Chiaramente, la contrapposizione tra campagna e città è una delle modalità principali attraverso le quali prendiamo coscienza di una parte centrale della nostra esperienza e delle crisi della nostra società. Ma, stando così le cose, la tentazione è quella di ridurre la varietà storica delle forme d’interpretazione a quel che si dice una serie di simboli, di archetipi: di astrarre perfino questi fenomeni così evidentemente sociali, e conferire loro uno status primariamente psicologico e metaforico.1)Raymond Williams, The Country and the City (Londra: Hogarth Press, 1985), 289. I versi che danno il titolo al saggio si trovano in Xu Qiang 许强, Luo Deyuan 罗德元, Chen Zhongcun 陈仲村 (a cura di), 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan 1985-2005年中国打工诗歌精选 [Il meglio della poesia operaia cinese dal 1985 al 2005] (Zhuhai: Zhuhai chubanshe, 2007), 139. Questa e le seguenti traduzioni da fonti in lingue diverse dall’italiano sono ad opera dell’autore.
Raymond Williams mette in guardia da un rischio sempre incombente, specialmente per chi si occupi di letteratura: accettare acriticamente la visione per cui città e campagna siano due poli opposti e contrapposti, nel mondo reale come in quello della rappresentazione letteraria, è una semplificazione di dinamiche complesse all’interno delle quali le distinzioni sono spesso molto meno nette di quanto appaiano. D’altro canto, però, è innegabile che la dimensione rurale e quella urbana – e gli immaginari a esse legati – abbiano dato vita a una dialettica di durata secolare, che costituisce terreno fertile tanto per gli studi sociologici, quanto per quelli letterari.
Obiettivo di questo contributo è mostrare come, nel contesto cinese, il gruppo sociale dei lavoratori migranti (nongmingong农民工), nella sua condizione di sospensione e continua tensione tra il mondo rurale e quello urbano, incarni la dialettica campagna-città di cui sopra e offra un’occasione per una sua ri-problematizzazione che vada al di là degli stereotipi e delle semplificazioni.
1. Il limbo tra campagna e città: hukou 户口 e villaggi urbani
I lavoratori migranti costituiscono un’importante parte del “nuovo” proletariato emerso dopo l’inizio dell’epoca delle Riforme e aperture: a partire dagli anni Ottanta, 277 milioni di persone2)Jenny Chan e Mark Selden, “The Labour Politics of China Rural Migrant Workers”, Globalizations, 14, 2, 2017, 259. si sono spostate dalle aree rurali alle città in cerca di migliori opportunità di lavoro. Inizialmente, le mete più ambite per questi flussi migratori furono alcune città nella provincia costiera del Guangdong: Dongguan, Guangzhou e soprattutto Shenzhen.3)Per una panoramica storica più dettagliata, rimando all’articolo di Paola Iovene e Federico Picerni, “Chinese Workers’ Literature in the 20th and 21st Centuries”, Oxford Research Encyclopedia of Literature (Oxford University Press), 2022, e alla prefazione di Qin Xiaoyu 秦晓宇 e Eleanor Goodman, Iron Moon: An Anthology of Chinese Migrant Worker Poetry (Buffalo: White Pine Press, 2016).
Nonostante l’immenso contributo che i lavoratori migranti hanno fornito alla crescita economica cinese negli ultimi quarant’anni, specialmente sotto forma di manodopera precaria e a basso costo, il sistema di registrazione demografica cinese (hukou 户口) continua a impedire legalmente ai lavoratori provenienti dalle campagne di stabilirsi completamente e definitivamente in città. Introdotto ufficialmente nel 1958, il sistema hukou nella prima formulazione prevedeva la registrazione di ciascun cittadino a una comune o a una unità di lavoro (danwei 单位) e l’assegnazione dello status di lavoratore agricolo (nongye 农业), o non agricolo (fei nongye 非农业). L’accesso ai servizi dipendeva proprio da queste forme di classificazione: a chi lavorava in città, la registrazione a un’unità di lavoro garantiva l’accesso a vitto, alloggio, assicurazione e istruzione; mentre nelle aree rurali la fornitura di questi servizi basilari era delegata alla comune di appartenenza. Il tratto più importante – almeno ai fini di quest’intervento – del sistema hukou, però, è probabilmente la sua facoltà di limitare la mobilità della popolazione: una misura finalizzata a garantire l’esistenza di un nucleo di lavoratori agricoli in grado di fornire sostentamento alle aree urbane in rapida crescita.
Con l’inizio dell’epoca di Riforma e Apertura (1978), ai contadini fu permesso di dar vita a un mercato del lavoro nelle campagne, a patto che a ciò non corrispondesse uno spostamento al di fuori delle località di registrazione. Parallelamente, nelle città, dopo decenni nei quali i lavoratori avevano goduto di un impiego garantito a vita, furono introdotti i contratti a tempo determinato e la pratica del licenziamento: il lavoro tornava a costituire una merce di scambio. Con la creazione delle Zone Economiche Speciali e il conseguente aumento degli investimenti stranieri, furono poi sempre di più le persone che, attratte dalle nuove opportunità di lavoro offerte dalla città, lasciarono le campagne e, sfruttando la porosità del sempre vigente sistema hukou e la connivenza dei funzionari locali, accrebbero le fila della forza lavoro urbana. In quest’ottica di mercificazione del lavoro, la campagna si configurò come una “safety net”,4)Jane Hayward, “Reorganising Chinese Labour: The Establishment of the Household Registration System”, in Ivan Franceschini e Christian Sorace (a cura di), Proletarian China: A Century of Chinese Labour (Londra, New York: Verso, 2022), 297. un ipotetico luogo di ritorno per coloro che avessero terminato il proprio onorato servizio nelle fila del precariato.
Attualmente, nonostante vari tentativi di riforma succedutisi negli anni, lo hukou continua a creare disparità di trattamento tra migranti e residenti: i lavoratori provenienti dalle campagne, e in special modo i più poveri e meno scolarizzati, si vedono garantiti solamente i servizi più basilari senza prospettive di vera e duratura integrazione (è significativo, a questo proposito, che l’accesso all’istruzione sia in alcuni casi precluso ai figli dei migranti).5)Hayward, “Reorganising Chinese Labour: The Establishment of the Household Registration System”, 291-300.
A livello legale, dunque, sono le contraddizioni e le criticità del sistema hukou a perpetuare la continua tensione tra rurale e urbano che caratterizza l’esistenza dei lavoratori migranti. Da un punto di vista prettamente sociale, e potremmo dire spaziale, sono invece i villaggi urbani (chengzhong cun 城中村) che, caratterizzandosi come siti di transizione tra campagna e città, divengono in certo modo emblemi di un’integrazione difficoltosa, nonché dell’esistenza di una viva dialettica tra la dimensione urbana e quella rurale.
Con il termine “villaggi urbani” ci si riferisce a insediamenti originariamente collocati alla periferia delle grandi città cinesi e successivamente incorporati nel processo di frenetica espansione delle città stesse: nella maggior parte dei casi, essi rappresentano l’unica alternativa possibile per chi, giungendo dall’esterno, si scontra con alloggi a prezzi inaccessibili e con l’astio dei residenti cittadini. Proprio in virtù della loro accessibilità, dettata anche da standard strutturali significativamente inferiori rispetto a quelli vigenti altrove, i villaggi urbani accolgono la stragrande maggioranza del precariato di provenienza rurale, che vi si stabilisce in attesa di potersi garantire un futuro pienamente urbano che, spesso e volentieri, non si concretizza mai. Le scarse condizioni di vita contribuiscono a creare l’immagine dei villaggi urbani come di indesiderate escrescenze, sacche tumorali all’interno di un tessuto urbano altrimenti sano e lanciato verso il progresso. Le autorità hanno spesso sfruttato l’occasione offerta dalla cattiva reputazione che contraddistingue i villaggi urbani per attuare campagne di “pulizia” (qingli 清理), demolirne alcuni e sfrattare migliaia di migranti – tutto ciò a dispetto dell’apparente concordia, in seno alla comunità accademica e tra gli osservatori esterni,6)Jane Hayward e Małgorzata Jakimów, “Who Makes the City? Beijing’s Urban Villages as Sites of Ideological Contestation”, Positions: Asia Critique 30, 3, 2022, 455-477. nel sottolineare i benefici che questi spazi di transizione arrecano al processo di urbanizzazione, tra i quali figura la fornitura costante di lavoro a basso costo su cui si regge la crescita della città. Di fatto, dunque, i villaggi urbani fanno spesso geograficamente parte della città senza integrarvisi né dal punto di vista sociale, né da quello politico. Eppure, come sottolineano Hayward e Jakimów, è proprio nei villaggi urbani che si gioca una partita decisiva del conflitto per la produzione della città come spazio politico e culturale: i migranti, anche attraverso l’istituzione di alcune ONG, reclamano il proprio diritto a partecipare attivamente alla costruzione della città come spazio di convivenza comune sulla base del contributo che essi forniscono a livello materiale – con l’immane mole di lavoro manuale che svolgono – e a livello culturale tramite una notevole varietà di produzioni artistiche e letterarie (tra le quali la poesia).7)Hayward e Jakimów, “Who Makes the City? Beijing’s Urban Villages as Sites of Ideological Contestation”, 471.
Quest’ultimo punto giova a ricordare che la città non è affatto uno spazio monolitico e privo di contraddizioni, bensì un terreno sul quale ha luogo una costante lotta per la legittimità nella ridefinizione dei suoi stessi confini e connotati. Una caratteristica – quella eminentemente sociale, e perciò contraddittoria e conflittuale – propria tanto della città (sospirata meta per i migranti) quanto della campagna (che è invece punto di partenza), al netto delle rappresentazioni nostalgiche e idilliache che se ne trovano nella poesia dei nongmingong.
Lo status dei villaggi urbani come luoghi “di mezzo”, spazi geografici e sociali tesi tra due dimensioni ugualmente reali e problematiche – la città a cui i migranti si affacciano e sulla quale reclamano il proprio diritto; e la campagna dalla quale provengono – conferisce dunque ulteriore legittimità all’esperienza dei lavoratori migranti come chiave d’accesso a una più reale comprensione della relazione tra la dimensione urbana e quella rurale. Nei paragrafi successivi cercheremo di comprendere come le due dimensioni sopracitate, e il rapporto che tra loro si instaura, vengano articolati nella produzione poetica dei nongmingong.
2. Campagna e città nella poesia dei lavoratori dagong 打工8)Letteralmente: “lavorare alle dipendenze di qualcuno”, ma con il termine – il più utilizzato quando si parla della poesia scritta da lavoratori migranti – ci si riferisce primariamente alla precarietà del lavoro da essi svolto.
2.1 Una città ostile
Non è questa la sede per fornire un giudizio estetico sulla poesia dagong come forma letteraria, né per inserirsi in un dibattito sull’opportunità di conferire alla poesia dei lavoratori migranti una consacrazione a pieno titolo. È però indubbio, al di là di qualsivoglia giudizio di valore, che i versi dei dagong possano e debbano leggersi come testimonianze dell’esperienza di vita di chi li scrive, e che, come tali, “forniscono un resoconto di prima mano del livello di estrema alienazione industriale e di ingiustizia che l’individuo deve sopportare in nome della crescita economica”.9)Sun Wanning, Subaltern China: Rural Migrants, Media and Cultural Practices (Lanham: Rowman & Littlefield, 2014), 164. A fornire la cornice per l’immaginario di sfruttamento e svilimento che caratterizza la poesia dagong è l’ambiente cittadino, imponente, soverchiante e minaccioso:
Il sole inonda lentamente questo complesso d’uffici
in cui io mi trovo, la luce corrode silenziosamente
il cemento armato sulla mia testa. Dovrebbe sapere
ch’è tutto uno sforzo vano, che i grattacieli della città
nascono più in fretta dei figli del secolo
Se ti è scomodo star seduto, guarda lontano dalla finestra
ma tieni presente che il mio lontano son solo 50 metri, e se vuoi lasciar andare lo sguardo
rimbalzerà contro lo sguardo di rimando del grattacielo di fronte
farà male
ci sono sguardi anche dall’abisso profondo 50 metri tra i grattacieli
sono gli uomini ragno
Può pure essere che non sappiano di chiamarsi così
eppure, vivono proprio come ragni
edifici di decine di piani, corde robuste a formare semplici reti
e loro che v’oscillano avanti e indietro
puliscono il vetro, curano la facciata
il vento soffia, perpendicolare ai loro cuori
e alla loro vita. Cavalcano i grattacieli come fossero le onde del mare
è un’occupazione nata pericolosa, questa
un’intera esistenza negli abissi dei cieli della città a oscillare avanti e indietro
cos’è questo, se non un uomo ragno?
Il vetro gli uomini ragno lo puliscono bene, eppure loro sono lerci
devono padroneggiare abilità di base
per esempio scordarsi dei piani al di sotto di loro, della trasparenza del vetro
queste sono le virtù fondamentali dell’esistenza da uomo ragno, le giuste abilità
c’ho provato con costanza, ma mai m’è riuscito di guardarne uno negli occhi
solo di vedere attraverso il vetro i loro arti floridi
e protesi, con le ventose appiccicate strette strette alla superficie di lavoro
che sono, se non uomini ragno?
Sospesi nel vento della città, inclemente come un coltello
cosa resta loro, se non divenire uomini ragno?10)Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 236-7.
Il componimento, opera di Han Xin 韩歆 e intitolato “Uomini ragno”(zhizhu ren 蜘蛛人), è evidentemente un ritratto dei lavoratori che si occupano della manutenzione degli edifici, passando gran parte delle proprie giornate sospesi tra i grattacieli. La città appare immediatamente come un luogo inospitale: quando anche l’elemento di naturalità rappresentato dalla luce dovesse scalfire il cemento armato, lo sforzo verrebbe vanificato dalla velocità con la quale la città cresce e si espande, sottolineata dal commento ironico della prima stanza – un commento che sembra paragonare la città a un organismo vivente che si riproduce a velocità anomala, così come si replicano i virus o come crescono le neoplasie. Lo sguardo dell’osservatore si perde in un dedalo d’ostacoli, rimbalza indietro e causa dolore: proprio negli “abissi” creati dai grattacieli “alti decine di piani” sono sospesi i lavoratori, come ragni che tessono la propria tela, nello svolgimento di “un’occupazione nata pericolosa”.
Di fatto, l’imponenza della città esalta la piccolezza del lavoratore e la precarietà della sua esistenza, totalmente identificata con il lavoro – precario, s’intende – che si trova a svolgere, e questo principio viene ribadito e portato all’estremo in “Vivo come un cane” (Gou yiyang de shenghuo 狗一样的生活):
A Pechino va bene se non hai figli
ma di certo non puoi non avere un cane
in quest’epoca dove s’adorano gli animali domestici
se sei un giovane d’un’altra provincia, è molto più facile
per un cane trovare una casa dove tornare, che per te
Nel brillante riflesso della vernice sulle automobili
vedo la mia giovinezza assottigliarsi
in un’inversa proporzione con la fioritura della città
e solo dalla voce di chi controllava il mio permesso di soggiorno ho capito
quanto inerme fosse il dialetto
nel regno del cinese mandarino
In questo momento, in un giardino d’altri
sono sbronzo da non capir più nulla
questo panorama meraviglioso non è certo mio
la sensazione di questo momento, quella solo è mia
In questo momento, una frase
fa capolino tra i miei versi
non l’ho mai scritta prima, non così
e non posso più non scriverla, questa frase
che mi fa esitare indicibilmente, che mi abbatte oltre ogni dire –
a Pechino vivo come un cane
e come un uomo sopravvivo11)Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 134-5.
La città assume tratti ancor più esplicitamente malevoli e respingenti: più adatta agli animali domestici che ai bambini, e di certo inospitale per chi provenga da fuori (stanza 1); i suoi luoghi sono “d’altri” – e non pare fuori luogo la lettura di quest’amara constatazione nell’ottica della lotta per la conquista, da parte dei migranti, di un proprio diritto alla città di cui al paragrafo precedente; l’esistenza urbana del lavoratore è, senza mezzi termini, più misera di quella d’un cane. A colpire maggiormente è tuttavia l’immagine della seconda stanza: il poeta-lavoratore vede – significativamente attraverso il riflesso sulla vernice delle automobili, simbolo per antonomasia della frenesia della metropoli – la propria giovinezza giungere al termine (la mia traduzione è «assottigliarsi», ma il carattere cinese shou 瘦 significa anche “dimagrire”, il che rende ancora più evidente la privazione, anche corporea, nella quale i lavoratori dagong spesso vivono) e, contemporaneamente, la crescita della prosperità della città, che basa il suo slancio anche sulle esistenze sommerse di classi subalterne come quella dei lavoratori migranti.
Comprensibilmente, i migranti non sviluppano alcun senso di appartenenza all’ambiente urbano, sinonimo di sfruttamento e alienazione:
[…]
quel che manca si chiama senso d’appartenenza
sebbene della zona industriale conosca ogni albero e ogni filo d’erba
mi sia abituato a comunicare in un cantonese genuino
e possa sciorinare d’un fiato tutti e trentuno i nomi delle fabbriche di questo distretto
tuttavia, questo luogo non è parte del mio futuro
mi trovo nella zona industriale, e tuttavia
vivo costantemente in un luogo a mille chilometri da qui
[…]12)Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 60. Il titolo della poesia è “Nel distretto industriale (ren zai gongye qu 人在工业区).
La città, concepita inizialmente come una meta, diviene nulla più che una parentesi nella vita del lavoratore, escluso dalla città stessa e quindi costantemente proiettato in un’altra dimensione distante “mille chilometri”. Tale dimensione assume spesso i tratti di un contesto rurale, identificato spesso dall’autore come la propria terra natia. Il paragrafo successivo contiene una riflessione su quali siano alcuni dei tratti attribuiti a questa dimensione alternativa.
2.2 Una campagna alla quale (non) tornare
La lontananza pare essere un requisito indispensabile per una qualunque ruralità alternativa al doloroso presente cittadino. Lungi dall’essere una questione puramente spaziale, tuttavia, la distanza tra la rappresentazione della campagna e quella della città si rivela essere complessa e stratificata:
Una rana
nel corpo le scorre il sangue della campagna
l’anima, invece, è in città
danza in catene
cemento grandiosi edifici foreste città
s’ergono sulla caduta della terra
s’ergono sulle dolorose memorie di una rana
che ne è di quelle increspature sull’acqua?
di quei prati delle risaie
e della casa ch’io sognavo?
[…]
Questi versi di Liu Hongxi 刘洪希, tratti da Una rana in città13)Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 122. Il titolo dell’originale cinese è yi zhi qingwa zai chengshi li tiaoyue一只青蛙在城市里跳跃. (un componimento struggente, nel suo complesso, per il modo in cui tratteggia la condizione del lavoratore migrante al livello più basso della società), aggiungono alla lontananza una dimensione temporale: la campagna è viva nella memoria del lavoratore, che è costretto a ricostruirne ogni volta l’immagine, come di qualcosa che appartenga al passato molto più di quanto non appartenga al presente.
Nemmeno l’aggiunta all’equazione di una componente temporale sarebbe tuttavia sufficiente per fornire un quadro completo. A tal proposito, è utile riprendere il componimento citato nel titolo, opera di Li Mingliang 李明亮:
Sono le cinque e 00 del mattino, e questa è Shenzhen
Le stelle sono ancora adagiate nell’abbraccio della rugiada
sono le cinque e 00, il suono della sveglia perfora le pareti
e squarcia chi dorme sulle stuoie,
lo taglia a metà
Tenete il passo! Per l’ordine, lottate!
i comandi del capo
ci cacciano al lavoro
ogni giorno alle cinque e 20
a iniziare una lotta di 15 ore
contro le macchine
Indosso lentamente la mia uniforme
non mi sono ancora lavato i denti, la faccia
ma che importa
ho già perso l’abitudine di cacare al mattino presto
e mi son pure abituato a non far colazione
Do un’occhiata all’orologio
mancano ancora 900 secondi alle 5 e 20
mi posso strozzare con il fumo d’una sigaretta
Sbadiglio
la strada che porta alla fabbrica è costellata
di luci brillanti come la neve che mi pugnalano gli occhi
il suono sommesso d’una lacrima mi dice
sono passate da poco le cinque e 00 del mattino, e questa è Shenzhen
lontanissima dal tuo piccolo villaggio di montagna nel sud dello Anhui14)Xu, Luo e Chen, 1985-2005 Zhongguo dagong shige jingxuan, 139. Titolo dell’originale cinese: zhe shi lingchen wudian lingling fen de Shenzhen 这是凌晨五点零零分的深圳.
Un immaginario violento e il ricorso a una retorica bellica – entrambe caratteristiche condivise da molta poesia dagong – conducono alla struggente ultima stanza, citata anche nel titolo. Essa è un’amara constatazione, da parte dell’autore, della distanza di Shenzhen dalla propria terra natia: significativamente, però, non è fornito alcun particolare relativo al villaggio dello Anhui, che rimane avvolto da una nube d’indeterminatezza – come accade, del resto, anche nel passo citato precedentemente, nel quale è descritto un generico paesaggio rurale che potrebbe di fatto trovarsi ovunque, e che si caratterizza immediatamente nella mente del lettore come il perfetto contraltare a un presente vissuto “in catene”.
Credo vi siano sufficienti elementi per dedurre che la lontananza di cui si parla non sia da intendersi solamente a livello spaziale: quanto si dice nella terza stanza a proposito dei cambiamenti d’abitudine indica una distanza su un piano molto più profondo ed essenziale tra la dimensione urbana e quella rurale, quasi che l’essenza vera e propria dei due universi sia inconciliabile – anche da questo, in fin dei conti, deriva la sofferenza del migrante. Rimane ora da stabilire come, nella poesia dagong, due universi così apparentemente distanti tra di loro possano convivere e dialogare: in altri termini, occorre individuare il dispositivo psico-letterario che funge da ponte tra campagna e città.
3. Nostalgia e realtà
Nella poesia dei lavoratori migranti, il trait d’union tra città e campagna è la nostalgia. Una nostalgia che, tuttavia, va “problematizzata e approcciata criticamente”,15)Federico Picerni, “Strangers in a Familiar City: Picun Migrant Worker Poets in the Urban Space of Beijing”, International Quarterly for Asian Studies 51, 1/2, 2020, 158. per documentarne dinamiche e limiti.
A questo proposito è utile riprendere il discorso aperto con l’esempio tratto da “Una rana in città” e sottolineare, con Linda Hutcheon, come l’entrata in gioco della dimensione temporale “renda possibile un’interiorizzazione della nostalgia, che diviene così una condizione dello spirito”:16)Linda Hutcheon, “Irony, Nostalgia and the Postmodern”, in Raymond Vervliet (a cura di), Methods for the Study of Literature as Cultural Memory. Proceedings of the XVth Congress of the International Comparative Literature Association “Literature as Cultural Memory” (Amsterdam: Brill Rodopi, 2000) 193-4. il tempo, a differenza dello spazio, è irreversibile, e di conseguenza la nostalgia per ciò che è passato è incurabile. Davanti all’impossibilità di un vero ritorno, il nostalgico (come nel componimento citato poco sopra) si rifugia nella ricostruzione della propria terra natia attraverso la memoria – la quale, tuttavia, “seleziona e sanifica”,17)Hutcheon, “Irony, Nostalgia and the Postmodern”, 195. producendo dunque una proiezione non realistica dell’oggetto del desiderio. La nostalgia è in questo senso immaginaria, nel suo consistere “non tanto in uno sforzo per dar vita a un passato irrecuperabile, quanto nella creazione di un passato immaginario da sostituirsi al presente”.18)David Der-wei Wang, Fictional Realism in Twentieth Century China: Mao Dun, Lao She, Shen Congwen (New York: Columbia University Press, 1992), 249.
Il passato rurale, alternativa al presente per gli autori dagong che ce lo restituiscono, sul piano letterario, attraverso i filtri della memoria e della nostalgia, si caratterizza dunque come un cronotopo, ovvero un universo nel quale “le indicazioni di spazio e di tempo si fondono in un tutto concreto e ponderato”:19)Michail Bachtin, Dialogic Imagination. Four Essays, trad. Di Michael Holquist (Austin: University of Texas Press, 1981), 84. esso costituisce un set di coordinate spazio-temporali20)Wang, Fictional Realism in Twentieth Century China, 252. in cui chiunque condivida l’insoddisfazione nei confronti dell’esperienza della città possa riconoscersi, al di là delle specificità dei luoghi di provenienza. In altri termini, a trovare spazio nel cronotopo della campagna natia, attraverso un processo che Bachtin chiama “inversione storica”,21)Bachtin, Dialogic Imagination, 147. non è tanto l’elemento autobiografico bensì l’ideale di vita precluso a chi vive e lavora in città: in questo senso – poiché, cioè, il cronotopo rurale è costruito negativamente a partire dal presente urbano – si può affermare che “parlare della campagna è un altro modo per parlare della città”.22)Picerni, “Strangers in a Familiar City”, 157.
Le rappresentazioni nostalgiche della dimensione rurale rischierebbero, come un velo di Maya che nasconde la verità, di farci incappare proprio nel rischio di accettare acriticamente la contrapposizione tra una città ostile e una campagna idilliaca con cui s’era aperto questo contributo. Il primo passo verso una maggiore consapevolezza di quale sia realmente la campagna con la quale la città dialoga nell’esperienza dei lavoratori migranti consiste, a mio parere, proprio nel comprendere la nostalgia nella sua natura immaginaria, ovvero come riferita ad un oggetto di desiderio irraggiungibile perché, di fatto, mai esistito nei termini nei quali lo troviamo rappresentato.
Da questa comprensione consegue una lettura più critica e attenta dell’opera poetica dei lavoratori dagong e dei frammenti di ruralità in essa contenuti, uno sforzo avvallato anche dal fatto che esistano in questa stessa opera poetica degli indizi che permettono di abbozzare un quadro della campagna più vicino alla realtà:
[…]
Lì, una moglie leva il capo in attesa, un figlio reclama pietosamente cibo
i bocconi di cibo che tu porti dalla città
riscalderanno una fugace sera, e nell’oscurità dell’alba
i corvi ancora dispiegheranno le loro ali
e torneranno in stormi verso la città
E io
che li seguo da dietro
sono il più stupido tra tutti loro23)Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 273. Titolo dell’originale cinese: huangun zhong de mingong 黄昏中的民工.
Questi versi, tratti da “Lavoratori al crepuscolo”, opera di Qing Lang Li Han 晴朗李寒, sono significativi proprio perché dipingono un’immagine assai poco idilliaca del ritorno al nido famigliare, collocato al di fuori della città. Innanzitutto, il nostos è solamente temporaneo – si prospetta già il ritorno in città il mattino seguente, e la sera è definita come “fugace”, quindi di breve durata. Se ciò non bastasse, l’atmosfera costruita nelle due stanze qui riportate è difficilmente conciliabile con l’idea di una campagna tutta umanità e innocenza: il figlio “reclama pietosamente cibo”, nutrimento che proviene dalla città e che appare così disperatamente necessario da incrinare immediatamente l’illusione di una campagna nella quale le condizioni di vita sono nettamente migliori di quanto non siano in città – e se davvero lo fossero, per quale ragione così tanti lavoratori deciderebbero di spostarsi verso la città?
In effetti, come nota Williams:
c’è ben poco di ‘naturale’ o di ‘etico’ nell’economia rurale [contrapposta all’aggressiva crudeltà del nuovo capitalismo]. La struttura sociale all’interno della quale si sviluppa l’economia agricola è brutale almeno quanto tutto ciò che si sperimenta successivamente.24)Williams, The Country and the City, 37.
In altre parole, il tessuto sociale nelle aree rurali è contraddistinto dalle stesse relazioni di potere e di sfruttamento che si ritrovano negli spazi urbani. Ciò è vero in special modo per i lavoratori migranti che, come si evince anche dallo stralcio di poesia citato appena sopra, non appartengono certo alle classi economicamente più agiate e che, altrettanto certamente, non godono del privilegio di una vita contemplativa in campagna. L’ingresso nell’ambiente urbano e la conseguente sensazione di sradicamento – tanto geografico quanto sociale25)Wang, Fictional Realism in Twentieth Century China, 252. – non fanno che rendere manifeste le dinamiche di potere nelle quali i lavoratori migranti sono inseriti anche nel loro contesto di provenienza.
È quindi legittimo ipotizzare che la proiezione nel passato di una ruralità alternativa al presente urbano – attraverso la nostalgia immaginaria di cui sopra – non costituisca solamente un rifugio dal proprio presente, ma anche un meccanismo di difesa dalla consapevolezza delle radici più profonde della propria condizione: la creazione di “confronti superficiali per evitarne di reali”.26)Williams, The Country and the City, 54.
Il funzionamento di questo meccanismo, comunque, non è perfetto, e il rimosso – nel senso psicanalitico del termine – tende sempre e comunque a riemergere, anche nelle produzioni artistiche e letterarie. Una prova in questo senso mi pare si ritrovi anche nel fatto che quasi tutti gli esempi riportati in questo contributo ritraggano il lavoratore – spesso e volentieri alter ego dell’autore della poesia – come un animale: un ragno, un cane, una rana e un corvo. Sebbene, di per sé, l’utilizzo di metafore animali non si traduca automaticamente in una connotazione negativa dell’umano, tutti gli animali utilizzati qui concorrono inevitabilmente a trasmettere un senso di vulnerabilità, di piccolezza e di inettitudine: il ragno è infimo ed impotente di fronte alla torreggiante città che lo circonda; il cane è immagine di una vita passata a raccogliere briciole altrui ai margini della società (con buona pace della fedeltà); la rana incarna la frenesia e la mancanza di grazia dell’esistenza in subalternità; il corvo è legato a cattivi auspici e alla simbologia della morte. Il ricorso a metafore animali che sviliscono il lavoratore e ne sottolineano la vulnerabilità e l’impotenza – concetti che meriterebbero una disamina più approfondita e critica – pare essere una costante, un tratto comune ai componimenti ad argomento urbano e alle proiezioni nostalgiche della campagna. Ciò sembrerebbe avvalorare l’interpretazione di tali metafore in senso psicanalitico, come segni di ciò che è rimosso, ovvero della consapevolezza da parte del lavoratore della condizione di subalternità come elemento caratterizzante la propria esistenza, al di là di campagna e città.
4. Note conclusive
Il rapporto tra la dimensione rurale e quella urbana è spesso concettualizzato come una contrapposizione netta, e la poesia dagong non fa eccezione, nel suo costruire nostalgicamente l’immagine idilliaca di una campagna del passato, in evidente antitesi con la città dolorosamente presente sulla pelle del lavoratore.
Tuttavia, la “vivisezione” (mi si perdoni il termine, e si tenga presente che in questo contributo l’impresa resta a una fase iniziale) della nostalgia, nella funzione di ponte tra rurale e urbano che essa riveste nella poesia dei lavoratori migranti, svela già l’esistenza di una complessità e di una stratificazione che derivano dal fatto che tanto la città quanto la campagna siano dimensioni primariamente sociali, e che come tali prendano forma dalle relazioni tra coloro che le abitano: in quest’ottica, il rapporto che lega una dimensione all’altra, più che essere una contrapposizione, pare configurarsi come una compenetrazione – il che, intuitivamente, significa che i confini dell’una e dell’altra siano molto meno netti.
La pervasività dei rapporti sociali, dunque, travalica qualunque confine tra campagna e città e costituisce il fondamento sul quale prende forma la compenetrazione tra queste due dimensioni del vivere comune. Il fattore decisivo nel determinare l’esperienza che il soggetto fa di questo tessuto di relazioni sociali, più della collocazione urbana o rurale, pare quindi essere l’appartenenza di classe: il lavoratore migrante è nella maggior parte dei casi subalterno in città come lo era in campagna, e conduce un’esistenza marginale, di alienazione e sfruttamento nell’uno e nell’altro caso – e, come detto in precedenza, la consapevolezza della propria condizione, apparentemente rimossa, riemerge spesso e non può sfuggire a una lettura critica della poesia dagong. Alla luce di queste riflessioni, le difficoltà incontrate dai lavoratori migranti in fase di adattamento alla vita in città non paiono più imputabili a una netta “contrapposizione di essenze” tra la dimensione rurale e quella urbana, bensì forse all’elemento di continuità tra le due: l’appartenenza alla classe subalterna, che rende oggi difficile trovare il proprio posto tanto in campagna, quanto in città.
In definitiva, l’esperienza dei lavoratori migranti, letta attraverso la loro produzione poetica, è insieme un monito che allontana il rischio di semplificazioni eccessive che, nella problematizzazione del rapporto tra campagna e città, non tengano conto della loro natura sociale e della complessità che da essa deriva; e un terreno fertile per ricavare coordinate utili a comprendere i principi che regolano il funzionamento della società cinese contemporanea nel suo complesso.
Immagine: dcmaster, creative commons.
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Matteo Garbelli (matteo.garbelli@unior.it) è dottorando in letteratura cinese contemporanea presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. La sua ricerca si concentra sulla poesia contemporanea cinese intesa tanto nella sua dimensione testuale, quanto in quella contestuale. Nello specifico, il suo progetto di ricerca riguarda la traiettoria personale e letteraria di alcuni poeti fuoriusciti dalla Repubblica Popolare dopo il 1989.
↑1 | Raymond Williams, The Country and the City (Londra: Hogarth Press, 1985), 289. I versi che danno il titolo al saggio si trovano in Xu Qiang 许强, Luo Deyuan 罗德元, Chen Zhongcun 陈仲村 (a cura di), 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan 1985-2005年中国打工诗歌精选 [Il meglio della poesia operaia cinese dal 1985 al 2005] (Zhuhai: Zhuhai chubanshe, 2007), 139. Questa e le seguenti traduzioni da fonti in lingue diverse dall’italiano sono ad opera dell’autore. |
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↑2 | Jenny Chan e Mark Selden, “The Labour Politics of China Rural Migrant Workers”, Globalizations, 14, 2, 2017, 259. |
↑3 | Per una panoramica storica più dettagliata, rimando all’articolo di Paola Iovene e Federico Picerni, “Chinese Workers’ Literature in the 20th and 21st Centuries”, Oxford Research Encyclopedia of Literature (Oxford University Press), 2022, e alla prefazione di Qin Xiaoyu 秦晓宇 e Eleanor Goodman, Iron Moon: An Anthology of Chinese Migrant Worker Poetry (Buffalo: White Pine Press, 2016). |
↑4 | Jane Hayward, “Reorganising Chinese Labour: The Establishment of the Household Registration System”, in Ivan Franceschini e Christian Sorace (a cura di), Proletarian China: A Century of Chinese Labour (Londra, New York: Verso, 2022), 297. |
↑5 | Hayward, “Reorganising Chinese Labour: The Establishment of the Household Registration System”, 291-300. |
↑6 | Jane Hayward e Małgorzata Jakimów, “Who Makes the City? Beijing’s Urban Villages as Sites of Ideological Contestation”, Positions: Asia Critique 30, 3, 2022, 455-477. |
↑7 | Hayward e Jakimów, “Who Makes the City? Beijing’s Urban Villages as Sites of Ideological Contestation”, 471. |
↑8 | Letteralmente: “lavorare alle dipendenze di qualcuno”, ma con il termine – il più utilizzato quando si parla della poesia scritta da lavoratori migranti – ci si riferisce primariamente alla precarietà del lavoro da essi svolto. |
↑9 | Sun Wanning, Subaltern China: Rural Migrants, Media and Cultural Practices (Lanham: Rowman & Littlefield, 2014), 164. |
↑10 | Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 236-7. |
↑11 | Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 134-5. |
↑12 | Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 60. Il titolo della poesia è “Nel distretto industriale (ren zai gongye qu 人在工业区). |
↑13 | Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 122. Il titolo dell’originale cinese è yi zhi qingwa zai chengshi li tiaoyue一只青蛙在城市里跳跃. |
↑14 | Xu, Luo e Chen, 1985-2005 Zhongguo dagong shige jingxuan, 139. Titolo dell’originale cinese: zhe shi lingchen wudian lingling fen de Shenzhen 这是凌晨五点零零分的深圳. |
↑15 | Federico Picerni, “Strangers in a Familiar City: Picun Migrant Worker Poets in the Urban Space of Beijing”, International Quarterly for Asian Studies 51, 1/2, 2020, 158. |
↑16 | Linda Hutcheon, “Irony, Nostalgia and the Postmodern”, in Raymond Vervliet (a cura di), Methods for the Study of Literature as Cultural Memory. Proceedings of the XVth Congress of the International Comparative Literature Association “Literature as Cultural Memory” (Amsterdam: Brill Rodopi, 2000) 193-4. |
↑17 | Hutcheon, “Irony, Nostalgia and the Postmodern”, 195. |
↑18 | David Der-wei Wang, Fictional Realism in Twentieth Century China: Mao Dun, Lao She, Shen Congwen (New York: Columbia University Press, 1992), 249. |
↑19 | Michail Bachtin, Dialogic Imagination. Four Essays, trad. Di Michael Holquist (Austin: University of Texas Press, 1981), 84. |
↑20 | Wang, Fictional Realism in Twentieth Century China, 252. |
↑21 | Bachtin, Dialogic Imagination, 147. |
↑22 | Picerni, “Strangers in a Familiar City”, 157. |
↑23 | Xu, Luo e Chen, 1985-2005 nian Zhongguo dagong shige jingxuan, 273. Titolo dell’originale cinese: huangun zhong de mingong 黄昏中的民工. |
↑24 | Williams, The Country and the City, 37. |
↑25 | Wang, Fictional Realism in Twentieth Century China, 252. |
↑26 | Williams, The Country and the City, 54. |