica dell’Università di Santa Cruz in California, Robert Coe, conosce uno dei più famosi fisici del paese, Zhou Peiyuan. Zhou vanta una collaborazione con Albert Einstein e in quel momento ricopre la carica di vicepresidente del Comitato rivoluzionario a capo dell’Università di Pechino. Qualche anno più tardi sarà proprio lui a guidare una delegazione ufficiale diretta negli Stati Uniti, nell’ambito della campagna di Deng Xiaoping “imparare dall’Occidente”.

Ma tornando a quell’incontro in epoca maoista, dalle parole del suo collega Coe comprende che gli scienziati cinesi sono stati investiti di una grande missione. Zhou gli dice «che Marx, Engels e Lenin avevano una grande considerazione per la scienza, ma che nessuno di loro l’aveva messa in una posizione fondamentale come aveva fatto Mao». Secondo il “grande timoniere” le idee corrette provengono da «tre tipi di pratica sociale: la lotta per la produzione, la lotta di classe e l’esperimento scientifico» (p. 21).

Siamo solo nelle prime pagine di Tecnocina. Storia della tecnologia cinese dal 1949 a oggi (Add editore, Torino, 2023, pp. 304) di Simone Pieranni, ma già il resoconto si è fatto denso di aneddoti e dettagli. L’instancabile ricerca dell’autore su questi temi, e non solo, è già evidente in Red Mirror (2020) e La Cina Nuova (2021), entrambi Edizioni Laterza. Ma Tecnocina possiede gli elementi per raccontare una storia del tutto diversa, che vede Pechino fissare obiettivi strategici e piani quinquennali per lo sviluppo scientifico e tecnologico ben prima di emergere come una potenza mondiale. 

Nella prima sezione del libro, dedicata al periodo 1949-1976, vediamo Mao Zedong circondarsi «delle migliori menti della scienza cinese, uomini e donne che dopo la vittoria della rivoluzione comunista erano tornati in Cina per prendere parte alla nascita di una nuova società». Negli anni Sessanta, si legge ancora, la sua ossessione è «la fisica delle particelle elementari, da cui traeva la corretta applicazione della dialettica marxista e dell’evoluzione attraverso tensioni e cambiamenti» (p. 15). Agli occhi e nella pratica del leader la scienza si tramuta in uno strumento per spiegare, e al contempo mettere in pratica, la lotta di classe.

Il periodo è caratterizzato dal ritorno in patria di uomini e donne di scienza formatisi all’estero, un’immagine preziosa ai fini propagandistici ma che nasconde sacrifici economici e ingerenze ideologiche. La Cina di Mao è interessata da una imperante ideologizzazione di influenza sovietica, che tuttavia resiste alla rottura tra Rpc e Urss. Secondo tale approccio la scienza non appartiene a tutta l’umanità e va divisa in scienza borghese e scienza proletaria e rivoluzionaria. «Partendo da questo assunto», si legge, «durante il maoismo si era deciso che era più importante essere “rosso” che “esperto”» (p. 63). 

Una gerarchia che impone un clima di repressione e censura a molti intellettuali del paese. Ma gli anni della Guerra Fredda registrano storie simili anche altrove. Qian Xuesen, il padre del programma missilistico cinese e non solo, nel secondo dopoguerra diventa uno degli uomini di punta del California Institute of Technology (Caltech) a Pasadena, Stati Uniti, prima di venire accusato di essere una spia comunista. A metà degli anni Cinquanta sarà arrestato e condannato a cinque anni di domiciliari, periodo in cui subirà umiliazioni e molestie. Cacciato dal paese, approderà nella Repubblica popolare maoista dove raggiungerà in poco tempo la fama.

Tecnocina raccoglie storie come quella di Qian e di altri personaggi meno noti e al contempo centrali per lo sviluppo del paese, come il fisico Yang Zhenning, la madre dell’informatica cinese Xia Peisu, il padre del riso ibrido Yuan Longping. Un racconto corale che affianca nomi sconosciuti ad aspetti inesplorati dei leader dell’epoca. 

Tra questi, Zhao Ziyang, premier dal 1980 al 1987 e segretario generale del Pcc nei due anni successivi. All’inizio degli anni Ottanta Zhao resta folgorato da uno degli studi più significativi del sociologo statunitense Alvin Toffler, La terza ondata. Toffler, che si definisce un futurologo, offre un’interpretazione del futuro dell’umanità dividendo la storia umana in tre ondate. L’aura misteriosa che aleggia attorno alla non ancora attuata “terza ondata” (un futuro nuovo con protagonista una civiltà emergente che può far fede su nuove fonti energetiche, nuovi metodi produttivi e nuovi modelli educativi) sembra investire di vitalità l’intero decennio. Zhao è un visionario, parla di “rivoluzione tecnologica” e sostiene che la Cina non possa perdere questa opportunità.

In quegli anni la Repubblica popolare si sta aprendo al mercato internazionale sotto l’egida delle politiche di “riforme e apertura” di Deng Xiaoping. Un processo che non può non includere una de-maoizzazione anche della scienza. Il discorso che il “piccolo timoniere” tiene nel 1978, in occasione della cerimonia inaugurale del Convegno sulla scienza, è chiaro: per procedere sulla strada delle modernizzazioni è necessario avere a disposizione una «potente forza scientifica e tecnica al servizio della classe operaia, una forza che sia “rossa ed esperta”». Se la crescita procedere disomogenea, con le Zone Economiche Speciali che crescono a ritmi elevati e le aree interne restano ai margini del boom, gli scritti di Toffler infondono la speranza che l’era dell’informazione garantirà ai paesi di recuperare lo scarto con le potenze mondiali. 

Soprattutto se paragonati alla Cina di Xi Jinping, al periodo maoista o ancora all’epoca immediatamente successiva, agli anni Novanta i media internazionali hanno dedicato uno spazio di approfondimento più ridotto. L’apparato di sorveglianza, ad esempio, nasce proprio in quegli anni e a porre le fondamenta per il suo sviluppo è ancora la figura mitica di Qian Xuesen, il quale nel suo libro Engineering Cybernetics del 1954 teorizza «la sua ingegneria cibernetica – o ingegneria dei sistemi, come divenne nota – non solo come un’applicazione della cibernetica all’ingegneria, ma come una scienza ingegneristica che includeva del tutto la teoria del controllo» (p. 97).

All’indomani del massacro di piazza Tian’anmen, Pechino intensifica quindi la ricerca sulla cibernetica, intesa come quella disciplina secondo cui la società viene concepita come un software, qualcosa da poter programmare, pianificare e controllare. Il Partito lo farà, ovviamente, con regole del gioco cinesi, impossibili da spiegare e da capire facendo uso di chiavi di lettura occidentali. Il risultato, abbozzato in epoca maoista e consolidato poi, è una «commistione tra scienza, politica e popolazione», «una sorta di cosmotecnica cinese, come l’ha definita di recente il filosofo Yu Hui» (p. 92).

Di fatto, il caso da manuale dell’applicazione del controllo sulla società viene deciso qualche anno prima: nel 1982 la nuova Costituzione inserisce la politica del figlio unico tra gli assi portanti della nuova Cina. Pieranni sviscera le dinamiche interne al Partito, non mancando di citare le relazioni ufficiali e di menzionare le voci contrarie e silenziate. Come quella dell’economista Liang Zhongtang, che in occasione di un convegno organizzato dal governo centrale a Chengdu nel 1989 avverte del disastro sociale e suggerisce come l’aumento della ricchezza e le nuove abitudini sociali avrebbero condotto a un controllo spontaneo della crescita demografica. Ma è agli scienziati responsabili dei piani missilistici cinesi che il Partito affida la scelta finale su una pianificazione che in pochi anni si tramuterà in tragedia.

Al contempo, Tecnocina contestualizza gli avvenimenti, riportando le discussioni che si registrano al di fuori dei confini della Repubblica popolare. La Cina sta entrando nel futuro e Deng è preoccupato che la crescita demografica possa gettare un’ombra sul progresso economico del paese, soprattutto di fronte agli sguardi scettici o incuriositi dell’Occidente. Come scrive Pieranni, «si potrebbe sostenere che tutto il mondo – preoccupato per lo scoppio della bomba demografica cinese – abbia sostenuto o guardato con un certo sollievo all’azione del Partito comunista» (p. 89). Se le potenze mondiali non esitano a condannare le drastiche politiche cinesi, al contempo guardano allarmate al tasso di crescita della popolazione, soprattutto in Asia e in paesi come Cina e India (che pure avviò una politica di sterilizzazione forzata).

Ma come reagisce la “comunità internazionale” all’avvento di Internet, una delle sfide più cruciali per la leadership cinese? Molti danno per certo che il web metterà a repentaglio la solidità del Partito, alcuni parlano perfino di inevitabili riforme democratiche. Pechino provvede, invece, a dare forma a un intranet, escludendo le piattaforme occidentali e promuovendo lo sviluppo autoctono. È proprio in questo periodo, inoltre, che la leadership del Partito lancia i processi che porteranno al compimento della Cina come la conosciamo oggi. Ospitato da Philip di Salvo in Overnight, programma di Radio Raheem, Pieranni nota come in sostanza gli anni Novanta e i primi Duemila si siano configurati come l’anello di congiunzione tra l’epoca delle riforme di Deng Xiaoping e la Cina odierna. 

È proprio in questo periodo, aggiunge l’autore, che il Partito fa sfumare la lotta di classe e irretisce al proprio interno la classe imprenditoriale. A guidare il processo è Jiang Zemin, ingegnere elettrico che viene nominato dal vecchio Deng segretario del Partito comunista in un anno turbolento come il 1989. Jiang apre le porte agli imprenditori legittimando la sua mossa con la teoria delle tre rappresentatività, un concetto che, come si legge in una citazione di Marina Miranda nel suo Ideologia e Riforma politica in Cina, «veniva pubblicizzato come il nucleo di una ricostruzione ideologica della legittimità del Pcc in quanto Partito al potere: tale legittimità non veniva rivendicata in riferimento alla lunga storia rivoluzionaria e ai fermi dogmi ideologici, ma, al contrario, enfatizzandone l’innovazione e la vitalità derivante dalla sua capacità di adattarsi a un ambiente in continua evoluzione».

Il segnale è chiaro: gli ostacoli del presente e le sfide future vengono contrastate e assorbite da un Partito che muta e si rinnova. Questo nuovo approccio permette a Ren Zhengfei, che negli anni Novanta si occupa di centraline telefoniche a Shenzhen, di arrivare direttamente a Jiang Zemin. L’incontro (o presunto tale) ha due esiti: l’azienda di Ren, Huawei, produce il primo commutatore telefonico made in China, fornendo un servizio in cui fino a quel momento avevano dominato le grandi società di telecomunicazioni occidentali; inoltre, il Partito comprende la necessità di mettere a punto una strategia per richiedere alle aziende occidentali la condivisione del know-how con i partner cinesi.

Per le società straniere, che vogliono investire in un mercato promettente e in rapida crescita, le loro controparti cinesi rubano e copiano le competenze con il benestare dello stato. «Bisogna però precisare che tutto era assolutamente legale», scrive Pieranni. «Le aziende cinesi hanno importato tecnologia occidentale e collaborato con aziende occidentali attraverso joint ventures e in seguito hanno adottato le loro pratiche di gestione e assunto i loro talenti migliori” (p. 143). 

Un racconto corale dove coesistono storie di leader politici e uomini e donne di scienza non poteva non includere quella di Xi Jinping, che una volta giunto al potere nel 2012, «ha accentrato su di sé molte cariche, ha fatto approvare una revisione della Costituzione che lo mantiene in carica come presidente della Repubblica popolare fino a quando vorrà, ha creato organi importanti in ambito economico, culturale e di sicurezza che gli garantiscono il pieno comando del Paese» (p. 193).

Il nuovo leader, circondato da un folto gruppo di tecnocrati, porta a compimento molti dei processi avviati dai suoi predecessori. La “nuova era” di Xi Jinping è contrassegnata da due elementi determinanti. Il primo è «il piano Made in China 2025 che mira a trasformare l’impianto economico-industriale del Paese riconfermando la volontà del Pcc di puntare tutto sull’innovazione» (p. 196). Il progetto dà seguito al Medium and Long Term Program of Science and Technology (MPL) lanciato nel 2006 come uno dei piani più ambiziosi nella storia del paese, «il cui intento era aumentare le capacità scientifiche in tanti settori, dall’elettronica ai semiconduttori, dal settore aerospaziale a quello della produzione di medicine, dalle telecomunicazioni all’energia pulita» (p. 184). Il secondo è la Belt and Road Initiative, il piano che prevede il coinvolgimento cinese in progetti infrastrutturali fuori dai confini del paese con cui Pechino punta ad aumentare la sua influenza economica nel mondo.

Intanto, nel paese negli anni Duemiladieci la digitalizzazione procede spedita. Lo sviluppo tech cinese prende anche la forma del variegato ecosistema delle piattaforme cinesi, la cui ascesa “disordinata” è stata esposta anche dal punto di vista delle condizioni di lavoro interne, con un’attenzione crescente per le conseguenze di lunghi turni di lavoro e della forte pressione imposta ai dipendenti di Big Tech come Alibaba e Tencent.

Dopo aver escluso le piattaforme occidentali, «è il momento di una vera e propria sistematizzazione, perché nella discussione pubblica cinese entrano i Big Data, il concetto di data driven governance e la necessità di regolamentare il settore, per rendere chiaro, a chi per caso lo avesse dimenticato, che è il Partito a comandare» (p. 218).

La mano forte del Pcc non può allentare la presa, soprattutto di fronte alla sfida tra Pechino e Washington che contrassegna quest’epoca. Ma anche nella supervisione di nodi centrali per lo sviluppo tecnologico nazionale e non solo come l’intelligenza artificiale (AI). Il mutevole interesse che la leadership ha dimostrato nel corso decenni nei confronti della disciplina attraversa tutte le fasi storiche che hanno segnato la Repubblica popolare cinese: prima denunciata dall’Unione Sovietica, e quindi anche da Mao, come una pseudoscienza reazionaria della borghesia, l’AI registrerà poi un crescente interesse nel corso degli anni Ottanta grazie al lavoro di ricerca dell’Associazione cinese per l’Intelligenza artificiale (CAAI). Ma anche grazie all’instancabile ricerca del matematico Wu Wenjun e, ancora, di Qian Xuesen, considerati i pionieri dell’AI in Cina.

I nomi e le vicende dei protagonisti e delle molte protagoniste di Tecnocina ci illustrano da vicino la via di Pechino, caratterizzata ad oggi dalla volontà di autosufficienza tecnologica e su cui veglia la visione di Xi. Un testo capace di condurre il lettore nella comprensione del modo in cui «la storia politica del Paese ha incrociato quella della scienza e della tecnologia. E come, ormai, tutto questo finisce per incrociare anche la nostra storia e la nostra quotidianità» (p. 233).

Immagine: particolare dalla copertina del libro.

Vittoria Mazzieri è autrice e editor del collettivo China Files. Ha collaborato con la sezione Esteri del Il Manifesto e altre testate ed emittenti radio occupandosi di politiche del lavoro, gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico