Introduzione

Il numero del 4 maggio 2013 della rivista The Economist mostrava in copertina uno Xi Jinping in eleganti abiti di epoca Qing, con un sorriso enigmatico e lo sguardo rivolto verso un indefinito punto lontano. A rompere la composta ufficialità dell’immagine, una flûte colma e una frivola trombetta. In basso, la didascalia: “Let’s party like it’s 1793”. L’invito del titolo, alludendo a una famosa canzone di Prince di qualche lustro prima (Let’s party like it’s 1999), riportava i lettori al 1793, anno della storica missione di Lord Macartney, conclusasi con il rifiuto opposto dalla Cina alle richieste avanzate dalla delegazione inglese. Nella copertina, l’assertività mostrata in quell’occasione veniva accostata alla fiducia nelle proprie capacità mostrata dalla Cina nel 2013, a poche settimane dall’insediamento di Xi Jinping. Lo scopo del numero era, infatti, analizzare lo “straordinario viaggio di ritorno della Cina alla grandezza” che aveva riportato il Paese a una posizione di centralità nel sistema internazionale, dopo il “secolo dell’umiliazione”, interrogandosi sulle mosse del nuovo presidente.

Analoghe domande comparivano sulle pagine delle riviste giapponesi in quello stesso periodo. Tuttavia, come vedremo, in questo caso il tono degli interrogativi era sovente più crucciato e carico d’ansia. In particolare, i mensili hanno contribuito in modo significativo al dibattito sulla Cina. Si tratta di riviste con un largo seguito di lettori, che da decenni svolgono un ruolo cruciale nella vita intellettuale del Giappone. La loro caratteristica principale è proporre approfondimenti su vari temi, attraverso articoli di ampio respiro. Non a caso, sono state paragonate a degli “empori” o al “maku no uchi bentō”, un cestino da pranzo che contiene assaggi di diverse pietanze.1)Baba Kimihiko, Sengo nihonjin no Chūgokuzō. Nihon haisen kara bunka daikakumei nicchū fukkō made (Tokyo: Shinyōsha, 2010), 26. In questo articolo, prenderemo in considerazione due delle più prestigiose riviste mensili tra quelle attualmente esistenti: Chūōkōron e Bungei shunjū. La prima, fondata nel 1899, era già negli anni Venti del Novecento un importante punto di riferimento della scena culturale nipponica. Chiusa nel 1943, in seguito a un intervento repressivo dell’allora governo militarista, è stata rifondata nel 1946. Di più recente istituzione è invece Bungei shunjū, il cui primo numero apparve nel 1923. Si tratta di una rivista particolarmente vicina al mondo letterario, come testimoniano i due prestigiosi riconoscimenti che da anni assegna, il premio Akutagawa e il premio Naomi.2)Entrambe le riviste possono essere considerate espressione di posizioni largamente diffuse, seppur tendenzialmente più vicine a un orientamento conservatore. Ciò è vero in particolar modo per Bungei shunjū. Tuttavia, la varietà e la profondità delle analisi proposte, nonché il ricorso frequente alle competenze specifiche di esperti, in linea con la tradizione dei mensili giapponesi, garantisce rappresentanza a un ampio spettro di punti di vista.

Gli articoli oggetto dell’analisi che segue sono stati pubblicati su Chūōkōron e Bungei shunjū tra il 2013 e il 2021. La delimitazione dell’arco temporale — operata con l’intento di considerare gli anni cruciali della Presidenza di Xi Jinping, senza escludere la fase iniziale della pandemia di Covid — e il focus su due specifiche riviste limitano la completezza della disamina, che non ha pretesa alcuna di esaustività. Tuttavia, la ricchezza dei temi trattati negli articoli e la varietà degli approcci presentati sulle due riviste forniscono spunti interessanti per delineare alcuni tratti del “dibattito sulla Cina” (Chūgokuron) che ha impegnato gli intellettuali e l’opinione pubblica giapponese negli ultimi anni.

In principio, non era la Cina.

Il primo elemento che colpisce sfogliando i numeri di Chūōkōron e Bungei shunjū degli ultimi nove anni è la centralità della Cina nei sommari delle due riviste. Potrebbe apparire come un dato scontato, vista la prossimità geografica del Giappone al Paese, le affinità culturali e la lunga consuetudine di scambi nel corso dei secoli, ma non è così. Uno sguardo al passato dimostra che si tratta di una novità, correlata alla crescente rilevanza che la Cina ha assunto.  È interessante notare, ad esempio, che, negli anni compresi tra il 1946 e il 1972, gli articoli sulla Cina pubblicati dalla rivista Chūōkōron furono in tutto 363, con un minimo di zero nel 1947 e un picco massimo di 32 articoli nel 1966. Ancora più limitata la presenza sulle pagine di Bungei shunjū, dove nello stesso periodo gli articoli sulla Cina furono solo 155, con numeri inferiori a 10 fino al 1970 (unica eccezione nel 1955, quando furono pubblicati 11 articoli sulla Cina) e un picco massimo di 32 nel 1972, anno della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Giappone e Repubblica Popolare Cinese (RPC).3)Ibidem, 52. Negli anni successivi, l’interesse per la Cina crebbe progressivamente, raggiungendo un picco nel periodo che precedette la firma del Trattato di pace e amicizia (1978) per poi ridimensionarsi lievemente negli anni Ottanta e calare ulteriormente dopo gli eventi di piazza Tienanmen.4)Tra il 1973 e il 1979, Chūōkōron pubblicò ben 104 articoli sulla Cina.  Bungei shunjū, dal canto suo, arrivò a quota 52.  Nel periodo compreso tra il 1979 e il 1987, la quota scese a 97 per Chūōkōron e salì a 53 per Bungei shunjū. Infine, tra il 1988 e il 1992 gli articoli sulla Cina di Chūōkōron furono 60, mentre quelli pubblicati da Bungei shunjū 27. Baba Kimihiko, Gendai Nihonjin no Chūgokuzō. Nicchū kokkō shōjōka kara Tenanmon jiken, Tennō hōchū made (Tokyo: Shinyōsha, 2014), 34; 59; 98.

Anche negli anni successivi alla fine della Guerra fredda, i mensili giapponesi hanno dedicato scarsa attenzione a ciò che avveniva nel Paese vicino, salvo accendere i riflettori in concomitanza di eventi di particolare rilievo. È stata l’ascesa economica di Pechino a cambiare la situazione. A questo riguardo, è significativa la parabola del sinologo giapponese Takeuchi Yoshimi (1910-1977), principale traduttore in Giappone delle opere di Lu Xun e instancabile sostenitore della “questione cinese”, da lui intesa in senso ampio, cioè come l’insieme dei problemi che ruotavano intorno al riconoscimento — non solo diplomatico — della Cina. Dopo anni di oblio, Takeuchi è stato riscoperto sulla scia di un rinnovato interesse per il Paese vicino. La ristampa delle sue opere così come la pubblicazione di monografie sulla sua figura è avvenuta negli anni in cui il ritorno di Pechino sulla scena internazionale come potenza economica globale si manifestava in tutta la sua evidenza.5)Si veda ad esempio: Kurokawa Midori, Yamada Satoshi, Hyōden Takeuchi Yoshimi: sono shisō to shōgai (Tokyo: Yūshisha, 2020); Nakamura Sunao, Sengo Nihon to Takeuchi Yoshimi (Tokyo: Yamakawa shuppansha, 2019); Kurokawa Midori, Yamada Satoshi, Takeuchi Yoshimi to sono jidai: rekishigaku kara no taiwa (Tokyo: Yūshisha, 2018); Sun Ge, Takeuchi Yoshimi to iu toi (Tokyo: Iwanami, 2015); Asakawa Fumi, Qu Qiubai, Asato Akira, Ro jin bungaku o yomu: Takeuchi Yoshimi “Ro jin” no hihanteki kenshō (Tokyo: Supeesu kaya,  2010); Tsurumi Shunsuke, Takeuchi Yoshimi: aru hōhō no denki (Tokyo: Iwanami, 2010, edizione originale 1995); Watanabe Kazutami, Takeda Taijun to Takeuchi Yoshimi: kindai Nihon ni totte no Chūgoku (Tokyo: Misuzu shobō, 2010); Marukawa Tetsushi, Takeuchi Yoshimi: Ajia to no deai (Tokyo: Kawade shobō shinsha, 2010); Marukawa Tetsushi, Suzuki Masahisa (a cura di), Takeuchi Yoshimi, Takeuchi Yoshimi Serekushon: “sengo shisō” o yominaosu (Tokyo: Nihon keizai hyōronsha, 2006); Tetsushi, Suzuki Masahisa (a cura di), Takeuchi Yoshimi, Ajia e no/kara no manazashi (Tokyo:Nihon keizai hyōronsha, 2006); Tetsushi, Suzuki Masahisa (a cura di), Takeuchi Yoshimi, Nihon e no/kara no manazashi (Tokyo: Nihon keizai hyōronsha, 2006).

L’interesse per la Cina è aumentato ulteriormente in seguito all’insediamento di Xi Jinping. Negli anni compresi tra il 2013 e il 2021 sulle riviste Chūōkōron e Bungei shunjū sono stati pubblicati più di quindici numeri monografici dedicati alla Cina, contenenti reportage, interviste e analisi di vario tipo. In molti casi, gli autori dei contributi sono accademici o membri di influenti think-tank, anche cinesi.6)Tra gli accademici, segnaliamo, ad esempio: Shiraishi Takashi, professore emerito della Seisaku kenkyū daigakuin daigaku (nota in inglese come National Graduate Institute for Policy Studies, GRIPS), Kawashima Shin, professore all’Università di Tokyo; Tomisaka Satoshi, professore all’Università Takushoku; Okamoto Takashi, professore all’Università Kyōto furitsu daigaku; Kamo Tomoki, professore all’Università Keiō; Katō Hiroyuki, professore all’Università di Kōbe; Iokibe Makoto, allora rettore della Kumamoto kenritsu Daigaku; Funabashi Yōichi, presidente dell’istituto Nihon saisei inishatibu. Per quanto riguarda il coinvolgimento di studiosi cinesi, si veda ad esempio, l’interessante intervista a Junhua Wu, allora direttrice del think-tank Nihon sōgō kenkyūjo (sede di Washington). Junhua Wu, Ozeki Kōya, “Hanfuhai, kaiyō shinshutsu, kabuka taisaku ‘bu xinxie’ to iu chototsu mōshin no hate ni”, Chūōkōron, 129, 66-73. Gli argomenti affrontati sono vari: si va da riflessioni politologiche sul ruolo presente e futuro di Pechino nel sistema internazionale ad analisi sulla situazione politica ed economica della Cina. Il comune denominatore dei contributi è Xi Jinping, con la sua visione della società cinese (il “sogno cinese”) e le sue ambizioni internazionali (la Belt and Road Initiative, BRI). Nelle pagine che seguono, ci soffermeremo sui nuclei tematici ricorrenti negli articoli pubblicati sulle due riviste tra il 2013 e il 2021, formulando alcune riflessioni sull’immagine della Cina che da essi emerge.

Il “sogno cinese” visto dal Giappone.

Uno dei temi dominanti negli articoli pubblicati sulle riviste Chūōkōron e Bungei shunjū è la riflessione sulle risorse di potere e le capacità effettive del Paese vicino. La domanda sottesa a queste considerazioni è, in ultima analisi, “quanto è forte la Cina?”. Così, ad esempio, nel numero monografico di Chūōkōron del settembre 2013, si analizzano le “Capacità della Cina che si conoscono solo in loco” (Genba shika shiranai Chūgoku no jitsuryoku), come recita il titolo del volume. Nell’ottobre di due anni dopo, la questione viene riformulata in modo più mirato nel numero monografico della stessa rivista, intitolato “Le capacità di Xi Jinping” (Shū Kinpei no jitsuryoku). Anche quando non è esplicitato, questo interrogativo fa da sfondo a molti degli articoli, concepiti come dossier finalizzati a valutare (e quantificare) le potenzialità dell’economia cinese, la forza militare del Paese, le capacità del suo leader. L’intento è individuare i punti di forza e di vulnerabilità del vicino, con lo scopo di rassicurare e, al tempo stesso, di stimolare una riflessione critica sulle condizioni del Giappone. I toni variano da contributo a contributo. Nel dibattito tra Shiraishi Takashi, professore emerito del GRIPS (National Graduate Institute for Policy Studies) e Kawashima Shin, professore all’Università di Tokyo, ad esempio, l’analisi è rigorosa e l’approccio molto sobrio. Solo il titolo dell’articolo — “Xi Jinping è davvero un leader forte? Le basi del potere, l’espansione all’estero e la strategia economica” — lascia trapelare apprensione e anche un certo scetticismo nei confronti della “forza” effettiva della Cina.7)Shiraishi Takashi, Kawashima Shin, Shū Kinpei masa ni tsuyoi riidaa ka. Kenryoku kiban, kaiyō shinshutsu, keizai senryaku”, Chūōkōron, 129, 30-41.

In altri casi, i toni sono più netti, come in un contributo pubblicato due anni prima, sempre sulla rivista Chūōkōron. Il titolo dell’articolo è già indicativo, “La nuova lotta per il potere generata dall’insufficienza di abilità di Xi Jinping”, così come quelli di alcuni dei paragrafi: “La linea di amicizia del popolo che è solo una simulazione”; “La linea dura nei confronti del Giappone è espressione di mancanza di fiducia in sé stessi”. L’analisi sviluppata nel testo spiega la tesi del titolo, presentando Xi Jinping come un leader più incapace di quanto appaia. La “luna di miele” con la popolazione, la campagna contro la corruzione e gli sprechi, il ricorso al lessico maoista non devono trarre in inganno. Di fatto, la posizione di Xi Jinping è simile a quella del Partito Democratico giapponese, scomparso nel 2016. Questo il giudizio dell’autore Yaita Akio, espresso per bocca di un anonimo intervistato cinese: “È partito con alte aspettative da parte della popolazione, enunciando un numero elevato di politiche la cui realizzazione è dubbia. In questo modo, ha alimentato la delusione della popolazione, a mano a mano che accumulava fallimenti”.8)Yaita Akio, “Shū Kinpei no rikiryō busoku ga motarasu aratana kenryoku tōsō”, Chūōkōron, 128, 63. In ultima analisi, Xi Jinping appartiene alla categoria di leader cinesi “che vanno nella direzione sbagliata e hanno abilità estremamente limitate”. Le altre quattro categorie, secondo la tassonomia illustrata all’autore da un anonimo funzionario del Partito comunista cinese, sono: leader dalle abilità molto elevate, che procedono nella direzione sbagliata (è il caso di Mao, estremamente capace, ma screditato dall’esito disastroso della Rivoluzione Culturale); leader dalle abilità molto elevate che procedono nella direzione giusta (Deng Xiaoping con la sua linea di apertura e riforme); leader che procedono nella direzione giusta, ma hanno abilità limitate (in questa categoria vengono annoverati Hu Jintao e Wen Jiabao che hanno promesso una “società armoniosa”, ma non sono riusciti a realizzarla).9)Ibidem, p. 67. Alla base del fallimento di Xi Jinping, come viene spiegato, ci sarebbero i delicati equilibri all’interno del partito, nonché fattori personali, cioè i “complessi” del Presidente. Questi ultimi, secondo l’autore, risalirebbero a due circostanze: la laurea conseguita durante gli anni della Rivoluzione Culturale, non seguita da un vaglio meritocratico dopo la rivoluzione, come avvenuto per altri funzionari; la sua poco lusinghiera esperienza ultraventennale come funzionario locale.

L’articolo di Yaita appare ancora più impietoso nel giudizio su Xi Jinping, se si considera che è stato pubblicato nel settembre 2013. Più che un’analisi sembra un’illazione sul futuro, se non un esorcismo: si ha quasi l’impressione che l’autore, a pochi mesi dall’insediamento del presidente, voglia scongiurare scenari anche solo parzialmente positivi, anticipando una negatività che ritiene ineluttabilmente contenuta nelle premesse.  La tendenza a riportare le questioni legate al dibattito sulla Cina a un’analisi di primo livello, per riprendere il linguaggio di Kenneth Waltz, focalizzata cioè sulla natura umana (dunque, sulla figura di Xi Jinping), lasciando sullo sfondo le dinamiche interne allo stato cinese e gli equilibri mondiali, caratterizza anche altri contributi. È il caso, ad esempio, dell’articolo “Quella sera di Xi al ristorante giapponese. Otto giapponesi descrivono il vero volto del dittatore”, pubblicato nel novembre 2021 dalla rivista Bungei shunjū.10)Yasuda Minetoshi, “Shū Kinpei ‘Nihon ryōtei no yoru’. Nihojin hachinin ga shōgen suru dokusaisha no sugao”, Bungei shunjū, 99, 240-247. Gli otto giapponesi menzionati nel titolo sono persone di diversa provenienza che hanno incontrato Xi Jinping prima che diventasse presidente. Le opinioni sul leader sono varie e non sempre negative, anche se in molti casi si enfatizza un “cambiamento” (nel carattere e nell’atteggiamento) che sarebbe intervenuto nel corso degli anni. Non mancano giudizi intransigenti, come quello di Inamine Keichi (governatore di Okinawa dal 1998 al 2006), che conobbe Xi nel 2001, quando era governatore della provincia del Fujian. Inamine parla del presidente come di un abile dissimulatore: “si tratta di una persona che mi ha lasciato un’impressione profonda. È quasi completamente privo di espressione del volto. Persino quando ride, è difficile capire se stia ridendo o meno. La voce è bassa e calma e l’eloquio chiaro. Non dice cose superflue. Di conseguenza, non rilascia mai dichiarazioni inopportune. Tuttavia, non fa nemmeno discorsi interessanti.” Il ritratto viene poi completato da un accostamento a Tokugawa Ieyasu (1543-1616), il celebre fondatore dello shogunato Tokugawa che nel 1600 sbaragliò i suoi nemici, portando a termine la riunificazione del Giappone. Il paragone, tuttavia, è tutt’altro che lusinghiero: “è incredibile fino a che punto sia riuscito a nascondere le unghie”, afferma Inamine riferendosi a Xi. “E’ come Tokugawa Ieyasu”.11)Ibidem, 240; 243.

L’associazione di Xi Jinping al termine “dittatore” ricorre anche in altri articoli pubblicati su Bungei shunjū. Nel titolo di un articolo del 2019, ad esempio, ci si chiede se il presidente sia “un dittatore contemporaneo” o “un re nudo” (“Il giorno in cui Xi Jinping diventa Mao Zedong. Un dittatore contemporaneo, o un re nudo?”).12)Miyamoto Yūji, Nakazawa Katsushi, Ako Tomoko, “Shū Kinpei ga Mō takutō ni naru hi. Gendai no dokusaisha ka, hadaka no ōsama ka”, Bungei shunjū, 97, 304-314. Nella rivista Chūōkōron, invece, i riferimenti di questo tipo sono pressoché assenti. Predomina l’interesse per le politiche di Xi Jinping, piuttosto che per la sua persona e la sua biografia ed i toni sono complessivamente più sobri, anche quando gli articoli affrontano questioni scottanti.13)È il caso, ad esempio, di un’inchiesta sull’affaire Zhu Jianrong, il professore cinese in servizio presso l’Università giapponese Tōyō gakuen, accusato di essere una spia dalla Cina e detenuto dal luglio 2013 alla fine di febbraio del 2014. Murai Tomohide, “Tai nichi kōsaku, chōhō katsudō… kuimono ni sareru Nihon”, Chūōkōron, 128, 88-95. La lotta alla corruzione, l’espansione cinese all’estero, i limiti e le potenzialità della BRI sono oggetto di reportage accurati.14)Cfr., ad esempio, Junhua Wu, Ozeki Kōya, 66-73; Katō Hiroyuki, “Hanfuhai sae mo chikara ni suru Chūgokugata shihonshugi. ‘Aimai na seido’ no shitatakasa”,Chūōkōron, 129, 54-59; Kamo Tomoki, “Shū Kinpei seiken no ‘hanfuhai’ to wa nani ka”, Chūōkōron, 129, 64-71; I negoziati sulla Trans Pacific Partnership (TPP), nella fase antecedente all’abbandono dell’accordo multilaterale da parte degli Stati Uniti, diventano occasione per un franco dibattito sui pro e contro di un’eventuale adesione della Cina. L’articolo che analizza la questione — con l’aiuto di Miyake Kunihiko, direttore del Canon Global Research institute (Kyanon gurobaru chōsen kenkyūjo) — già nel titolo perora la causa dell’inclusione della Cina nel TPP (“Includiamo la Cina”).15)Miyake Kunihiko, Miyazaki Tetsuya, “Chūgoku o torikome”, Bungei shunjū, 92, 125-129.

Un discorso a sé merita la trattazione del “sogno cinese” negli articoli pubblicati dalle riviste Chūōkōron e Bungei shunjū. Seppur rivolto all’interno piuttosto che all’esterno della Cina (almeno per quel che riguarda la fase concreta della realizzazione), per il Giappone il sogno evoca scenari problematici, soprattutto se considerato come complemento della BRI. Quest’ultima, come è stato efficacemente rilevato, sovrappone allo “spazio-superficie” lo “spazio-rete”, connettendo tre continenti (Asia, Africa, Europa) con l’ambizioso obiettivo di “innervare di infrastrutture in particolare l’Eurasia”. Così facendo, propone una “geopolitica delle connessioni” che in qualche modo appare come un superamento “del moderno concetto di spazio a favore di uno spazio post-moderno, costituito da una rete con terminali che mirano a connettere, a unire, a includere”.16)Franco Mazzei, “La nozione di spazio-rete nella geopolitica delle connessioni di Xi Jinping. Note a margine del tele-seminario del CSCC del 3/12/2021”, http://www.cscc.it/upload/doc/Lo%20spazio%20rete%20di%20Xi%20Jinping.pdf (ultimo accesso 31-03-2022).

Dal punto di vista giapponese, la natura dei due progetti non è necessariamente inclusiva e benevola. Quanto meno, questo è ciò che emerge dagli articoli che affrontano la questione nelle due riviste oggetto dell’analisi. Seppur con toni diversi, l’enfasi degli autori (o degli intervistati) è sui limiti del “sogno” e delle sue appendici geopolitiche, nonché sulle effettive intenzioni che esso celerebbe. Il già menzionato professor Shiraishi Takashi, ad esempio, mette innanzitutto in guardia sulle premesse comunitaristiche (il sogno come prerogativa della Cina in quanto stato, non come aspirazione riconosciuta ai cinesi in quanto individui) della visione proposta da Xi. Scrive Shiraishi: “Xi Jinping parla di ‘sogno cinese’. È possibile comprenderne il contenuto, mettendolo a confronto con il ‘sogno americano’. Se il sogno americano può essere definito come quella condizione che si realizza quando gli individui e le famiglie godono di una vita ricca e prospera, nel caso del ‘sogno cinese’, il ‘cinese’ si riferisce alla Cina in quanto stato. È la Cina a diventare prospera, potente e a essere rispettata dal mondo. Questo è il ‘sogno cinese’.”17)Shiraishi Takashi, Kawashima Shin, 33.

In altri articoli, il sogno è definito come qualcosa di “quasi sinistro” (ayauku bukimina “Chūgoku no yume”). Per quanto si tratti di un’espressione vaga, evidenzia Funabashi Yōichi in un articolo dedicato all’analisi delle implicazioni geopolitiche della visione di Xi, il sogno è temibile anche per questo motivo. I cinesi evocano infatti un nuovo ordine nell’Asia-Pacifico, senza tuttavia definirlo. In queste circostanze, è molto probabile che si creino le premesse per un “lungo, lungo conflitto”. Il rischio paventato nell’articolo, ma mai menzionato con il termine specifico, è un revisionismo destinato a turbare gli equilibri regionali e mondiali. Non si tratta, tuttavia, di uno scenario ineluttabile, visto che la Cina non è esente da vulnerabilità. In particolare, ricorda Funabashi, uno dei talloni d’Achille del Paese è quella che Lee Kuan Yew ha definito “la generazione che non conosce gli sforzi”, una generazione di una tempra diversa rispetto a quelle che la hanno preceduta. La nuova leadership dovrà avere la capacità di misurarsi con essa, oltre che quella di gestire le contraddizioni derivanti dal difficile equilibrio tra nazionalismo e sviluppo economico.18)Funabashi Yōichi, Iokibe Makoto, “Ayauku bukimina ‘Chūgoku no yume’. Chiseigakuteki shiten kara no senryaku o”, Chūōkōron, 129, 100-9. Parimenti convinto degli intenti revisionistici della Cina ma ancor più netto nella formulazione del suo giudizio è Haruna Mikio. Secondo il professore emerito dell’Università Waseda, il fine ultimo della Cina è la creazione di “una versione contemporanea della Sfera di co-prosperità della grande Asia orientale”. L’elemento che potrebbe neutralizzare questo disegno è il TPP che produrrebbe un accerchiamento economico della Cina.19)Ben più moderati i toni degli altri protagonisti del dibattito ospitato sulle pagine della rivista. Cfr. Morimoto Satoshi, Sakurai Yoshiko, Oriki Ryōichi, Haruna Mikio, Satō Masaru, Gomi Yōji, Tomisaka Satoshi, “Abe seiken vs. Shū Kinpei, Kimu jōn un”, Bungei shunjū, 91, 128-144.

Il sogno cinese e i suoi corollari vengono presentati in molti casi non come il prodotto di una centralità legittimamente riconquistata, ma come una rivendicazione pretenziosa, se non come un atto di vera e propria arroganza. È interessante che per esprimere questa accusa venga utilizzata anche un’espressione cara allo stesso Partito comunista cinese, “non prestar fede alle eresie” (bu xinxie 不信邪).20)Sono grata alla collega Flora Sapio per avermi segnalato l’utilizzo di questa espressione da parte del Partito comunista cinese. È quanto fa Junhua Wu, ad esempio. Intervistata in un articolo, la studiosa cinese spiega che, dopo il suo ritorno sulla scena mondiale, la Cina è diventata prigioniera di una autoreferenzialità narcisistica che la porta a bollare come “eresia” qualunque critica al suo operato. Questa hybris, che secondo Junhua Wu ricorda quella del Giappone negli anni Ottanta, sarà destinata a minare le possibilità di successo delle politiche cinesi, trasformando l’economia cinese da “volano dell’economia mondiale” a “problema” dell’economia mondiale.21)Junhua Wu, Ozeki Kōya, 68-72. Una previsione ugualmente pessimista è formulata anche in altri contributi, significativamente raccolti all’interno del numero monografico “Le prospettive di vita della Cina egocentrica. Fino a quando proseguirà il dominio del partito unico”, pubblicato da Chūōkōron nel maggio 2014. In un articolo a firma del già menzionato Yaita, ad esempio, si paventa il declino della Cina imputandolo al venir meno di uno dei quattro fattori (la “capacità di risolvere i problemi”) che ne avrebbero consentito fino a quel momento la sopravvivenza.22)Gli altri tre fattori, secondo l’autore, sono: la crescita economica; la capacità di sopportazione della popolazione; l’eccellenza della burocrazia. Yaita Akio, “Taigai  kyōkō seisaku wa Shū Kinpei no yowasa no uragaeshi”, Chūōkōron, 129, 36-43. In un altro contributo, pubblicato l’anno successivo sulla stessa rivista all’interno del numero monografico “La linea di Xi Jinping avrà successo? Il punto debole della Cina, grande mercato”, l’analisi è più sobria, ma le previsioni sul declino della Cina ugualmente perentorie: le difficoltà derivanti da un’equilibrata condivisione del potere e dall’utilizzo di bastone e carota, così come il trade-off tra sviluppo economico e lotta alla corruzione vengono indicati come fattori di vulnerabilità nel breve e lungo periodo.23)Kamo Tomoki, “Shū Kinpei seiken no ‘hanfuhai’ to wa nani ka”, Chūōkōron, 129, 64-71. Più recentemente, il punto debole della Cina è stato individuato nella pandemia di Covid. La gestione inadeguata delle informazioni da parte di Xi Jinping nella prima fase dell’epidemia è stata presentata come il segno di una fragilità destinata a crescere, trascinando con sé l’intero Paese.24)Shiroyama Hidemi, “Shū Kinpei ‘kyōfu shihai’ ga maneita kansen bakuhatsu”, Bungei shunjū, 98, 104-112.

Di fronte alla Cina in ascesa, il Giappone è esortato a reagire. In alcuni articoli, l’esortazione si sostanzia in un invito al realismo. È necessario smetterla di guardare la Cina con gli occhi del proprio paese. Bisognerebbe confrontarsi con la realtà della politica internazionale piuttosto che ragionare in termini normativi, come se le relazioni internazionali fossero guidate dall’etica confuciana ispirata al principio “incoraggiare il bene e punire il male” (kanzen chōaku). Concretamente, si tratta di non abbandonare i valori liberali che sono alla base della diplomazia giapponese, ma di calarli nella realtà in modo da essere capaci di garantire la massimizzazione degli interessi nazionali. L’esempio proposto dagli autori Tomisaka Satoshi, professore all’Università Takushoku, e Okamoto Takashi, professore all’Università Kyōto furitsu daigaku, è quello del Vietnam che sceglie di diventare membro della Asian Infrastructure Investment Bank, ma non per questo rinuncia a tenere una linea assertiva sulle questioni territoriali.25)Tomisaka Satoshi, Okamoto Takashi, “Nihonjin ga ‘Chūgoku no riron’ o yomitokenai riyū”, Chūōkōron, 130, 73-79. Il richiamo al realismo è contenuto anche nel già citato articolo sull’affaire Zhu, nel quale l’intervistato Murai Tomohide, professore emerito dell’Accademia nazionale di difesa, perora la causa di un cambio di paradigma da parte del Giappone. Secondo Murai, alla luce della spregiudicatezza della Cina, è necessario rivalutare l’importanza dell’intelligence nelle strategie nazionali giapponesi e rimpiazzare gli studi sulla pace, ai quali il Giappone ha dedicato energie e risorse negli anni della Guerra fredda, con corsi di studi sulla sicurezza e sui conflitti. Infine, vale la pena menzionare il titolo del numero monografico pubblicato da Bungei shunjū nel novembre 2015 “Giappone, che sei arrivato a comprendere la ‘verità’ sul pericoloso vicino, supera la Cina!”. Echeggia in queste parole lo slogan di epoca Meiji (1868-1912) “raggiungere e superare” (oitsuki, oikose), riferito allora all’Occidente e oggi alla Cina che, dal canto suo, ha già portato a termine il suo sorpasso, diventando la seconda economia del mondo al posto del Giappone nel 2010.

Conclusioni

L’elemento più significativo che emerge dall’analisi effettuata è il prevalere di un atteggiamento tendenzialmente critico nei confronti della Cina. I toni usati per descrivere il Paese vicino sono spesso diffidenti, intransigenti, a volte caustici, soprattutto negli articoli pubblicati dalla rivista Bungei shunjū. Si tratta di un dato in linea con il sentire dell’opinione pubblica giapponese nello stesso periodo, come confermano i sondaggi realizzati annualmente dal governo sulla politica estera. La sezione relativa alle relazioni tra Cina e Giappone evidenzia che il livello di misosinia dei giapponesi è stato consistente negli anni compresi tra il 2013 e il 2021. La percentuale di intervistati che dichiara di “non provare simpatia per la Cina” si è sempre attestata al di sopra del 70%, con picchi negativi nel 2016, quando è stata dello 83,2%.26)I sondaggi sono realizzati ogni anno, intervistando un campione di 3000 persone di nazionalità giapponese, con età superiore a 18 anni. I dati sopra citati sono tratti dalla sezione “Le relazioni del Giappone con gli altri Paesi”. Per l’edizione del 2016, si veda: Gaikō ni kan suru seiron chōsa, Cfr. https://survey.gov-online.go.jp/h27/h27-gaiko/2-1.html. Le edizioni degli anni compresi tra il 2013 e il 2021 sono consultabili al seguente link https://survey.gov-online.go.jp/index-gai.html

In ultima analisi, la misosinia sembra nascondere un atteggiamento ambivalente. La Cina del “sogno cinese” è criticata perché temuta, percepita come una minaccia che incombe sul Giappone. È indubbio che l’ascesa economica e militare di Pechino pone una questione ineludibile a Tokyo, sollecitando una ridefinizione del suo ruolo regionale e globale, peraltro in un quadro gravato oggi più che mai da incognite di varia natura. All’interno di questo nuovo scenario, le relazioni sino-giapponesi potranno essere orientate alla collaborazione, come la crescente interdipendenza tra i due Paesi sembrerebbe suggerire, oppure segnate da una maggiore conflittualità. Negli anni 2013-2021, ancor più di oggi, le due prospettive coesistevano nel novero delle possibilità. Tuttavia, nel linguaggio e nei contenuti degli articoli pubblicati su Chūōkōron e Bungei shunjū prevale un orientamento pessimista. I margini per la collaborazione con la Cina sono scarsamente considerati. Inoltre, spesso si preferisce presupporre che la rilevanza del vicino sia destinata a ridimensionarsi, piuttosto che fare i conti con la sua persistenza in futuro. Si spiegano così le tesi decliniste esposte in vari articoli — il “dibattito sul collasso della Cina” (Chūgoku hōkairon) — e il loro rovescio, cioè l’interrogarsi sulle capacità effettive della Cina e di Xi Jinping.

In conclusione, è opportuno evidenziare che l’atteggiamento tendenzialmente negativo nei confronti della Cina che contraddistingue gli articoli pubblicati sulle due riviste non dovrebbe essere caricato di valenze eccessive. L’analisi dimostra infatti che è importante contestualizzare la misosinia, considerando le sue diverse componenti. Nonostante i toni spesso usati, la ricchezza dei contributi e il loro numero crescente sui due mensili testimonia la volontà di approfondire la conoscenza e l’analisi della Cina, fornendo al lettore gli strumenti per comprendere meglio l’era di Xi Jinping. Inoltre, numerosi elementi mostrano che nel mondo editoriale dei mensili così come nell’opinione pubblica giapponese convivono diverse sensibilità. Ai giovani che, come confermano i dati disaggregati dei sondaggi, hanno in linea di massima un atteggiamento più benevolo nei confronti del vicino, si affiancano gli ultrasessantenni, complessivamente più propensi alla diffidenza e alla critica. Allo stesso modo, sulle pagine delle due riviste analizzate, articoli dal taglio più sobrio e distaccato si alternano a contributi che ammiccano al sensazionalismo. Del resto, il quadro diventerebbe ancora più composito e contradditorio, se si ampliasse il novero delle riviste analizzate.

Immagine: copertina da un numero di Bungei shunjū.

Noemi Lanna è professoressa associata presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” dove insegna “Storia ed istituzioni del Giappone” e “Japan in the international system”. Dopo la laurea in Scienze politiche presso l’Istituto Orientale di Napoli, ha conseguito un M. A. in Scienze sociali all’Università Hitotsubashi e un dottorato in studi orientali presso l’Università “L’Orientale”. È stata visiting PhD candidate del “Center for International Studies” del Massachusetts Institute of Technology (2003-4), visiting professor all’Università di Kobe (2016) e alla Ruhr Universitat Bochum (2019). I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla storia moderna e contemporanea del Giappone (con particolare attenzione alla storia intellettuale del secondo dopoguerra) e sulla storia internazionale dell’Asia orientale (con particolare attenzione al ruolo del Giappone nello scacchiere asiatico).

References
1 Baba Kimihiko, Sengo nihonjin no Chūgokuzō. Nihon haisen kara bunka daikakumei nicchū fukkō made (Tokyo: Shinyōsha, 2010), 26.
2 Entrambe le riviste possono essere considerate espressione di posizioni largamente diffuse, seppur tendenzialmente più vicine a un orientamento conservatore. Ciò è vero in particolar modo per Bungei shunjū. Tuttavia, la varietà e la profondità delle analisi proposte, nonché il ricorso frequente alle competenze specifiche di esperti, in linea con la tradizione dei mensili giapponesi, garantisce rappresentanza a un ampio spettro di punti di vista.
3 Ibidem, 52.
4 Tra il 1973 e il 1979, Chūōkōron pubblicò ben 104 articoli sulla Cina.  Bungei shunjū, dal canto suo, arrivò a quota 52.  Nel periodo compreso tra il 1979 e il 1987, la quota scese a 97 per Chūōkōron e salì a 53 per Bungei shunjū. Infine, tra il 1988 e il 1992 gli articoli sulla Cina di Chūōkōron furono 60, mentre quelli pubblicati da Bungei shunjū 27. Baba Kimihiko, Gendai Nihonjin no Chūgokuzō. Nicchū kokkō shōjōka kara Tenanmon jiken, Tennō hōchū made (Tokyo: Shinyōsha, 2014), 34; 59; 98.
5 Si veda ad esempio: Kurokawa Midori, Yamada Satoshi, Hyōden Takeuchi Yoshimi: sono shisō to shōgai (Tokyo: Yūshisha, 2020); Nakamura Sunao, Sengo Nihon to Takeuchi Yoshimi (Tokyo: Yamakawa shuppansha, 2019); Kurokawa Midori, Yamada Satoshi, Takeuchi Yoshimi to sono jidai: rekishigaku kara no taiwa (Tokyo: Yūshisha, 2018); Sun Ge, Takeuchi Yoshimi to iu toi (Tokyo: Iwanami, 2015); Asakawa Fumi, Qu Qiubai, Asato Akira, Ro jin bungaku o yomu: Takeuchi Yoshimi “Ro jin” no hihanteki kenshō (Tokyo: Supeesu kaya,  2010); Tsurumi Shunsuke, Takeuchi Yoshimi: aru hōhō no denki (Tokyo: Iwanami, 2010, edizione originale 1995); Watanabe Kazutami, Takeda Taijun to Takeuchi Yoshimi: kindai Nihon ni totte no Chūgoku (Tokyo: Misuzu shobō, 2010); Marukawa Tetsushi, Takeuchi Yoshimi: Ajia to no deai (Tokyo: Kawade shobō shinsha, 2010); Marukawa Tetsushi, Suzuki Masahisa (a cura di), Takeuchi Yoshimi, Takeuchi Yoshimi Serekushon: “sengo shisō” o yominaosu (Tokyo: Nihon keizai hyōronsha, 2006); Tetsushi, Suzuki Masahisa (a cura di), Takeuchi Yoshimi, Ajia e no/kara no manazashi (Tokyo:Nihon keizai hyōronsha, 2006); Tetsushi, Suzuki Masahisa (a cura di), Takeuchi Yoshimi, Nihon e no/kara no manazashi (Tokyo: Nihon keizai hyōronsha, 2006).
6 Tra gli accademici, segnaliamo, ad esempio: Shiraishi Takashi, professore emerito della Seisaku kenkyū daigakuin daigaku (nota in inglese come National Graduate Institute for Policy Studies, GRIPS), Kawashima Shin, professore all’Università di Tokyo; Tomisaka Satoshi, professore all’Università Takushoku; Okamoto Takashi, professore all’Università Kyōto furitsu daigaku; Kamo Tomoki, professore all’Università Keiō; Katō Hiroyuki, professore all’Università di Kōbe; Iokibe Makoto, allora rettore della Kumamoto kenritsu Daigaku; Funabashi Yōichi, presidente dell’istituto Nihon saisei inishatibu. Per quanto riguarda il coinvolgimento di studiosi cinesi, si veda ad esempio, l’interessante intervista a Junhua Wu, allora direttrice del think-tank Nihon sōgō kenkyūjo (sede di Washington). Junhua Wu, Ozeki Kōya, “Hanfuhai, kaiyō shinshutsu, kabuka taisaku ‘bu xinxie’ to iu chototsu mōshin no hate ni”, Chūōkōron, 129, 66-73.
7 Shiraishi Takashi, Kawashima Shin, Shū Kinpei masa ni tsuyoi riidaa ka. Kenryoku kiban, kaiyō shinshutsu, keizai senryaku”, Chūōkōron, 129, 30-41.
8 Yaita Akio, “Shū Kinpei no rikiryō busoku ga motarasu aratana kenryoku tōsō”, Chūōkōron, 128, 63.
9 Ibidem, p. 67.
10 Yasuda Minetoshi, “Shū Kinpei ‘Nihon ryōtei no yoru’. Nihojin hachinin ga shōgen suru dokusaisha no sugao”, Bungei shunjū, 99, 240-247.
11 Ibidem, 240; 243.
12 Miyamoto Yūji, Nakazawa Katsushi, Ako Tomoko, “Shū Kinpei ga Mō takutō ni naru hi. Gendai no dokusaisha ka, hadaka no ōsama ka”, Bungei shunjū, 97, 304-314.
13 È il caso, ad esempio, di un’inchiesta sull’affaire Zhu Jianrong, il professore cinese in servizio presso l’Università giapponese Tōyō gakuen, accusato di essere una spia dalla Cina e detenuto dal luglio 2013 alla fine di febbraio del 2014. Murai Tomohide, “Tai nichi kōsaku, chōhō katsudō… kuimono ni sareru Nihon”, Chūōkōron, 128, 88-95.
14 Cfr., ad esempio, Junhua Wu, Ozeki Kōya, 66-73; Katō Hiroyuki, “Hanfuhai sae mo chikara ni suru Chūgokugata shihonshugi. ‘Aimai na seido’ no shitatakasa”,Chūōkōron, 129, 54-59; Kamo Tomoki, “Shū Kinpei seiken no ‘hanfuhai’ to wa nani ka”, Chūōkōron, 129, 64-71;
15 Miyake Kunihiko, Miyazaki Tetsuya, “Chūgoku o torikome”, Bungei shunjū, 92, 125-129.
16 Franco Mazzei, “La nozione di spazio-rete nella geopolitica delle connessioni di Xi Jinping. Note a margine del tele-seminario del CSCC del 3/12/2021”, http://www.cscc.it/upload/doc/Lo%20spazio%20rete%20di%20Xi%20Jinping.pdf (ultimo accesso 31-03-2022).
17 Shiraishi Takashi, Kawashima Shin, 33.
18 Funabashi Yōichi, Iokibe Makoto, “Ayauku bukimina ‘Chūgoku no yume’. Chiseigakuteki shiten kara no senryaku o”, Chūōkōron, 129, 100-9.
19 Ben più moderati i toni degli altri protagonisti del dibattito ospitato sulle pagine della rivista. Cfr. Morimoto Satoshi, Sakurai Yoshiko, Oriki Ryōichi, Haruna Mikio, Satō Masaru, Gomi Yōji, Tomisaka Satoshi, “Abe seiken vs. Shū Kinpei, Kimu jōn un”, Bungei shunjū, 91, 128-144.
20 Sono grata alla collega Flora Sapio per avermi segnalato l’utilizzo di questa espressione da parte del Partito comunista cinese.
21 Junhua Wu, Ozeki Kōya, 68-72.
22 Gli altri tre fattori, secondo l’autore, sono: la crescita economica; la capacità di sopportazione della popolazione; l’eccellenza della burocrazia. Yaita Akio, “Taigai  kyōkō seisaku wa Shū Kinpei no yowasa no uragaeshi”, Chūōkōron, 129, 36-43.
23 Kamo Tomoki, “Shū Kinpei seiken no ‘hanfuhai’ to wa nani ka”, Chūōkōron, 129, 64-71.
24 Shiroyama Hidemi, “Shū Kinpei ‘kyōfu shihai’ ga maneita kansen bakuhatsu”, Bungei shunjū, 98, 104-112.
25 Tomisaka Satoshi, Okamoto Takashi, “Nihonjin ga ‘Chūgoku no riron’ o yomitokenai riyū”, Chūōkōron, 130, 73-79.
26 I sondaggi sono realizzati ogni anno, intervistando un campione di 3000 persone di nazionalità giapponese, con età superiore a 18 anni. I dati sopra citati sono tratti dalla sezione “Le relazioni del Giappone con gli altri Paesi”. Per l’edizione del 2016, si veda: Gaikō ni kan suru seiron chōsa, Cfr. https://survey.gov-online.go.jp/h27/h27-gaiko/2-1.html. Le edizioni degli anni compresi tra il 2013 e il 2021 sono consultabili al seguente link https://survey.gov-online.go.jp/index-gai.html