Il saggio di Marina Miranda (Collana Studi Orientali, Libreriauniversitaria.it edizioni, Padova, 2022, pp. 213) affronta l’evoluzione politica della RPC degli ultimi quaranta anni, esaminata attraverso due chiavi di lettura: riforma politica e trasformazioni ideologiche. È il primo libro in italiano che ricostruisce in modo approfondito questi aspetti della storia politica cinese troppo spesso trascurati o non presi nella dovuta considerazione. Frutto di anni di ricerca, il libro è un eccellente approfondimento e sintesi di temi già affrontati nel passato, come attesta l’ampia bibliografia, che l’autrice rilegge riproponendoli in una prospettiva storica di più lunga durata. Il tema della riforma politica, oggi pressoché assente dal dibattito dopo l’irrigidimento del sistema di controllo seguito all’ascesa alla carica di segretario generale di Xi Jinping, è stato centrale nei decenni precedenti, mentre l’ideologia, come scrive Miranda, “nonostante il definitivo tramonto della stessa” in occidente, rimane “una chiave di lettura fondamentale per comprendere appieno l’evoluzione politica interna della RPC”. Il libro, di scorrevole lettura, è utilissimo sia per chi segue i temi di storia politica cinesi sia per chi vuole farsi un’idea più approfondita della storia recente cinese.

Per meglio mettere a fuoco cosa si intenda per ideologia, l’autrice ritiene utile rileggere un classico degli studi politologici sulla Cina risalente agli anni Cinquanta, Ideology and Organization in Communist China, dello studioso Franz Shurmann. L’attenzione di Shurmann è infatti rivolta al modo in cui pensa e opera il PCC, distinguendo quindi tra ideologia pura, ossia la sua visione del mondo, i valori, le dottrine ufficiali, e ideologia pratica, ossia i princìpi che forniscono al Partito strumenti razionali per l’azione. Anche per i comunisti cinesi, il pensiero di Mao Zedong è considerato come l’integrazione delle verità universali del marxismo-leninismo con la realtà della rivoluzione cinese e la pratica della costruzione della Cina. Ma non solo Mao, i contributi dei leader che si sono succeduti fino a oggi hanno concorso ad arricchire e sviluppare l’ideologia pratica.

Nell’analizzare i temi che danno il titolo al libro, l’autrice segue due traiettorie: l’evoluzione dell’ideologia ufficiale (da Mao a Hu Jintao) e quella scaturita in ambiti ufficiosi o alternativi. I due percorsi si sono a volte incrociati, altre volte si sono drasticamente separati, ma nella ricostruzione appare una certa osmosi che sembra aver portato le due strade molto più spesso di quanto si possa credere a convergere piuttosto che divergere. La ricostruzione di questo aspetto saliente della storia recente della RPC parte dalla fine degli anni Settanta e si ferma agli inizi dell’ascesa al potere dell’attuale segretario generale, Xi Jinping, cui Miranda intende dedicare un volume separato, per l’importanza che questo periodo ancora non concluso riveste per l’attualità e per gli esiti, aggiungerei, che si possono avere sulle vicende globali.

Nella prefazione, l’autrice esamina brevemente il concetto di democrazia come si è evoluto nel tempo in Cina e le varie teorie occidentali volte a determinare i necessari passaggi per giungere ad una democrazia compiuta, facendo notare che dovremmo affrontare il tema di una possibile e auspicabile democratizzazione abbandonando la prospettiva eurocentrica, tanto più che il caso Cina, con le sue caratteristiche diverse da altri regimi autoritari, ha mostrato tutta la debolezza delle molte teorie ad esso applicate.

Il libro segue un ordine cronologico che parte come si è detto dalla fine della Rivoluzione Culturale o meglio dalla morte di Mao, ma con dei significativi e sostanziali accenni agli anni della Rivoluzione Culturale, al IX congresso del PCC nel 1969, alla caduta di Lin Biao, alla lotta tra diverse componenti del partito in campagne ideologiche come quella del Pi Lin Pi Kong, che oggi può essere letta da inediti punti di vista come ad esempio l’effetto indiretto di dare diffusione a temi di cultura tradizionale fino ad allora volutamente ignorati. L’esame prosegue con una disamina storica dei momenti salienti del progetto politico avanzato dal successore designato da Mao, Hua Guofeng, e l’offensiva ideologica attuata contro di lui da quella parte riformatrice del partito che scelse come suo rappresentante colui che ne sarebbe diventato il capo riconosciuto, Deng Xiaoping. Con il suo “cercare la verità dai fatti”, Deng riuscì a far passare un cambio di passo sostanziale rispetto alla tragedia della Rivoluzione culturale come un ritorno alla migliore tradizione maoista.

Il primo capitolo che copre tutto il periodo fino alla fine degli anni Ottanta, è un’ottima e ricca ricostruzione di quanto accaduto nel campo della politica ufficiale e dei settori di una nascente “società civile” che finalmente avevano possibilità di esprimersi. Miranda con accuratezza ricostruisce le varie articolazioni dei diversi gruppi, alcuni con legami all’interno del partito e altri (come il Muro della democrazia nel1978-79) che pagarono un prezzo molto alto per posizioni ideologiche liberali inaccettabili dal partito che ne sfruttò l’azione iniziale come strategia per combattere fazioni interne. Sono anni di fermento intellettuale e dibattito su temi di grande interesse per lo sviluppo di una riforma politica: concetto di società e suo rapporto con lo stato, una crescente attenzione sulla questione del “pluralismo di interessi” che conduceva a una nuova accezione di democrazia, un decentramento che avrebbe potuto favorire il parziale trasferimento di potere alla società sempre più autonoma. Utilissime sono le ricostruzioni dei dibattiti accesi che si svolsero in quegli anni proprio sul tema della riforma politica, su destra e sinistra, su cosa intendere per democrazia, sollecitati da alti dirigenti come Hu Yaobang che per la sua politica apertamente riformista pagò con la destituzione dalla carica di segretario. Per quanto ostacolati dalle componenti più conservatrici del partito o non sempre appoggiati fino in fondo anche da coloro che ne avevano consentito la possibilità, dibattiti e discussioni di questi anni rappresentano il primo vero tentativo di confrontarsi con il bisogno di cambiare passo. Dalla attenta analisi di Miranda appaiono con chiarezza non solo temi, per esempio libertà economica come precondizione alla libertà politica, ma anche problematiche che si sarebbero affacciate in modo evidente negli anni successivi della riforma, come le forti disuguaglianze sociali, economiche, territoriali. Non manca inoltre la disamina delle implicazioni dei termini lessicali riferiti alla riforma politica (zhengzhi gaige, tizhe gaige, dangzheng fenkai) il cui diverso uso serve a tracciare, sempre con le difficoltà che conosciamo, scelte, tendenze, progetti di riforma dei diversi attori politici.

Come è noto il momento di apertura e la vivacità del confronto terminarono nel 1989 con la brutale repressione del movimento degli studenti in Piazza Tian’anmen che aveva visto un’ampia partecipazione della cittadinanza a diversi livelli. Anche in questo caso Miranda avverte e sfata molti luoghi comuni sulle manifestazioni proprio per meglio cogliere le profonde trasformazioni in campo ideologico avvenute nel decennio precedente, in particolare come il concetto di democrazia non incarnasse un modello di sistema politico preciso ma piuttosto una liberalizzazione personale e sociale, in una certa misura anche retaggio della storia del PCC, e come allo stesso tempo l’invocazione di minzhu era intesa come la migliore prospettiva per edificare una nazione forte e prospera. Ma il concetto si era anche arricchito di molte altre sfaccettature di cui l’autrice dà conto, spesso impregnate di valori tradizionali: democrazia come simbolo di armonia di interessi diversi, democrazia come riconoscimento di un possibile pluralismo politico ma secondo alcuni esteso solo agli abitanti delle aree urbane e naturalmente ai membri del PCC.

Il secondo capitolo “I nodi irrisolti dopo la strage di Tian’anmen” prosegue con la disamina, da una parte, della rimozione e negazione del regime di quanto accaduto e, dall’altra, dei tentativi di tenere acceso non solo il ricordo ma anche la volontà di aprire la riflessione su temi ritenuti sensibili dal PCC. Riviste autonome dal regime come Yanhuang Chunqiu o la pubblicazione a Hong Kong delle memorie di Zhao Ziyang, ma anche l’azione politica di Carta 08 promossa da Liu Xiaobo, rappresentano la volontà di molti di continuare a ragionare sulla memoria del passato per costruire un’autentico stato di diritto rispettoso dei diritti umani, in parte sfruttando apparenti aperture e un’atmosfera di maggiore rilassatezza degli ultimi anni Novanta e inizio del nuovo millennio.

Il terzo capitolo è incentrato sul periodo di Jiang Zemin chiamato da Deng, dopo la caduta di Zhao Ziyang, a fungere da segretario generale del Partito dal 1989 fino al 2002, ma estende l’analisi anche alla quarta generazione, il cosiddetto binomio Hu Jintao/Wen Jiabao che si segnala, almeno apparentemente, per un periodo di rinnovato dibattito sui temi di riforma e democratizzazione. In questo capitolo è ben spiegato come il contributo teorico della dottrina de “le tre rappresentatività” di Jiang così come la precedente attribuita a Deng “cercare la verità dai fatti” rientrino formalmente e ufficialmente nell’ideologia pratica del Partito e soprattutto ne vengono esplicitati i significati profondi. Anche in questo caso l’autrice compie una ricca disamina dello sviluppo dei processi reali e delle trasformazioni profonde della società cinese che trovano la sintesi ideologica e politica in espressioni di difficile interpretazione se si rimanesse fermi alla lettera degli enunciati e se essi non fossero tradotti in una narrazione comprensibile. Dopo Tian’anmen, gli anni di Jiang Zemin e il suo contributo teorico di apertura a settori in crescita della società e la grande enfasi posta sul nazionalismo servono a ridare legittimità al Partito capace di adattarsi alle immense e continue trasformazioni. Gli anni di Hu e Wen con un approccio più realistico per la loro formazione di tecnocrati fecero sì che potessero essere ripresi in considerazione i discorsi sulla democratizzazione, ma in modalità, secondo Miranda, più controllata. In realtà molti dei contributi al tema della democrazia di quegli anni sono svolti da componenti teorici e istituzionali che fanno capo al Partito, come molti think-tank e ad esempio Yu Keping, noto, ma non solo, per il suo libro La democrazia è una cosa giusta pubblicato a metà degli anni duemila. Questi studi e ricerche molto spesso affrontano il tema proprio a partire dalla possibilità di una democratizzazione interna allo stesso partito, che, negli stessi anni, adotta in via sperimentale delle nuove modalità di gestione interna: elezioni competitive, regole più stringenti per nomine di leader a livello regionale e locale, allargamento dei processi decisionali, meccanismi di monitoraggio dei quadri dirigenti a vari livelli. Misure che saranno presto abbandonate e/o totalmente ribaltate con il passaggio al periodo successivo sotto la direzione di Xi Jinping.

Il quarto e ultimo capitolo è un approfondimento dell’era Hu Jintao dove sono ampiamente trattate le tematiche politiche e soprattutto ideologiche che con il richiamo a una società armoniosa e a considerare le “persone come priorità” rappresentano un cambio di rotta rispetto al passato con maggiore enfasi sulla necessità di correggere gli squilibri ed evitare conflitti. Alla stabilità sociale, richiamo costante e ripetuto all’infinito dal regime, e alla classe media, il quarto capitolo dedica un ampio paragrafo che spiega con molta ricchezza quanto sia stata importante per il Partito puntare sulla crescita e sull’appoggio di una classe o meglio di un ‘ceto’ medio in crescita grazie agli anni più dinamici della riforma e destinato a divenire il pilastro della società. Il lascito ideologico ufficiale dell’era di Hu Jintao è però racchiuso, come noto, nell’espressione “visione di sviluppo scientifico”. L’espressione di fatto racchiudeva meglio il tentativo del partito di mettere in atto politiche per uno sviluppo meno sbilanciato e più sostenibile di cui la società armoniosa era allo stesso tempo premessa e obiettivo.

Dei dibattiti a vari livelli sul tema della democrazia nel periodo Hu Jintao, il libro ne parla, come si è detto, nel terzo capitolo. L’ultima parte del quarto, invece, dedica ampio spazio, troppo per chi scrive, a degli interventi pubblici di Wen Jiabao sul tema della necessità per la Cina di adottare la democrazia. Per quanto sia interessante l’elencazione di tutte le interpretazioni di cosa potessero significare interventi di questo tipo del Primo Ministro alla fine della sua carriera politica, il resoconto non offre nessuna interpretazione convincente ma ha il merito, si può dire, di confermare la difficoltà da parte degli studiosi di comprendere e conoscere a fondo il sistema politico cinese. A questo proposito, il libro, secondo chi scrive, manca di un capitolo finale conclusivo che tiri le somme sull’ampia materia trattata, offrendo in sintesi i nodi irrisolti dei molti problemi storiografici affrontati con sapienza e accuratezza. La prospettiva storica adottata dal libro mostra che scansione cronologica e distanza temporale consentono almeno in parte di chiarire aspetti della storia politica della RPC, ma che molte sono tuttora le domande irrisolte soprattutto quanto più ci si avvicina al presente.

Immagine: particolare dalla copertina del volume.

Paola Paderni (Napoli, 1953) ha insegnato Storia e istituzioni della Cina contemporanea all’Università di Napoli “L’Orientale. Dal 2003 al 2011 ha lavorato presso l’Ambasciata d’Italia a Pechino con qualifica di esperto, occupandosi di stampa e diritti umani. Dal 2015 al 2019 è stata Presidente dell’Associazione italiana di studi cinese (AISC) e Direttrice dell’Istituto Confucio di Napoli “L’Orientale dal 2017 al 2022. Le sue ricerche di argomento storico sociale e di genere sulla Cina moderna e contemporanea sono pubblicate su riviste nazionali e internazionali.