Questo nuovo numero di costellazioni intende esplorare la molteplice costruzione degli spazi nella Cina – principalmente – contemporanea, mettendo in relazione diverse simbolizzazioni spaziali che investono tanto le sfere fisiche quanto quelle virtuali, tanto i grandi territori quanto quelli più intimi dell’esperienza, evidenziandone le particolari configurazioni di significato politico, sociale, culturale.
Tese come sempre a tratteggiare fenomeni diversi partendo da una comune parola-chiave, le costellazioni di Sinosfere sono anche un modo per sondare lo sguardo di chi interpreta – le nostre angolazioni preferite dalle quali siamo soliti affrontare i nostri oggetti di indagine. A cosa pensiamo, quando pensiamo alla nozione di “spazio”, nella Cina di oggi? Prevedibilmente, buona parte degli interventi muove dall’osservazione delle iniziative disegnate dallo stato cinese, con la sua volontà di tracciare territori, delimitarli, per stabilirne un ordine, esercitarne un controllo, iscriverne una sovranità politica e/o un’identità culturale.
Per questo la nostra rassegna comincia con il contributo di Simone Dossi, che osserva gli orizzonti in divenire della politica estera cinese, riflettendo su come questi possano contribuire alla riorganizzazione dello spazio politico globale. Esaminando le iniziative di politica estera portate avanti negli ultimi anni dal governo cinese, Dossi rileva nell’espansione internazionale della Cina un’oscillazione fra una dimensione regionale, tesa ad affermare la costruzione dello spazio soprattutto nella propria “periferia” asiatica, e una dimensione globale, che mirerebbe a ricostruire lo spazio politico mondiale, immaginando soluzioni per riformare l’attuale sistema di governance globale. Il prevalere dell’una o dell’altra tendenza, secondo l’autore, potrebbe promuovere a seconda processi di frammentazione regionale o di unificazione globale.
In continuità con il saggio di Simone Dossi è quello di Tonio Savina, anch’esso interessato all’espansione mondiale della Cina, che viene però proiettata, nel suo studio, sulle volte dello spazio extra-atmosferico – il teatro per intenderci delle opere letterarie di Liu Cixin e dei suoi spin-off cinematografici –, attraverso una commistione di discorsi politici, accademici e popolari che, nella loro eterogeneità, tendono a veicolare una comune visione dominante, anch’essa caratterizzata però da tensioni. Nelle rappresentazioni mainstream dello spazio promosse oggi nella Repubblica Popolare Cinese, infatti, Savina ravvisa l’esistenza di una “dicotomia principale”, quella fra un immaginario che vede lo spazio esterno come un laboratorio per la realizzazione di un’ecumenica “comunità umana dal destino condiviso”, secondo le formulazioni della leadership cinese, e uno che lo disegna come proiezione astrale dei rapporti di forza sulla Terra, utile a segnalare l’ascesa della RPC in chiave fortemente nazionalista.
Una simile contraddittorietà si trova anche nella determinazione statale degli spazi del Xinjiang, regione autonoma tradizionalmente abitata da popolazioni turcofone e musulmane, negli ultimi anni investita da aspre politiche di controllo e repressione, analizzata nel saggio di Giulia Sciorati, che, come il precedente, mette in luce le convergenze fra i documenti governativi e i discorsi accademici cinesi. Nella sua analisi, Sciorati evidenzia una contraddizione di fondo fra la definizione del Xinjiang come spazio chiuso, sviluppatosi storicamente intorno al lascito della civiltà cinese tradizionale, in cui gli aspetti legati all’identità turco-islamica dei suoi abitanti sono minimizzati, e quella del Xinjiang come spazio aperto, con una vocazione storicamente transnazionale, immaginato come connettore naturale per la proiezione internazionale della Cina verso l’Asia Centrale e l’Europa a supporto dei suoi obiettivi di politica estera.
Nei due saggi che seguono si passa alla trattazione di un altro tipo di spazio, quello immateriale di internet, nel quale tuttavia rimane centrale la stessa aspirazione di sovranità e controllo già ravvisata nella gestione statale degli spazi territoriali. Nel primo dei due articoli Gianluigi Negro si concentra sulle modalità particolari con cui il PCC si approccia alla governance di internet, soffermandosi in particolare sui concetti chiave e le strategie messe in atto a partire dall’ascesa di Xi Jinping, per portare avanti infine alcune riflessioni sulla “sinizzazione” del cosiddetto Metaverso. Un’enfasi su nozioni come sovranità digitale e potere discorsivo, insieme a preoccupazioni di natura commerciale, si intrecciano in modo caratteristico in tali concettualizzazioni e regolamentazioni.
Martina Codeluppi, viceversa, si sofferma sull’uso dello spazio di internet da parte degli utenti, nel loro tentativo creativo di sfuggire alle norme del controllo che regolano il web cinese, affrancandosi dal controllo delle istituzioni. Codeluppi, in particolare, prende in esame la genesi del The Great Translation Movement, un movimento di attivisti anonimi sorto a ridosso dell’invasione russa dell’Ucraina, che ha utilizzato la traduzione come arma per smascherare su Twitter il groviglio di opinioni impopolari attorno ai temi più caldi che interessano tanto la Repubblica Popolare Cinese quanto il resto del mondo, creando in questo modo uno spazio “altro” che, a più di due anni di distanza delle restrizioni anti-Covid, ha permesso di colmare la distanza che si era creata tra la R.P.C. e il resto del mondo, aprendo una finestra sulla società cinese contemporanea.
Segue il saggio di Michela Bonato, con il quale ci spostiamo dall’immaginazione degli spazi nazionali e internazionali alla costruzione dello spazio sociale a livello locale, nello specifico quello del perimetro periurbano del Distretto di Beibei situato nella municipalità di Chongqing. Partendo da una ricerca sul campo, l’autrice indaga le relazioni fra le operazioni di risanamento e valorizzazione economica dell’area in questione, finalizzate soprattutto a creare degli spazi residenziali elitari costituiti da gated communities, e i processi di “ri-significazione del locale” finalizzati a produrre determinate narrazioni ideologiche rispetto all’esperienza dello spazio urbano, in particolare attraverso la diffusione di poster di propaganda che veicolano un’idea di “habitat armonioso” promuovendo i valori di “civilizzazione ecologica, patria e famiglia”.
Di spazi legati alla famiglia, anche se in questo caso più soffertamente personali, si occupa Sara D’Attoma, che nel suo saggio si concentra sulle dinamiche della violenza domestica ai danni della donna nella Cina contemporanea, confrontando lo spazio privato della famiglia in cui avvengono gli abusi e lo spazio pubblico della giurisprudenza chiamata a giudicare tali violenze. Nel suo saggio D’Attoma rileva come il discorso sulla violenza domestica sia entrato nella sfera pubblica solo in tempi abbastanza recenti, con la promulgazione della legge sulla violenza domestica nel 2016 e grazie all’attenzione mediatica provocata da alcuni casi emblematici. Tuttavia, esaminando il linguaggio dei giudici nelle sentenze di divorzio, D’Attoma mette in evidenza come gli strumenti di protezione offerti dalla nuova legge rimangano in qualche misura limitati, dato che l’obiettivo primario per il legislatore rimane quello di salvaguardare l’integrità del nucleo familiare, nel nome di valori quali armonia familiare e stabilità sociale, talvolta anche a detrimento degli interessi dei singoli individui.
Dulcis in fundo, chiude la rassegna il saggio di Maurizio Paolillo, l’unico non incentrato sulla Cina contemporanea, che fornisce una preziosa disamina storica nella costruzione dello spazio del giardino tradizionale, evidenziandone gli elementi di continuità così come quelli di trasformazione. Facendo ampio uso di fonti dirette, come ad esempio poesie o memorie di letterati, Paolillo evidenzia i complessi linguaggi alla base dell’ideazione artistica dei giardini tradizionali cinesi, evidenziando in particolare la concezione del giardino come microcosmo, ovvero spazio ristretto in cui viene riprodotto in piccolo lo spazio naturale, e la successiva evoluzione del giardino come “segno” culturale, con la sua complessa rete di riferimenti simbolici pienamente apprezzabili solo da coloro che ne conoscevano a fondo i valori estetici.
Immagine: recinti, foto di Felix Wong.