Per i paesi dell’ASEAN, l’Associazione degli Stati del Sud-Est Asiatico, l’inarrestabile ascesa del gigante cinese costituisce un’opportunità, una minaccia, una suggestione o un modello. Per molti governi della regione, Pechino rappresenta un partner capitalistico e geopolitico alternativo a Washington nel quadro di un conflitto fra super potenze che vede moltiplicarsi i terreni di scontro. Dal Mar Cinese Meridionale allo Stretto di Malacca, dal bacino del Mekong alle zone montuose di confine, la contesa sino-americana scuote gli equilibri di governo nel Pacifico Occidentale – crocevia strategico di rotte energetiche, marittime e commerciali sin dall’antichità – ridisegnando alleanze storiche, configurazioni diplomatiche, e catene globali del valore.

Inevitabilmente, l’avanzata del Dragone rosso nei territori di nán yáng (“oceano meridionale”)1)Il termine cinese nán yáng, utilizzato nel Celeste impero in riferimento all’Asia sud-orientale, sottende uno sguardo sinocentrico sulla regione. Si veda, ad es., Emmerson, D.K., “’Southeast Asia’: What’s in a Name?”, Journal of Southeast Asian Studies, 15(1), 1984, 1-21. è percepita chiaramente, ed elaborata culturalmente, anche fuori dai palazzi del potere, da Bangkok a Manila, da Singapore a Yangon, soprattutto fra i giovani. La proliferazione culturale di discorsi pubblici, conversazioni private, e immaginari digitali sulla “Cina” a tutte le latitudini sociali dell’Asia sud-orientale – regione, è opportuno ricordarlo, che ospita la più antica, eterogenea e numerosa diaspora cinese del mondo – ne è la dimostrazione inequivocabile. In questo contesto altamente complesso, la Thailandia rappresenta un punto d’osservazione peculiare.

Recrudescenze autoritarie: il modello cinese in Thailandia

Unico fra gli stati del Sud-est asiatico ad aver conservato l’indipendenza in epoca coloniale, il Siam-Thailandia2)La “rivoluzione siamese” del 1932 pone fine all’assolutismo monarchico in Siam, segnando l’avvento della monarchia costituzionale di matrice parlamentare. Nel 1939, il nome del regno viene cambiato in Thailandia, termine carico di valenze etniche in ossequio alla propaganda identitaria del nuovo nazionalismo di stato. è oggi la seconda economia dell’ASEAN. I cittadini thailandesi di origine cinese – fra i quali figurano ex primi ministri, dirigenti industriali, militari d’alto rango, persino membri della famiglia reale – costituiscono il 12-14% della popolazione (circa 10 milioni di persone). Perfettamente integrati nel tessuto socio-economico e politico della capitale, controllano oltre l’80% delle società quotate in borsa. In epoca coloniale, gli avi di questi moderni cittadini – navigatori, mercanti, uomini d’affari, e contadini di etnia Han – hanno portato con sé fondamenti culturali di tradizione cinese. Nondimeno, molti sino-thai contemporanei non sanno parlare il cinese, non sono mai stati in Cina, né progettano di farlo: si sentono pienamente thailandesi.

Rispetto ad altri stati-nazione dell’Asia sud-orientale (segnatamente: Malesia, Singapore ed Indonesia), la Thailandia ha infatti conseguito un considerevole successo storico nell’assimilazione etno-linguistica delle numerose minoranze residenti entro i suoi confini. Le campagne razziste inaugurate da Re Vajiravudh (Rama VI) ad inizio Novecento,3)Lo scritto del 1914 con il quale Rama VI definisce i cinesi “Ebrei d’oriente” illustra i toni anti-cinesi che connotano il nazionalismo monarchico siamese di inizio Novecento. poi rinvigorite dal “fascismo siamese” del generale Phibun Songkhram nelle decadi successive, hanno efficacemente sostenuto la “thaificazione” coercitiva della popolazione “non thai”.4)Barmé, S., Luang Wichit Wathakan and the Creation of Thai Identity (Singapore: Institute of Southeast Asian Studies, 1993). Fra le misure adottate per scongiurare la “sinizzazione” della popolazione è possibile annoverare l’introduzione generalizzata di cognomi thailandesi, l’abolizione delle scuole cinesi, e l’imposizione di dazi fiscali mirati a cavallo del Ventesimo secolo.

Significativamente, la Thailandia emerge dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale come il “principale alleato non membro della NATO”. Determinati ad arrestare la diffusione del “morbo comunista” nella penisola indocinese, gli Stati Uniti hanno finanziato lautamente le brutali giunte militari che si sono alternate alla guida del regno buddista, trasformando la “Terra dei sorrisi” in una base militare di straordinaria importanza geostrategica nel corso della Guerra del Vietnam. Il miracolo economico thailandese, tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, è generalmente analizzato in relazione a questa partnership capitalistico-bellica.

La fine della Guerra Fredda e, soprattutto, la crisi finanziaria asiatica del 1997 segnano l’avvento di nuove, prolifiche relazioni fra Thailandia e Cina, ormai convertitasi al vituperato sistema capitalista, e reduce da decadi di strabiliante sviluppo economico. Il sostegno finanziario cinese è risultato provvidenziale nell’arginare gli effetti catastrofici della crisi sul PIL thailandese, e persuaso i quadri politici del regno buddista dell’opportunità rappresentata dal nuovo corso. Gli anni 2000 vedono quindi il fiorire di accordi sull’asse Bangkok-Pechino: commerciali, militari, scientifici e infrastrutturali. Al contempo, i governi thailandesi hanno continuato a rassicurare l’alleato americano sulla solidità dell’alleanza fra Thailandia e Stati Uniti: una “diplomazia del bambù”5)Pavin Chachavalpongpun, “The Military Regime’s Foreign Policy in an Era of Rising Illiberalism”, in Pavin Chachavalpongpun (a cura di), Coup, King, Crisis: A Critical Interregnum in Thailand (New Haven: Yale University Southeast Asia Studies 2020), 271-95. che asseconda la direzione del vento politico in un quadro di dipendenze esplicitamente multi-polare.

Questo equilibrio di relazioni internazionali, governato instabilmente dall’acrobatismo diplomatico thailandese, sembra registrare un pericoloso cedimento nel 2014, quando il governo democraticamente eletto di Yingluck Shinawatra viene deposto con un golpe dall’ex comandante dell’esercito Prayuth Chan-o-cha, attuale primo ministro del Regno di Thailandia. È l’ennesima svolta autoritaria in un paese già sfibrato da 12 colpi di stato negli ultimi ottant’anni: un protagonismo militare contrassegnato da violazioni sistematiche dei diritti umani, intimidazioni alla stampa, detenzione arbitraria di attivisti e accademici, paralisi democratica.

Il pugno duro dei militari ha percosso con particolare forza il corpo sociale thailandese durante la delicata transizione monarchica, quando il padre divinizzato della nazione, Re Bhumibol Adulyadej (Rama IX), scomparso nel 2016 dopo 70 anni di regno, consegna il trono al figlio, Maha Vajiralongkorn (Rama X), figura controversa e pericolosamente distante dall’ideale mitizzato del Dharmaraja: il “re virtuoso” che, nella cosmologia indo-buddhista dell’Asia sud-orientale, si colloca meritoriamente al vertice della gerarchia sociale.6)Tambiah, S., World Conqueror & World Renouncer. A Study of Buddhism and Polity in Thailand against a Historical Background (London: Cambridge University Press, 1976).

L’ennesimo intervento dell’esercito negli affari politici thailandesi ha destabilizzato, quanto meno inizialmente, la collocazione filo-atlantica della Thailandia. La centralità ideologica di “democrazia” e “diritti umani” nella nuova politica estera occidentale (al netto del funesto interludio trumpiano) ha imposto prese di posizione ufficiali. In Europa e negli Stati Uniti, l’imbarazzo era palpabile. All’indomani del colpo di stato, il governo di Barack Obama ha annunciato sanzioni: sospensione dei contributi finanziari, provvedimenti contro la giunta militare, esclusione della marina thailandese dal RIMPAC (Rim of the Pacific Exercise) – un’esercitazione marittima internazionale guidata dal comando statunitense del Pacifico dal 1971. I rapporti con lo storico alleato americano si sono normalizzati solo nel 2019, con la discussa conferma elettorale di Prayuth alla guida del governo thailandese;7)Le elezioni generali del 2019, considerate da molti osservatori una farsa, sono state precedute dalla “revisione militare” della costituzione thailandese (2017), con la quale il senato del regno buddhista è stato trasformato da assemblea legislativa elettiva ad avamposto permanente dell’esercito in parlamento. ma il vento è cambiato e soffia verso est.

La Cina di Xi Jinping è ormai una presenza radicata capillarmente nella regione, al contempo reattiva e discreta nell’offrire sponde politico-finanziarie agli ex stati tributari di nán yáng, snodo cruciale della Nuova via della seta, per aggirare sanzioni e divincolarsi dall’abbraccio occidentale. Non meno importante, l’efficienza con la quale il Partito Comunista Cinese si dimostra capace di reprimere il dissenso interno rappresenta un modello seducente per molte autocrazie del Sud-est asiatico continentale, come dimostra la drammatica evoluzione della crisi politico-istituzionale in Myanmar, dove persistono le manifestazioni di piazza nonostante le uccisioni di massa di civili inermi da parte dell’esercito di Min Aung Hlang – il generale golpista alla guida del paese dopo la destituzione di Aung San Suu Kyi nel Febbraio 2021.

Questa congiuntura di deterioramento democratico, autoritarismo militare, e recrudescenze illiberali costituisce il sostrato regionale dell’avanzata cinese in Asia sud-orientale. In questo contesto si innestano le velleità dittatoriali di Prayuth Chan-o-cha. Non sorprende pertanto che il suo governo restauratore, militare e filo-monarchico, abbia iniettato nuova linfa nelle relazioni bilaterali sino-thai, particolarmente preziose durante la pandemia di COVID-19, quando la Cina – primo investitore straniero in Thailandia, e partner strategico nel Corridoio economico orientale (Eec)8)Il Corridoio economico orientale (Eec) è un’area economica speciale – integrata alla Nuova via della seta – cui il governo militare thailandese ha dato sviluppo nel 2017. – è corsa in soccorso di Bangkok, fornendo vaccini e sostegno finanziario.

Dissenso generazionale: l’attivismo anti-cinese dei netizen thailandesi  

Quello proposto sin ora, in modo succinto e necessariamente semplicistico, è un resoconto squisitamente politologico – inevitabilmente stato-centrico – delle cangianti percezioni sulla Cina nei territori dell’ASEAN, in particolare in Thailandia. Analisi di questo tipo, spesso sorrette da categorie analitiche che si collocano nel solco disciplinare delle relazioni internazionali, privilegiano il punto di vista delle amministrazioni statali, delle cancellerie, e dei vertici di governo, relegando sullo sfondo una dimensione cruciale del problema: la produzione, circolazione, e diffusione transnazionale di rappresentazioni culturali sulla Cina al di fuori dei circuiti diplomatici del potere, fra i cittadini ordinari, specie di giovane età.

Mentre il governo militare thailandese guarda a Pechino con interesse crescente, i manifestanti anti-governativi che affollano le piazze di Bangkok dal Febbraio 2020 – ragazze e ragazzi, spesso sino-thai, non di rado minorenni – convogliano nello spazio digitale appelli democratici e critiche feroci all’autoritarismo che travalicano i confini territoriali dello stato-nazione attraverso le ramificazioni tentacolari della rete. A colpi di hashtag quali #lunga-vita-alla-democrazia (#ทรงประชาธิปไตยเจริญ, riformulazione pungente del motto “lunga vita al re” ทรงพระเจริญ) o #siamo-adulti-e-possiamo-scegliere-da-soli (#โตแล้วเลือกเองได้), questi giovani netizen urbanizzati – “post-millenials” cresciuti a riso e Facebook – delegittimano sprezzanti il paradigma politico del paternalismo monarchico, rivendicando il proprio ruolo di cittadini consapevoli, e rammentando ai militari i fondamenti della democrazia rappresentativa.9)Bolotta, G., Riscrivere la storia: la rivoluzione pop dei “bambini” thailandesi in RISE, vol. 6, 2021, 11-15.

La loro protesta si avvale di icone pop, rivisitate in chiave politica attraverso performance musicali, artistiche e teatrali, subito virali su social media e piattaforme digitali. Eroine hollywoodiane, star coreane dal look androgino, e cartoni animati giapponesi sono i protagonisti inaspettati di messe in scene satiriche finalizzate a imbarazzare il potere e veicolare messaggi proibiti. Il “gesto delle tre dita”, per citare l’esempio più noto, è stato sdoganato dai giovani manifestanti thailandesi in antitesi al colpo di stato del 2014.Tratto dalla saga cinematografica The Hunger Games, è presto divenuto archetipo di resistenza democratica in tutta la regione, bel al di là della Thailandia (Fig. 1).

Figura 1: Il saluto delle tre dita è un gesto di dissenso utilizzato dai manifestanti pro-democrazia thailandesi dal colpo di stato del 2014. Screenshot di un’immagine da YouTube

Nel corso del 2020, l’immaginario generazionale che sostiene l’attivismo cibernetico thailandese – largamente cosmopolita, anti-(etero)normativo, orizzontale e post-nazionale – ha forgiato diverse allegorie virtuali per riferirsi in modo figurato, e non direttamente perseguibile, all’autoritarismo illiberale del governo militare di Prayuth. La stretta finale di Pechino su Hong Kong e i suoi giovani dissidenti, in particolare, è stata assunta dai manifestanti thailandesi a paradigma di transizione autoritaria in Asia orientale, caso esemplare di repressione illiberale da scongiurare. La sequenza di avvenimenti che ha spinto i manifestanti di Bangkok ad accostarsi goliardicamente alla Cina come “meme di autoritarismo” è importante, perché illustra l’apparente aleatorietà delle logiche culturali che sostengono il dissenso giovanile nell’era dei social network.

A dispetto delle analisi politologiche con le quali ha preso avvio questo articolo, l’avversione dei giovani attivisti thailandesi nei confronti del regime cinese, in quanto caso esemplare di autoritarismo asiatico, prende inizialmente forma attorno a una delicata storia omosessuale maschile, con protagonisti studenti poco più che adolescenti: “Perché siamo assieme” (เพราะเราคู่กัน) – serie TV thailandese che traspone nel contesto di un campus universitario il genere giapponese di fumetti noto come yaoi o boys’ love. In cima alle preferenze dei netizen e delle netizen di Bangkok, come di Jakarta, Manila, Singapore, e Pechino (!), l’immensa popolarità della serie fra i giovani dell’Asia orientale segnala la ri-articolazione oppositiva delle espressioni di genere nella regione, in contesti patriarcali storicamente segnati dal machismo militare.

Quando l’attore thailandese Vachirawit Chivaaree (alias: Bright), protagonista di “Perché siamo assieme”, ha suggerito sul suo profilo Twitter che Hong Kong è una “nazione”, si è scatenato il putiferio. I follower cinesi di Vachirawit, fra i quali figurerebbero schiere di troll mobilitate tempestivamente dal Ministero di pubblica sicurezza della Repubblica Popolare Cinese, si sono scagliati contro l’attore, bersagliando il suo profilo – e quello della sua compagna Weeraya Sukaram, nota virtualmente come #Nnevvy (gia! Vachirawit è eterosessuale nella vita reale) – di invettive nazionaliste e messaggi di sdegno.

Sul social network cinese Weibo, l’hashtag #Nnevvy è stato visualizzato da circa 4 miliardi di utenti indignati.10)Griffiths, J., “Nnevvy: Chinese Troll Campaign on Twitter Exposes a Potentially Dangerous Disconnect with the Wider World”, CNN, 15 aprile 2020. La fidanzata dell’attore thailandese si sarebbe macchiata dell’ignominia di aver espresso supporto virtuale all’indipendenza di Taiwan, scatenando riprovazione fra i netizen cinesi. I supporter thailandesi di Vachirawit (e compagna) si sono quindi attivati in difesa dell’attore; ne è seguita una guerra cibernetica che ha visto i giovani internauti scambiarsi messaggi al vetriolo e insulti simmetrici. Tuttavia, quando i troll cinesi, motivati a denigrare il patriottismo thailandese, hanno coperto di ingiurie il governo ed il Re di Thailandia, si sono dovuti confrontare con una reazione inaspettata: “gridatelo più forte!” (ดังขึ้นอีก), hanno risposto i thailandesi (Figg. 2 e 3).

Figg 2 e 3. I fan thailandesi dell’attore Vachirawit (Bright) rispondono agli attacchi dei netizen cinesi. Screenshot di un thread di messaggi su Twitter.

Del resto, i giovani thailandesi – in piazza contro i militari e la corona da mesi – sono i principali portavoce delle critiche al governo del Regno: un posizionamento politico interno piuttosto distante da quello assunto dai coetanei cinesi in relazione al Partito Comunista Cinese. La discrasia nazionalistica fra gli internauti delle opposte fazioni, improvvisamente evidente, segna un punto di svolta, e allarga la contesa. Il popolo digitale di Hong Kong e Taiwan si unisce ai thailandesi. Attivisti del calibro di Joshua Wong e Nathan Law11)Joshua Wong si trova attualmente in carcere per aver partecipato alla veglia del 4 giugno 2020 in ricordo delle vittime della repressione di Piazza Tienanmen del 1989. Il 2 Luglio 2020, Nathan Law ha lasciato Hong Kong; si trova attualmente nel Regno Unito, a seguito dell’attuazione della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nell’ex colonia britannica. scendono in campo (Figg. 4 e 5).

Figg. 4 e 5: Joshua Wong e Nathan Law offrono supporto ai fan thailandesi di Vachirawit “Bright”. Screenshot di messaggi sui profili Twitter di Joshua Wong e Nathan Law.

In poche settimane – i tempi di interazione digitale e “virologia cibernetica” sono assai più celeri della diplomazia, e dei suoi passi elefantiaci – compare sulla scena un nuovo soggetto collettivo, ricettacolo transnazionale del discontento giovanile anti-cinese in Asia: la Milk Tea Alliance. Sotto l’insegna di un altro meme (il tè al latte), associato all’onnipresente hashtag #Nnevvy, netizen thailandesi, taiwanesi, hongkonghesi, birmani, e filippini si sono coalizzati per denunciare il bullismo di Pechino e invocare democrazia e diritti umani nella regione. Diversamente da quanto accade in Cina, in molti paesi del Sud-est asiatico il tè viene consumato col latte, come a Taiwan e ad Hong Kong. Il latte marca dunque una differenza, che i giovani dissidenti della Milk Tea Alliance hanno investito di furore simbolico: dove si beve il tè col latte si lotta per la democrazia. La Cina, specularmente, sarebbe il locus dell’autoritarismo.

La guerra cibernetica ha messo in imbarazzo i rappresentanti del governo thailandese; l’ambasciata cinese di Bangkok si è affrettata a ricordare che “Cinesi e thailandesi sono fratelli” (จีนไทยพี่น้องกัน), ma il dado è tratto. Da Aprile 2020, bandiere di Hong Kong e Taiwan vengono sventolate nei siti di protesta anti-governativa in Thailandia; insegne della Milk Tea Alliance compaiono anche a Yangon in antitesi alla dittatura militare di Min Aung Hlang (Fig. 6).

Figura 6: Proteste di piazza in Myanmar. Screenshot di un’immagine postata sul profilo Facebook Milk Tea Alliance.

Il meme anti-cinese è fuoriuscito dalla rete e ha fatto capolino nella realtà delle manifestazioni pro-democratiche di piazza, allargando i propri confini semantici. Attraverso una serie vorticosa, e virtuale, di iterazioni ricorsive la Cina è divenuta simbolo aspecifico, generalizzato e de-territorializzato di autoritarismo per molti giovani asiatici. Il patriarcato monarchico-militare thailandese e l’ordine dittatoriale birmano vengono percepiti dai giovani attivisti dei due paesi come varianti di una configurazione politico-culturale sovraordinata, iconicamente rappresentata dal Partito Comunista Cinese.

Meme di autoritarismo

Le proficue relazioni inter-statali fra Cina e Thailandia riflettono un riassetto storico della politica estera thailandese, innescato dall’avvento del governo golpista di Prayuth Chan-o-cha; uno sbilanciamento thailandese verso est che sembra destabilizzare un quadro geopolitico contrassegnato dalla rivalità crescente fra Washington e Pechino per il controllo dell’Asia sud-orientale. In questo contesto, i memi anti-cinesi dei giovani manifestanti thailandesi, attivi dal Febbraio 2020 nelle piazze del paese, sono caduti come meteore elettroniche sulla superficie diplomatica del rinnovato sodalizio sino-thailandese.

In quanto significanti culturali (immagini, azioni, testi, suoni), i memi digitali tendono a replicarsi, auto-propagarsi, e arricchirsi di nuovi significati attraverso iterazioni non-lineari che rimbalzano sui social network. Catalizzatori di processi semantici locali e globali, i memi più popolari possono assemblare sistemi sociali disparati, trasgredendo sovranità nazionali e divari etno-linguistici. In alcuni casi scompaiono rapidamente nei vortici della rete; in altri favoriscono mobilitazioni internazionali e partecipazione politica diffusa, sconfinando nella realtà degli spazi pubblici.12)Brown, A. e Bristow, D. (a cura di), Post Memes: Seizing the Memes of Production (Earth, Milky Way: Punctum books, 2019).  La Milk Tea Alliance si propone di lasciare il segno nella regione, all’insegna dell’equazioni simboliche “tè al latte=democrazia; Cina=autoritarismo”, nonostante il sistema di sorveglianza digitale cinese – noto anche come Great Firewall – sia in genere straordinariamente efficiente nel filtrare e bloccare dati ritenuti dannosi.

Quale che sia l’esito geopolitico di queste fibrillazioni virtuali e di piazza, l’attivismo giovanile thailandese, e la traslazione di memi in tropi politici di mobilitazione collettiva, segnalano il ritorno sulla scena dell’Asia sud-orientale di una categoria culturale che era già risultata determinante nella genesi dell’anti-colonialismo: la generazione. Intesa in senso antropologico, la generazione è una posizione sociale; una categoria analitica relazionale e situazionale, dai confini temporali sfumati. Nel contesto gerarchico della società thailandese, come altrove nel Sud-est asiatico, i “giovani” non appartengono necessariamente a un gruppo di età definito, a una fascia anagrafica stabilita con precisione. Un individuo può essere considerato “giovane” anche solo transitoriamente, quando si relaziona a un’autorità morale, o è impegnato in “attività giovanili”, in un dato contesto sociale.13)Bolotta, G., Belittled Citizens: The Cultural Politics of Childhood on Bangkok’s Margins (Copenhagen: NIAS Press, 2021).

L’attivismo dei “giovani” internauti thailandesi si pone l’obiettivo di riformulare culturalmente l’ordine generazionale del regno buddhista, confutando i principi morali che stabiliscono la subordinazione politica della cittadinanza al militarismo monarchico. Saghe hollywoodiane, cartoni animati giapponesi, musica rap e star coreane – memi riconoscibili nell’universo pop dell’internazionalismo digitale – servono ad investire di globalismo lotte profondamente locali. Anche la Cina di Xi Jinping, in quanto locus privilegiato di immaginari regionali, è stata trasformata in un meme: caso esemplare di autoritarismo asiatico.

Si osserva dunque un divario crescente fra percezioni governative e giovanili sulla Cina in molti contesti dell’Asia sud-orientale – un divario reso possibile dal giganteggiare delle nuove generazioni negli spazi virtuali dei social network. Il mitema del Padre, nelle sue varianti confuciane, buddiste, militari o comuniste, si sta disarticolando; nuovi immaginari culturali si stagliano all’orizzonte. Che una storia d’amore omosessuale fra ragazzini thailandesi si collochi al centro di questi processi è un fatto suggestivo.

Immagine: Screenshot da Twitter

Giuseppe Bolotta è ricercatore presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e Research Associate presso l’Asia Research Institute della National University of Singapore. I suoi interessi di ricerca si focalizzano sulle articolazioni etno-linguistiche, religiose, e politiche dei concetti di infanzia, genitorialità e famiglia nel Sud-est asiatico, ed includono l’analisi storico-antropologica del sistema educativo, dei movimenti giovanili, e delle organizzazioni umanitarie impegnate sul fronte dei diritti dell’infanzia nel contesto della Thailandia contemporanea. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e curatele su questi temi, fra i quali il volume monografico Belittled Citizens: The Cultural Politics of Childhood on Bangkok’s Margins (NIAS Press, 2021).

 

References
1 Il termine cinese nán yáng, utilizzato nel Celeste impero in riferimento all’Asia sud-orientale, sottende uno sguardo sinocentrico sulla regione. Si veda, ad es., Emmerson, D.K., “’Southeast Asia’: What’s in a Name?”, Journal of Southeast Asian Studies, 15(1), 1984, 1-21.
2 La “rivoluzione siamese” del 1932 pone fine all’assolutismo monarchico in Siam, segnando l’avvento della monarchia costituzionale di matrice parlamentare. Nel 1939, il nome del regno viene cambiato in Thailandia, termine carico di valenze etniche in ossequio alla propaganda identitaria del nuovo nazionalismo di stato.
3 Lo scritto del 1914 con il quale Rama VI definisce i cinesi “Ebrei d’oriente” illustra i toni anti-cinesi che connotano il nazionalismo monarchico siamese di inizio Novecento.
4 Barmé, S., Luang Wichit Wathakan and the Creation of Thai Identity (Singapore: Institute of Southeast Asian Studies, 1993).
5 Pavin Chachavalpongpun, “The Military Regime’s Foreign Policy in an Era of Rising Illiberalism”, in Pavin Chachavalpongpun (a cura di), Coup, King, Crisis: A Critical Interregnum in Thailand (New Haven: Yale University Southeast Asia Studies 2020), 271-95.
6 Tambiah, S., World Conqueror & World Renouncer. A Study of Buddhism and Polity in Thailand against a Historical Background (London: Cambridge University Press, 1976).
7 Le elezioni generali del 2019, considerate da molti osservatori una farsa, sono state precedute dalla “revisione militare” della costituzione thailandese (2017), con la quale il senato del regno buddhista è stato trasformato da assemblea legislativa elettiva ad avamposto permanente dell’esercito in parlamento.
8 Il Corridoio economico orientale (Eec) è un’area economica speciale – integrata alla Nuova via della seta – cui il governo militare thailandese ha dato sviluppo nel 2017.
9 Bolotta, G., Riscrivere la storia: la rivoluzione pop dei “bambini” thailandesi in RISE, vol. 6, 2021, 11-15.
10 Griffiths, J., “Nnevvy: Chinese Troll Campaign on Twitter Exposes a Potentially Dangerous Disconnect with the Wider World”, CNN, 15 aprile 2020.
11 Joshua Wong si trova attualmente in carcere per aver partecipato alla veglia del 4 giugno 2020 in ricordo delle vittime della repressione di Piazza Tienanmen del 1989. Il 2 Luglio 2020, Nathan Law ha lasciato Hong Kong; si trova attualmente nel Regno Unito, a seguito dell’attuazione della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nell’ex colonia britannica.
12 Brown, A. e Bristow, D. (a cura di), Post Memes: Seizing the Memes of Production (Earth, Milky Way: Punctum books, 2019).
13 Bolotta, G., Belittled Citizens: The Cultural Politics of Childhood on Bangkok’s Margins (Copenhagen: NIAS Press, 2021).