Nel 1999, con la costruzione di nove edifici volti a offrire un punto di vista critico sulla rapida espansione che ha investito la capitale cinese, l’artista Ai Weiwei 艾未未t rasforma Caochangdi 草场地, villaggio urbano situato nella periferia nord di Pechino, in una comunità culturale internazionale: non si tratta più soltanto di una “zona grigia legale” per lavoratori migranti in cerca di opportunità e privi di risorse provenienti da Hubei, Anhui e Sichuan,1)An Xiao Mina 安曉, “Art Village: A Year in Caochangdi”, Places Journal, maggio 2012. https://doi.org/10.22269/120507 ma di un distretto abitativo, artistico, ed espositivo per studenti, artisti internazionali e cinesi – questi ultimi perlopiù riconducibili alla categoria di “artisti migranti” (nonminggong yishujia 农民工艺术家) – che trovano nel villaggio situato tra il quinto anello e l’autostrada una comunità vitale in cui scambiare idee, produrre arte, ed elaborare una contro-narrazione al discorso statale. Lo spazio di Caochangdi può essere inteso, forse, come utopico: esso, anzi, sarebbe un eutopos, un “buon luogo” per chi lo abita, nel quale donne e uomini di estrazione, professione e nazionalità diversa vivono insieme, condividendo esperienze e producendo arte non sempre allineata alla visione governativa. Oggi, tuttavia, Caochangdi è davvero un outopos, un “non luogo”, ovvero uno spazio che, di fatto, non esiste più: nonostante una raccolta firme portata avanti nel 2011 abbia garantito a quest’area un periodo di relativa tranquillità dopo minacce di demolizione durate per anni,2)An, “Art Village: A Year in Caochangdi”. nel 2016 i residenti sono stati informati che avrebbero avuto solo tre giorni per trasferirsi. Il villaggio, che in base a quanto scritto sulla notifica ufficiale sarebbe stato costruito illegalmente, viene abbattuto nel 2017.3)Questa e altre informazioni biografiche relative alla vita e alla produzione di Vincent Zheng sono tratte da una mia intervista al regista non ancora pubblicata.
Il presente contributo s’interroga sulla possibilità che questo luogo creativo ormai andato distrutto continui a rappresentare, per qualche ex-residente, uno spazio ideale di resistenza al punto di vista di quel Governo che, promuovendo manovre urbanistiche finalizzate al profitto economico e al controllo politico, ne ha sancito la fine. Nel tentativo di esplorare, facendo ciò, i rapporti tra urbanizzazione e arte visiva, la presente indagine si concentra su un’opera cinematografica di Vincent Zheng 郑无边, “regista migrante” (nonmingong daoyan 农名工导演) che dal 2012 al 2016 vive e opera a Caochangdi. L’articolo combina informazioni raccolte tramite intervista a un’analisi della sua opera di maggior successo internazionale, il mediometraggio La pecora nera (2021), ed esplora così il rapporto che lega la demolizione del villaggio urbano ai drastici cambiamenti subiti dai protagonisti dell’opera. Attingendo in particolare allo studio che delinea lo sviluppo di una nuova estetica urbana portato avanti da Robin Visser,4)Robin Visser, Cities Surround the Countryside: Urban Aesthetics in Postsocialist China (Durham, NC: Duke University Press, 2010), 4. e all’articolo di Jane Hayward e Małgorzata Jakimów, rivelatore di come i villaggi urbani rappresentino “luoghi chiave di contestazione ideologica su cosa dovrebbe essere la città e a chi è destinata la vita urbana”,5)Jane Hayward e Małgorzata Jakimów, “Who Makes the City? Beijing’s Urban Villages as Sites of Ideological Contestation”, positions: asia critique, 30, 3, 2022, 455-477, abstract. Questa e le successive traduzioni di estratti provenienti da opere in inglese sono mie. il presente contributo prova a dimostrare che, nonostante la sua ambientazione parzialmente rurale, l’opera sia espressione di un’estetica urbana sviluppata dal regista anche e soprattutto in risposta alla distruzione di Caochangdi, esperienza che sembra averlo portato a una crescente consapevolezza del proprio ruolo nel fornire una prospettiva critica nei confronti della cultura dominante.6)Wanning Sun 孙皖宁, “Subalternity with Chinese Characteristics: Rural Migrants, Cultural Activism, and Digital Video Filmmaking”, 19, 2, 2012, 83-99, 98.
1. Vincent Zheng: regista migrante indipendente e autodidatta
Vincent Zheng (Panzhou, 1984) nasce e cresce nella Cina sudoccidentale, in un villaggio a minoranza Yi situato nella provincia di Guizhou. A differenza di altri registi più maturi e conosciuti con i quali condivide una rappresentazione documentaristica dei margini, Zheng non forma le sue competenze cinematografiche all’Accademia del Cinema di Pechino: prima di dedicare la sua vita alla settima arte e diventare a tutti gli effetti un regista migrante, sperimenta le professioni più disparate. Laureatosi in giornalismo, cerca lavoro nella città di Quanzhou 泉州, poi a Pechino: fa parte dell’eterogeneo gruppo dei “migranti rurali” (nonmingong 农名工) come tutti coloro che, pur avendo una “residenza familiare” (hukou 户口) registrata nel proprio luogo natale, vivono e sono impiegati altrove. Anche per questo, i suoi primi incarichi professionali sono eterogenei e perlopiù distanti dal mondo artistico: tra le sue tante occupazioni ricordiamo quella di operaio, di business planner e di agente pubblicitario. Se è all’università che incontra per la prima volta il cinema, imbattendosi nelle opere di Pasolini, Tarkovskij, Godard, Bergman, Antonioni, Bertolucci e Fellini – restando impressionato soprattutto dalle opere di quest’ultimo –, è solo dopo essere stato cameriere in una caffetteria di Pechino a tema cinematografico che inizia a girare i primi documentari, imprimendo su pellicola la vita della capitale, come fa in The Real Circus (Bu cunzai de maxituan 不存在的马戏团, 2013), e la realtà di aree rurali marginali, come avviene in The Grassland of Soul (Xinling caoyuan 心灵草原, 2012). Zheng fa parte di quella corrente di registi migranti autodidatti per i quali, con l’arrivo delle tecnologie e dei media digitali, è stato sempre più facile diventare “cineasti individuali” e aprire “nuovi spazi pubblici per la discussione di problemi e dilemmi sociali nell’era post-socialista”.7)Chris Berry e Lisa Rofel, “Introduction”, in Chris Berry, Lu Xinyu e Lisa Rofel (a cura di), The New Chinese Documentary Film Movement: For the Public Record (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2010), 10. Dopo una prima fase pechinese in cui il mondo audiovisivo è per lui soprattutto una passione, affitta uno spazio artistico-abitativo a Caochangdi, e inizia così a occuparsi di cinema a tempo pieno: è lì che incontra un gruppo di fotografi, musicisti, pittori, con i quali dal 2012 al 2016 scambia idee e condivide un percorso artistico e personale.
Quest’area della città, il cui nome ufficiale è Caochangdi International Art Village, coincide con uno dei tanti villaggi urbani intorno alla capitale che, ricordano Hayward e Jakimów, negli ultimi anni sono stati oggetto di un’opera di demolizione che si è fatta più sistematica a partire dal 2017. Una “pulizia” (qingli 清理) urbana che, facendo parte di una strategia governativa finalizzata a liberare Pechino da numerosi lavoratori migranti considerati come “popolazione di fascia bassa” (diduan renkou 低端人口),8)Hayward e Jakimów, “Who Makes the City?”, 455. ha profondamente influenzato chi questa “pulizia” l’ha subita. Ritengo che la distruzione di Caochangdi abbia rappresentato un momento importante nel percorso artistico di Zheng che, anche e soprattutto dopo questo evento, si è dedicato a ciò che Faye Ginsburg definisce “attivismo culturale”: un impegno volto a rispondere con la sua arte a strutture di potere che hanno cancellato o distorto gli interessi e la realtà di chi abitava quei luoghi.9)Faye D. Ginsburg, Lila Abu-Lughod e Brian Larkin, “Introduction”, in F. D. Ginsburg, L. Abu- Lughod and B. Larkin (a cura di), Media World: Anthropology on New Terrain (Berkeley: University of California Press, 2002), 1-38, 7.
L’articolo di Hayward e Jakimów, incentrato sul rapporto tra i villaggi urbani pechinesi e le performance culturali prodotte da chi li abita,10)Hayward e Jakimów, “Who Makes the City?”, 457. ci aiuta a comprendere la specificità del suo impegno.A differenza di quanto emerge dal loro studio, Zheng non è un lavoratore migrante inserito in specifiche organizzazioni non governative (ONG) e non corrisponde, quindi, in tutto e per tutto al profilo degli attivisti oggetto del sopracitato contributo. Pur essendo un artista indipendente senza agenzie e organizzazioni alle spalle, come altri artisti migranti Zheng attinge anche all’esperienza del villaggio urbano per parlare di coloro che vivono ai margini: è come se, anche dopo la sua demolizione, Caochangdi continuasse a rappresentare, per lui, “uno spazio di resistenza sottile a un’ideologia statale che nega il loro ruolo nella vita urbana, e cerca di renderli invisibili”.11)Hayward e Jakimów, “Who Makes the City?”, 457. Come vedremo dall’analisi del mediometraggio, incentrato sulle trasformazioni che investono una famiglia di pastori residenti nell’altopiano tibetano, nonostante l’ambientazione del film sia prevalentemente rurale, il regista fa dello spazio urbano, inteso soprattutto come “esperienza che coinvolge processi e interazioni tra le persone e il loro ambiente di vita”,12)Meiqin Wang 王美钦 e Minna Valjakka, “Urbanized interfaces: Visual arts in Chinese cities”, China Information, 29, 2, 2015, 139-153, 141. l’oggetto principale di questo lavoro, offrendo una visione critica a quel processo di urbanizzazione che racchiude e al tempo stesso trascende la vicenda documentata nella pellicola.
Il Tibet come Caochangdi: non-luoghi stravolti dal processo di urbanizzazione
Originario di un villaggio immerso nella Cina rurale, Zheng entra in contatto con le trasformazioni delle metropoli cinesi solo da adulto: fortemente colpito dal primo incontro con le grandi città e da quel processo di modernizzazione che giorno dopo giorno stravolge le zone agresti della sua infanzia, in un primo momento si dedica a documentari ambientati in aree rurali o in grandi metropoli, per poi dedicarsi, negli ultimi anni, a cortometraggi che evidenziano le contraddizioni insite nel passaggio dalla dimensione campestre a quella urbana.
Per comprendere il mediometraggio oggetto della presente analisi e la sua ambientazione nell’altopiano di Qinghai, è innanzitutto necessario far luce sulle vicende che legano il regista a questi luoghi: dopo il primo incontro con l’amico tibetano Nyngkar Tserang娘格才让, che lavora con lui in una caffetteria di Pechino e del film è co-sceneggiatore, Zheng si reca più volte in Tibet, a partire dal 2012: queste zone diventano per lui una seconda casa, e lo colpiscono al punto che, già in occasione del suo primo viaggio, la prateria tibetana e i suoi recinti di filo spinato diventano oggetto del documentario The Grassland of Soul.
Oltre a un legame con la zona che potremmo definire affettivo, il Tibet incarna, per l’autore, luoghi di confine martoriati da quel processo di urbanizzazione che, concretizzatosi a Pechino nella demolizione dei villaggi urbani, assume in queste zone forme non meno violente: nel 2018, infatti, i funzionari locali ordinano che l’albergo dell’amico Nyngkar Tserang, situato ai margini del lago Qinghai, sia demolito. Pur avendo ottenuto tutti i permessi, l’amico è quindi costretto a sgombere la struttura, che viene di lì a poco abbattuta. In questo senso, può essere utile ricordare che nel 2021 è ricorso il settantesimo anniversario dall’annessione dell’allora Stato indipendente del Tibet, un evento che ha dato modo alla politica di ribadire l’obiettivo di portare avanti la modernizzazione e l’urbanizzazione di queste zone, per passare “dalle tenebre alla luce, dall’arretratezza al progresso, dalla povertà alla prosperità, dall’autocrazia alla democrazia, dalla chiusura all’apertura”.13)Shen Hongbing 沈虹冰, Zhang Jingpin 张京品, “70 years on, Tibet embarks on new journey of modernization”, Xinhuanet, agosto 2021. http://www.chinadaily.com.cn/a/202108/18/WS611cd1a7a310efa1bd669a1d_1.html Come vedremo, tanto la demolizione di Caochangdi quanto quella della struttura alberghiera confluiscono indirettamente nel mediometraggio, che ci parla dello sviluppo urbano promosso da un Governo che, sostengono Wang e Valjakka, “dà priorità alla crescita del PIL rispetto al miglioramento delle condizioni di vita umane, avvantaggiando l’élite politica ed economica a spese della maggioranza.”14)Wang e Valjakka, “Urbanized interfaces”, 145.
La pecora nera è un mediometraggio che riscuote un buon successo internazionale: viene selezionato da più di venti festival cinematografici in tutto il mondo e ottiene numerosi premi, tra i quali spiccano il premio della giuria al diciannovesimo Festival internazionale Signes de Nuit (Parigi) e il premio eccellenza al quarto NextGen International Short Film Festival. Il racconto del film, ambientato nel 1999, descrive le vicende di una famiglia di pastori dell’altopiano di Qinghai residenti nei pressi di un villaggio in rapida trasformazione. A causa della malinconia che affligge il figlio più grande, Tenzin, i genitori, pastori dell’allevamento statale di pecore Stella Rossa, decidono di lasciare che il bambino tenga con sé un agnello nero come animale domestico, nonostante ciò sia proibito dal regolamento dell’azienda statale in cui lavorano. Tra le spettacolari inquadrature del bellissimo altopiano e i suoni vividi che lo animano, la narrazione segue la vicenda del ragazzino che, ormai adolescente, accudisce felice la sua pecora nera, anch’essa cresciuta, preparandosi a seguire le orme del padre. Per volere governativo, tuttavia, il ragazzo è ben presto costretto a lasciare la sua abitazione, a trasferirsi nel villaggio locale e a iscriversi a scuola per poter diventare, un giorno, funzionario: obbligato a separarsi dalla famiglia e dal suo animale domestico, Tenzin abbandona così i suoi pascoli e il futuro di pastorizia che la sua famiglia ha in serbo per lui. In sua assenza, la pecora è sottratta alla famiglia e viene data in dono al preside come carne da macello per poter pagare le spese scolastiche del ragazzino.
Nel film è possibile notare, innanzitutto, un approccio etnografico volto ad avvicinare il più possibile lo spettatore al Tibet, ai protagonisti della vicenda e alla loro cultura, tramite fotografie fortemente saturate, un ridotto numero di dialoghi, e un ampio utilizzo di suoni ambientali e di musiche tradizionali. Attraverso un approccio documentaristico che emerge anche dall’utilizzo di dialoghi in dialetto tibetano e dalla scelta di attori non professionisti, Zheng sembra voler sottolineare la crescente distanza tra due diverse immagini di Tibet: una più tradizionale, rurale, autentica, l’altra forzosamente “modernizzata”, e investita da politiche urbane, economiche e sociali che sembrano mirate a stravolgerne l’essenza.
Tra i tanti non-luoghi cui il Tibet rimanda, intesi come aree che necessitano di essere impresse sulla pellicola prima che il processo di modernizzazione le cancelli o le stravolga del tutto, è possibile intravedere, come ha confermato lo stesso regista, anche il villaggio urbano di Caochangdi, la cui distruzione ha rappresentato un evento di fondamentale importanza per il suo attivismo: il mediometraggio di Zheng presenta, da un lato, una rappresentazione mimetica di zone di confine la cui autenticità culturale sembra condannata a scomparire, dall’altro, racconta luoghi meravigliosi che, colpiti dal processo di urbanizzazione statale, diventano non-luoghi, ovvero spazi non più esistenti, almeno non nella loro forma originale.
Una pecora nera come simbolo di marginalità, resistenza e libertà
Questo approccio documentaristico non è casuale: come accade ad altri registi indipendenti, Zheng viene fortemente influenzato dal cinema internazionale, e in particolare dal neorealismo italiano, che a detta dello stesso regista rappresenta per lui un’importante fonte di ispirazione.15)Si fa qui riferimento alla sopracitata intervista. Riprese in esterni, attori non professionisti, campi lunghi, e una certa lentezza nella narrazione sembrano infatti volti a sottolineare, come per il cinema di Wang Bing 王冰, la centralità del rapporto tra il soggetto e lo spazio.16)Elena Pollacchi, “Spaces and Bodies: The Legacy of Italian Cinema in cContemporary Chinese Film-Making”, Journal of Italian Cinema & Media Studies, 2, 1, 2014, 7-21, 16. La materia della narrazione, come anticipato, supera i confini dell’altopiano di Qinghai fino ad abbracciare anche le periferie urbane, e le imposizioni dei funzionari governativi sul giovane Tenzin diventano, come nelle opere di altri cineasti indipendenti cinesi, l’epitome “delle costrizioni socio-politiche vissute dagli individui nella Cina di oggi”:17)Pollacchi, “Spaces and Bodies”, 14-15. interrogato sul messaggio dell’opera, Zheng sottolinea, non a caso, che “ognuno di noi qui potrebbe avere lo stesso destino: il destino di quella pecora nera.18)Si fa qui riferimento alla sopracitata intervista.
A una rappresentazione mimetica e documentaristica della realtà, se ne sovrappone quindi una simbolica, che si manifesta con la rimozione della pecora nera dalla vita del ragazzo. La presenza-assenza di questo animale sembra infatti incarnare la violenza del processo di urbanizzazione, vissuto in modo diverso dal regista e dal co-sceneggiatore: l’urbanesimo di stato ha privato entrambi del proprio luogo abitativo e lavorativo, portandoli a trovare nel cinema uno spazio di resistenza volto a offrire una visione alternativa a quella statale.
Nell’opera, la violenza politica inerente allo stravolgimento degli equilibri dello spazio (rurale) sempre più urbanizzato può essere intravista, difatti, nell’imposizione di un percorso di vita a Tenzin, nelle norme amministrative arbitrarie che impediscono ai genitori di allevare pecore dal manto scuro, e nella conseguente uccisione dell’animale. Un gesto che, a detta dello stesso autore, si presta a innumerevoli interpretazioni. Tra le altre, potremmo forse intendere la pecora come un simbolo delle sorti dello stesso villaggio urbano di Caochangdi – l’eliminazione violenta dell’una e dell’altro rappresentando due eventi fortemente traumatici per chi li ha subiti –, o come un elemento funzionale a riflettere sulla gestione e distribuzione del capitale da parte della politica: proprio in nome di una trasformazione urbana che, ci ricorda Harvey, è funzionale alla sopravvivenza del sistema capitalista,19)David Harvey, “The Right to the City”, New Left Review, 53, 2008, 23–40. vengono infatti sacrificati, nella storia, libertà e legami affettivi individuali. Che la gestione governativa del capitale, secondo il regista, arrivi a superare di importanza la difesa degli interessi dei cittadini comuni, lo si evince anche dalla scena in cui l’animale, alla fine del film, viene portato via con un carretto a motore: Tenzin, di ritorno da scuola, prova a salvare la pecora fermando il conducente, che gli risponde: “Tu, piccolo sciocco, non hai paura che possa vendere anche te?”. In questa chiave, la storia pare trascendere anche i confini nazionali, parlandoci di un’urbanizzazione che, pur avendo specifiche declinazioni locali, è oggi un fenomeno globale.20)Wang e Valjakka, “Urbanized interfaces”, 141-142. La profonda tristezza di Tenzin, che nella scena finale è seduto sul muretto con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte dopo che l’animale gli viene sottratto, sembra dar voce, in generale, all’impatto dell’urbanizzazione sui luoghi e sullo stato psicologico di chi li abita.
Nonostante un’estetica prevalentemente rurale sia caratteristica della produzione letteraria e cinematografica degli anni ’80 e l’estetica post-socialista sia invece caratterizzata da un rifiuto delle metafore dello stato-nazione,21)Visser, Cities Surround the Countryside, 9-10. ritengo che quest’opera, pur inglobando elementi rurali che assumono un valore simbolico, rappresenti un tentativo creativo di affrontare problematiche urbane da parte di un regista della capitale, e possa quindi essere ricondotta a quell’estetica urbana che, secondo Visser, è caratterizzata da una messa in luce di contraddizioni inerenti al processo di urbanizzazione e modernizzazione, e da uno sguardo realista che si relaziona con “strati nascosti e trascurati della città”.22)Visser, Cities Surround the Countryside, 20. La pecora nera, sacrificata nonostante il suo valore affettivo, consente al regista di criticare, neanche troppo velatamente, una trasformazione al cui riguardo egli stesso, parlando del film, afferma: “non la chiamerei ‘modernizzazione’, è una bugia. Questa espressione viene utilizzata per oscurare altri significati: si tratta di fatto di eliminazione, cancellazione, stigmatizzazione, arretratezza, dominio e conquista”.23)Si fa qui riferimento alla sopracitata intervista.
Nel documentare gli effetti di alcune trasformazioni urbane al tempo del neoliberismo globale, Zheng combina elementi realistici e simbolici, riconducibili a un’estetica urbana volta a contestare scelte politiche ed economiche che continuano a stravolgere le vite di coloro vivono ai margini. Proprio Caochangdi, la cui distruzione può essere intravista anche in questo mediometraggio ambientato nell’altopiano di Qinghai, ha avvicinato il regista a un attivismo sui generis, che lo porta a raccontare, tra le altre cose, le contraddizioni del processo di urbanizzazione attraverso non-luoghi (rurali) di contestazione ideologica.
Immagine: fermo immagine de La pecora nera.
Cigarini Non-luoghi (rurali) PDF
Chiara Cigarini (chiara.cigarini@unive.it) è attualmente assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo progetto riguarda il legame tra preoccupazione ecologica ed elementi soprannaturali nella fantascienza cinese contemporanea.
↑1 | An Xiao Mina 安曉, “Art Village: A Year in Caochangdi”, Places Journal, maggio 2012. https://doi.org/10.22269/120507 |
---|---|
↑2 | An, “Art Village: A Year in Caochangdi”. |
↑3 | Questa e altre informazioni biografiche relative alla vita e alla produzione di Vincent Zheng sono tratte da una mia intervista al regista non ancora pubblicata. |
↑4 | Robin Visser, Cities Surround the Countryside: Urban Aesthetics in Postsocialist China (Durham, NC: Duke University Press, 2010), 4. |
↑5 | Jane Hayward e Małgorzata Jakimów, “Who Makes the City? Beijing’s Urban Villages as Sites of Ideological Contestation”, positions: asia critique, 30, 3, 2022, 455-477, abstract. Questa e le successive traduzioni di estratti provenienti da opere in inglese sono mie. |
↑6 | Wanning Sun 孙皖宁, “Subalternity with Chinese Characteristics: Rural Migrants, Cultural Activism, and Digital Video Filmmaking”, 19, 2, 2012, 83-99, 98. |
↑7 | Chris Berry e Lisa Rofel, “Introduction”, in Chris Berry, Lu Xinyu e Lisa Rofel (a cura di), The New Chinese Documentary Film Movement: For the Public Record (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2010), 10. |
↑8 | Hayward e Jakimów, “Who Makes the City?”, 455. |
↑9 | Faye D. Ginsburg, Lila Abu-Lughod e Brian Larkin, “Introduction”, in F. D. Ginsburg, L. Abu- Lughod and B. Larkin (a cura di), Media World: Anthropology on New Terrain (Berkeley: University of California Press, 2002), 1-38, 7. |
↑10 | Hayward e Jakimów, “Who Makes the City?”, 457. |
↑11 | Hayward e Jakimów, “Who Makes the City?”, 457. |
↑12 | Meiqin Wang 王美钦 e Minna Valjakka, “Urbanized interfaces: Visual arts in Chinese cities”, China Information, 29, 2, 2015, 139-153, 141. |
↑13 | Shen Hongbing 沈虹冰, Zhang Jingpin 张京品, “70 years on, Tibet embarks on new journey of modernization”, Xinhuanet, agosto 2021. http://www.chinadaily.com.cn/a/202108/18/WS611cd1a7a310efa1bd669a1d_1.html |
↑14 | Wang e Valjakka, “Urbanized interfaces”, 145. |
↑15 | Si fa qui riferimento alla sopracitata intervista. |
↑16 | Elena Pollacchi, “Spaces and Bodies: The Legacy of Italian Cinema in cContemporary Chinese Film-Making”, Journal of Italian Cinema & Media Studies, 2, 1, 2014, 7-21, 16. |
↑17 | Pollacchi, “Spaces and Bodies”, 14-15. |
↑18 | Si fa qui riferimento alla sopracitata intervista. |
↑19 | David Harvey, “The Right to the City”, New Left Review, 53, 2008, 23–40. |
↑20 | Wang e Valjakka, “Urbanized interfaces”, 141-142. |
↑21 | Visser, Cities Surround the Countryside, 9-10. |
↑22 | Visser, Cities Surround the Countryside, 20. |
↑23 | Si fa qui riferimento alla sopracitata intervista. |