La comunità cinese in Italia ha al suo interno una ricchezza di storie e di vissuti che è per gran parte sconosciuta alla maggioranza della popolazione, inconsapevolmente immersa in un’atmosfera di comune pregiudizio nei confronti delle comunità migranti. Per questo motivo, in occasione del presente numero di Sinosfere curato da Valentina Pedone e Daniele Brigadoi Cologna, si è pensato di raccontare parte di questa ricchezza ragionando nello specifico intorno alla questione dell’influenza culturale dei sino-discendenti nella società italiana. E coinvolgendo i diretti interessati. Ho dunque creato, insieme a Valentina Pedone che ha ideato questo contributo, una chat whatsapp con alcune persone sino-italiane sia tra le cosiddette “seconde generazioni” che tra gli studenti cinesi che hanno scelto di rimanere in Italia. Ognuno con una propria specificità ed esperienza in alcuni settori lavorativi e culturali italiani. Il risultato è stato una varietà di riflessioni su alcuni temi che sono emersi potentemente dai discorsi dei partecipanti. Come la complessa questione dell’identità e il rapporto con la Cina, il difficile percorso verso una maggiore consapevolezza del ruolo della donna o la ricerca di un nuovo modello di genitorialità che non ripeta gli stessi errori dei nostri genitori ma che non sia neanche una copia di quella italiana. Il tentativo, dunque, da parte di una generazione di trenta-quarantenni di trovare una propria visione del mondo e una propria legittimità lavorando e cercando di cambiare il tessuto sociale italiano.
Jada Bai: Carissimi, bentrovati! Dato che non vi conoscete, vi presento rapidamente. Liliana Liao, seconda generazione, è editor di lingua cinese per la FAO, docente di lingua cinese e scrittrice; Wang Yihan, studentessa cinese a Bologna, attivista e femminista, vicina al movimento Non una di meno; Zheng Ningyuan, artista visuale e regista del documentario Cinesi in Italia; Hu Yujia, artista di food art e instagrammer; Zhang Le, imprenditore e mente dietro al ristorante Bon Wei, uno dei più rinomati a Milano per la sua cucina cinese creativa. Ognuno di voi ha sentito l’esigenza di cambiare qualcosa attraverso la propria creatività, chi scrivendo un libro, chi recuperando ricette antiche. Potreste raccontare da cosa è nato questo desiderio di cambiamento?
Liliana Liao (scrittrice e insegnante, 39 anni, nata in Italia, vive a Roma): Attraverso un breve racconto autobiografico incentrato sul rapporto con mia madre, che è stato pubblicato nella raccolta di racconti sinoitaliani Cinarriamo (Orientalia Libri), ho voluto stimolare un’analisi più profonda su chi siamo. Noi come seconda generazione spesso abbiamo un’esperienza di vita frammentata, a volte ci sentiamo fuori luogo o non del tutto parte integrante del mondo circostante. Abbiamo tanti interrogativi a cui non troviamo risposta e quotidianamente ci troviamo a mediare tra ciò che riteniamo giusto e allineato alla società in cui viviamo e le convenzioni tradizionali trasmesse dai nostri genitori. Scissi tra due mondi, a volte ci sentiamo confusi, smarriti: chi siamo? Ma quante persone riescono a rispondere con assoluta certezza a questa domanda? L’identità è stata a lungo un enigma per me. Da giovani questo può creare spaccature o disagio. Ancora oggi, sebbene mi senta perfettamente in pace con la mia identità, bastano poche parole dette dai miei genitori a mandarmi in crisi, a lasciarmi assalire da nuovi dubbi. Ma va bene così, d’altronde mettersi in discussione è molto più costruttivo che avere una mente stagnante.
I figli sono stati una forte spinta a ripercorrere il passato. Il passato era un capitolo che avevo messo da parte, ma per loro ho voluto riaprirlo, perché molto di ciò che sono oggi viene proprio dai miei genitori, e solo analizzando a fondo la mia storia posso sperare di migliorarmi nel presente. Tornando alla tua domanda, molte seconde generazioni soffrono per la mancanza di attenzioni da parte di genitori che sono sempre impegnati nel lavoro. Vivendo nella società italiana, però, il bambino ha modo di fare paragoni e vede che i suoi compagni vivono diversamente. Questo è stato un motivo di grande sofferenza per me e nel tempo ho potuto constatare che anche molte altre seconde generazioni hanno vissuto questo senso di abbandono. Quando sei piccolo, però, non hai la capacità di identificare chiaramente il tuo malessere e solo una volta adulto riesci a capire. Scrivendo il mio racconto autobiografico, ho voluto condividere la mia esperienza e le mie emozioni proprio per far capire ad altre seconde generazioni che mi leggono che non sono sole, che una conciliazione tra le due culture è possibile. Anzi dovremmo sentirci invincibili per la fortuna che abbiamo di avere assorbito due culture così meravigliose come quella italiana e cinese.
Jada Bai: Grazie Liliana. Sai che anche in me il desiderio di cambiare qualcosa si è rinsaldato quando è nato mio figlio? È come se avessi capito per cosa mi stessi impegnando. Volevo aiutare il pubblico italiano a conoscere meglio i cinesi, e quindi noi; volevo smontare certi stereotipi così che mio figlio non dovesse subire certe cose quando sarebbe stato grande… Per questo quando posso promuovo imprenditori, scrittori, influencer, perché penso che loro possano essere d’esempio agli italiani e ai cinesi.
Hu Yujia (32 anni, artista e instagrammer, in Italia da 24 anni, vive a Milano): Io ho sempre avuto una mente creativa e questo mi ha spinto a scegliere un liceo artistico. Ma i doveri di primogenito cinese mi hanno portato a lasciare gli studi prima di finirli, così, a 18 anni, ho iniziato a lavorare nel ristorante di famiglia dove ho imparato l’arte del sushi. Quello che sono ora è una combinazione del mio lavoro e delle mie passioni. Sono arrivato all’idea della sushi art perché continuavo a cercare di creare piatti diversi per differenziarmi dagli altri ristoranti, finché poi non sono arrivato al punto in cui ho realizzato che non dovevo più vedere il sushi come un alimento, ma come il materiale con cui esprimere la mia creatività. Così mi sono sbloccato, fino ad arrivare ad abbandonare del tutto la professione di ristoratore e iniziare la carriera artistica. Ovviamente i social media sono stati fondamentali per questo processo. Il mio obbiettivo però è quello di fare un giorno un’esibizione delle mie opere anche nel mondo reale. La difficoltà maggiore per la mia realizzazione era ed è ancora quella di far capire ai miei genitori quello che faccio; per loro lavorare è una cosa puramente fisica e il lavoro artistico è difficile da digerire.
Jada Bai: Grazie Yujia per la condivisione. Il racconto della tua esperienza è fondamentale anche perché i social media sono un nuovo strumento di comunicazione e una nuova professione che ha il vantaggio di essere accessibile a tutti. Non capisco però come funzionino, mi è chiaro come iniziare, ma quand’è che essere presente su un social media comincia ad essere pagato come fosse un lavoro? E poi immagino che ci sia grande competizione, il che può mettere molta ansia. Seguo uno scrittore, Pier Paolo Mandetta, che è riuscito a farsi pubblicare grazie alla sua fama di influencer. Lui racconta di uno stato d’ansia perenne che lo ha assalito soprattutto da quando ha raggiunto i 100mila followers e di come sia dovuto andare in terapia per questo… Spero ovviamente che non sia la tua situazione, ma ti sei mai sentito minacciato dall’ansia?
Hu Yulia: Su Instagram una persona comincia a essere pagata quando raggiunge un numero discreto di follower, ma più importante ancora è la qualità dell’interazione che ha con loro. Nel mio caso vengo pagato anche per la creazione unica di un prodotto. La competizione è altissima, ma questo succede in ogni ambito, su Instagram. È una piattaforma che ti può dare tanto, è vero, ma bisogna sempre ricordare che quello non è il mondo reale. Questo bisogna tenerlo bene a mente, anche proprio per non farsi sopraffare dall’ansia.
Jada Bai: Eh, sì, immagino. Io ho grande fiducia nei social; penso che senza i social persone come me o come molte ragazze afroitaliane non avrebbero avuto una piattaforma da cui far sentire la propria voce, quindi continuo a utilizzarli. Dunque, riesci ad avere un ritorno economico. Eppure, i tuoi genitori continuano a non capire/accettare? Caspita… Speravo che i genitori di prima generazione apprezzassero almeno il lato economico, anche se, comprensibilmente, non conoscono la società contemporanea. Forza e coraggio Yujia, noi siamo con te. Le tue creazioni sono fantastiche.
Hu Yulia: Più che non accettare, direi che non capiscono.
Zheng Ningyuan (artista e videomaker, 32 anni, in Italia da 9 anni, vive a Bologna): Ho capito che desideravo continuare a fare arte per tutta la vita quando ero ancora all’università, a Nanjing. Volevo essere parte di un’avanguardia. Da un lato l’espressione artistica mi permetteva di conoscermi, dall’altro mi portava a interrogarmi sulla mia “identità”. Sì, già quando ero in Cina mi interrogavo circa la mia identità. Ho cominciato a guardare i film della Nouvelle Vague: Rohmer, Antonioni. Ero ancora uno studente universitario, un’età giovane e inquieta. Quando ho visto Monica Vitti e Alain Delon sparire alla fine di Eclissi, così, senza una parola, sono rimasto molto colpito da quella sottile emozione e da quel piano sequenza così raffinato. Un linguaggio così maturo, così in grado di esprimere sentimenti legati alla contemporaneità, lo avevo incontrato solo raramente nella mia formazione (almeno nelle arti visive), o comunque non ero ancora riuscito a trovarlo nella cultura nazionale “cinese” o in quella locale “hoklo”.
Questo non significa che non esistesse intorno a me una cultura che poteva turbarmi e nel contempo commuovermi, ma mostra come crescere in una famiglia intellettuale un po’ conformista e concentrata solo a mantenere un certo status mi impedisse di cogliere il valore di molte cose quotidiane. Nella nostra famiglia, la mobilità verso l’alto e la stabilità economica avevano la priorità su tutto. In casa c’era una inspiegabile aspirazione verso una certa “cultura elitista” celebrata dalla classe dirigente. È stato solo al mio ritorno a Quanzhou dopo aver trascorso il primo anno in Italia, che io, un fujianese che non conosce il proprio dialetto d’origine, ho scoperto per la prima volta i canti nanyin, canzoni tramandate da migliaia di anni, che ancora echeggiano oggi nella sale da tè dalle mie parti. Solo allora ho capito quanta cultura d’avanguardia ci fosse sempre stata intorno a me senza che me ne rendessi conto.
La vera svolta nella mia crescita personale è avvenuta con il mio arrivo in Italia, quando ho cominciato a interessarmi alla storia del movimento del Sessantotto e di operaismo. Ho scoperto allora che la cultura della classe lavoratrice era stata così forte, che, a mio avviso, ancora oggi l’Italia deve a essa il suo spirito ribelle. Di conseguenza, ho anche capito di più sulla Cina contemporanea, sul perché ci siano molti giovani cinesi che oggi leggono Negri e Balestrini, e che, pur partendo da condizioni di fragilità, sono attivamente coinvolti nel cambiamento sociale. Sono persone che stanno portando avanti una riflessione su come negoziare con il potere, come smantellare una certa “cultura elitista” per riappropriarsi dell’istituzione culturale. Questo filo dall’Italia alla Cina mi ha aiutato anche a rispondere ad alcuni dubbi che ho sempre avuto sulla “cultura elitista” celebrata dalla classe dirigente. Mi ha anche spinto a lavorare mantenendo una prospettiva sociale. Il cambiamento che ha seguito queste nuove esperienze mi ha anche fatto riflettere più chiaramente sulla mia “identità”. Se l’avanguardia che voglio portare avanti deve avere l’obiettivo di cambiare la situazione in cui viviamo, allora devo cercare la sua potenza nelle storie dei migranti. Fare questo ci permette di allontanarci dalla narrazione nazionalista che vorrebbe farci protendere perpetuamente verso la cultura elitista, a prescindere dall’appartenenza etnica. Dovremmo essere sempre orgogliosi di esprimere i nostri sentimenti, perché questi non sono mai insignificanti.
L’arte contemporanea ha un rapporto complesso con il lavoro e in particolare con l’arte sociale (socially engaged art). Per questo la difficoltà maggiore per la mia pratica artistica in Italia non risiede nella componente strettamente artistica, ma in quella sociale. Per esempio, la nostra comunità cinese ha un’auto-narrazione e una discussione critica poco sviluppate. Questo è naturalmente reso più difficile dal fatto che veniamo da un contesto nazionale, quello cinese contemporaneo, molto complesso e in continuo cambiamento. Inoltre, qui in Italia siamo ancora a corto di professionisti in campo culturale, di istituzioni culturali professionali che sostengano gli artisti migranti locali, di istituzioni culturali professionali che si concentrino sugli studi sull’immigrazione cinese, o di sostenitori e collezionisti d’arte in questo ambito. Così ho deciso di impegnarmi io stesso in questa impresa, facendo traduzioni letterarie, proiezioni, curando mostre, portando avanti progetti artistici interdisciplinari e tenendo conferenze nelle università, a Bologna, a Firenze, a Venezia e anche a Prato con tanti amici. Cerco di fare qualcosa che vada oltre l’arte fine a se stessa. D’altra parte, i cinesi non sono molto coinvolti socialmente e politicamente, e non ci sono canali che veicolino questo coinvolgimento. Anche a Bologna cerchiamo di comunicare con le comunità cinesi durante le elezioni e gli eventi politici, ma con le nostre limitate possibilità è comunque difficile essere efficaci al momento.
Jada Bai: Non so se nella Cina di oggi ci sia qualcuno che mette in dubbio la propria “identità”. Che “identità” senti di avere qui in Italia? E questa identità nel percorso che ti sei scelto è stata più un aiuto o una zavorra? A Bologna avete due tipi di pubblico, quello degli italiani e quello dei cinesi. Sulla base della tua esperienza, quale è il modo migliore perché questi due gruppi si avvicinino?
Zheng Ningyuan: In Cina c’è una forte crisi d’identità generata dai grandi movimenti migratori interni. Movimenti di persone che si spostano dai piccoli centri alle grandi città, dal Nord a Shenzhen, ci sono molti bambini lasciati indietro perché i genitori sono emigrati… poi l’aumento della disoccupazione nel Nord-est ha colpito chi lavorava nelle fabbriche statali negli anni Ottanta, spingendoli a venire fino a Prato o altrove. Tutto questo ultimamente mi ha spinto a fare ricerche in Fujian per conoscere meglio le mie “origini”. La mia identità in Italia è a metà strada tra quella di viaggiatore e quella di immigrato. Sicuramente questa identità mi ha permesso di lavorare sull’arte sociale, impegnata. Mi ha dato tantissimo, anche se poi non facevo parte della “comunità” cinese in senso tradizionale.
Non è così difficile raggiungere questi due tipi di pubblico a Bologna, la difficoltà sta nel creare momenti e strumenti che permettano al dialogo di continuare. Ad esempio, se volessimo fare un festival del cinema che racconta la realtà sinoitaliana, quali sarebbero le difficoltà? La difficoltà sta nel trovare un’organizzazione, dei finanziamenti e un gruppo che creda in valori condivisi. A Torino ci siamo riusciti con il documentario Cinesi d’Italia, ma perché c’erano alcuni specialisti italiani e una comunità cinese molto disponibile verso questo tipo di attività. Qua a Bologna non ci sono queste condizioni. Quindi ci sentiamo abbastanza limitati in ambito accademico e artistico. Non riusciamo a raggiungere l’interesse della comunità stessa. Però continuiamo a provare in modi sempre diversi.
Zhang Le (imprenditore e sommelier, 36 anni, in Italia da 28 anni, vive a Milano): A oggi, insieme a mio padre (executive chef), siamo la colonna portante del Bon Wei, ma nel nostro rapporto di lavoro, essendo lui di vecchia generazione e io appartenente a quella nuova, a tutt’oggi abbiamo punti di vista completamente differenti. Nonostante svariati diverbi, comunque, abbiamo sempre portato avanti la nostra idea, ovvero quella di far conoscere la vera cucina cinese, portando a tavola anche un po’ di tradizione e cultura del nostro paese di origine. Fin da piccolo, sono stato sballottato un po’ qua e un po’ là. Nato e cresciuto a Wenzhou, sono stato portato in Italia dopo appena 2/3 anni di scuola in Cina. Per me è stato molto difficile l’arrivo a Padova all’epoca. A scuola non capivo la lingua e non c’erano altri bambini miei compaesani, così ho iniziato a frequentare la classe con alunni più piccoli, per poi saltare alcune classi nel corso degli anni e portarmi a pari livello con i compagni (per età e classe). La cosa che mi ha fatto stare veramente male è avvenuta in terza media, quando sono stato bocciato perché non mi ritenevano pronto per le superiori, e così sono rimasto indietro di nuovo, triste e rinchiuso in me stesso. In quegli anni, pur essendo piccolo, avevo già la consapevolezza di trovarmi in un paese con una cultura completamente differente dalla mia e avevo già in mente di trasmettere un po’ della mia cultura di origine ad altri bambini interessati, soprattutto quella culinaria, invitandoli a casa per far apprezzare la cucina del papà con piatti tipici della mia regione di provenienza.
Penso che la mia adolescenza sia stata pressoché identica alla vostra. Trascurato fin da piccolo da genitori troppo impegnati al lavoro, mi sono abituato a stare a casa quasi sempre da solo. Nonostante ciò, non mi sono fatto abbattere dalla solitudine e, col passare del tempo, ho imparato meglio la lingua italiana, ho fatto amicizia con i coetanei e ho iniziato pure a giocare a calcio. Già allora davo una mano, quando potevo, partecipando alle prime attività della famiglia, rosticceria e bar, e così, pian piano, ho imparato grazie ai miei genitori ad apprezzare la cultura del lavoro (alla cinese). Alla fine, volevo fare l’alberghiero, proprio per poter seguire le orme di mio padre, e invece mi hanno iscritto a un liceo scientifico “paritario” gestito da preti, perché agli occhi dei miei il fatto solo di pagare per tenermi a scuola mi avrebbe dato un’istruzione migliore rispetto a loro che non avevano avuto neanche la possibilità di studiare. Ritenevano fosse meglio per me fare un lavoro d’ufficio, un domani, piuttosto che diventare ristoratore come loro.
Il cambiamento più grande della mia vita (anche per i miei) c’è stato in concomitanza con l’apertura del ristorante a Padova. Essendo figlio unico, dopo il diploma ho dovuto smettere con gli studi per dare una mano. Temevamo che le cose potessero non andare bene, perché in una città piccola come Padova avevamo il progetto di sconvolgere le aspettative culinarie dei tipici clienti di un ristorante cinese in Italia, differenziandoci con l’offerta di pietanze mirate, provenienti da varie regioni cinesi, anziché dei soliti involtini primavera e riso cantonese. Per fortuna, invece, il ristorante di Padova andò di gran lunga meglio del previsto, nonostante le tante difficoltà (era il periodo in cui si era diffusa la Sars e la gente aveva una mentalità ancora piuttosto chiusa). Così, dopo alcuni anni, capimmo che la proposta della cucina tradizionale incuriosiva sempre più la nostra clientela. Nonostante le cose stessero andando per il verso giusto, nella mia mente il ristorante funzionava solo per merito della cucina di mio padre. Io ero solo di contorno. Così ho deciso di metterci il mio zampino e, con studio e sacrificio, sono diventato sommelier. Ho iniziato quindi ad abbinare le pietanze al vino, creando un perfetto mix delle due culture… Pian piano, con il passare del tempo, la realtà di Padova ci stava diventando sempre più stretta e allora abbiamo deciso di ampliare la visibilità venendo a Milano nel 2010 e aprendo il Bon Wei.
Dopo quasi vent’anni di attività nel settore, la mia identità si è solidificata. Pur avendo naturali problemi di differenza di vedute con i miei genitori, credo che si debba comunque saper cogliere il meglio da quello che i genitori ci hanno insegnato e trasmesso e mischiarlo con le nostre capacità e il nostro pensiero (e anche con un po’ di cultura italiana, perché no?). Cambiare le loro convinzioni o le proprie è difficile, se non impossibile, ma si può andare avanti insieme per raggiungere un obiettivo comune, mettendoci ciascuno le proprie idee. Così è stato con l’organizzazione delle otto cene “culturali” delba da caixi (le otto regioni gastronomiche più importanti del nostro paese) o delle serate con menù degustazione di ricette antiche e regionali, con gli abbinamenti tra cibo e vino e con le spiegazioni durante la cena curate da un professore specializzato in cucina cinese su tipologie di sapori e storie culturali della regione. Tutto questo è stato pensato non solo a fini commerciali, ma anche con la finalità di far capire al nostro pubblico/clientela che quella cinese è una storia culinaria millenaria che può anche essere alta cucina. In tempi più recenti, per dire, stiamo utilizzando materie prime tipicamente non cinesi, per dare vita ad una cucina più contemporanea/fusion, proprio come accade in Cina oggi. Lavoriamo sodo ogni giorno e ci impegniamo con il nostro lavoro anche per cambiare le cose, per costruire un futuro per i nostri figli/nipoti in cui ci sia maggiore integrazione; per far sì che, anche grazie a noi, l’Italia diventi un paese multiculturale, dove non ci siano più i soliti vecchi pregiudizi culturali.
Jada Bai: Una cosa che mi aveva stupito del Bon Wei è che ha un ufficio stampa, una persona che si occupa di comunicare all’esterno. Ho visto che vari ristoranti cinesi di alta classe ormai hanno un consulente per la comunicazione. Come ti è venuto in mente? Mi è sembrata una rivoluzione rispetto alla gestione di una prima generazione.
Zhang Le: L’idea di avere l’ufficio stampa è stata adottata fin da subito. Dato che papà, stando in cucina, aveva poche conoscenze (se non i nostri compaesani ed amici) e io appena arrivato a Milano non ne avevo proprio, ci siamo affidati ad un ufficio stampa. Eravamo troppo presi dalla grossa quantità di lavoro all’interno del ristorante per occuparcene noi. Come già detto da Liliana e Yujia, le vecchie generazioni avevano una dedizione pazzesca e maniacale verso il lavoro, ma l’unica pubblicità per loro era rappresentata dal passaparola di clienti e amici. Così facendo lo sviluppo dell’attività rimane lento e limitato. Con il passare degli anni abbiamo capito che in una metropoli come Milano bisogna adattarsi e stare a passo con i tempi; con l’aiuto di un ufficio stampa avremmo potuto farci conoscere più rapidamente e con risultati migliori. Nel primo periodo lavoravamo di più attraverso comunicati stampa su testate giornalistiche e riviste, successivamente siamo passati a eventi esclusivi con partnership di alto livello. Ora abbiamo aggiunto anche una maggiore attenzione ai social media, in modo da attirare persone di tutte le età e culture, e far capire a tutti che proponiamo una cucina cinese alta, come la nostra cultura culinaria millenaria insegna. Il nostro intento è stato proprio quello di comunicare la nostra cultura attraverso il cibo.
Jada Bai: Ci sono stati davvero dei grandi cambiamenti dal tempo dei nostri genitori, sono molto contenta e orgogliosa di vedere imprenditori come voi, che avete più conoscenza e coscienza della società e dei tempi. Ad ogni modo, ascoltandovi mi convinco sempre di più che la genitorialità sia un tema importante da affrontare per costruire una società italiana multiculturale. Concordo che molti ragazzi siano cresciuti nella solitudine perché i genitori lavoravano. E molti di quei ragazzi adesso sono diventati genitori. Però non ci sono solo questi nuovi genitori, ma anche altri che sono arrivati da poco dalla Cina e che mantengono una mentalità simile a quella dei nostri genitori. Nella vostra esperienza, c’è consapevolezza tra sinoitaliani circa le sfide della genitorialità? Ad esempio, da insegnante e sinoitaliana, Liliana, quanto ritieni importante che i nostri figli parlino cinese? E perché? L’attore Shi Yang Shi mi diceva che lui aveva l’impressione che le scuole cinesi rivolte alla comunità fossero troppo tradizionaliste: si canta l’inno cinese, si studiano racconti sui “diavoli giapponesi”. Pensi che questo tipo di scuole siano valide?
Liliana Liao: Sebbene parta da esperienze diverse, mi trovo molto vicino al senso di inadeguatezza provato da piccolo e all’approccio positivo e conciliante di oggi di Zhang Le. Il tema della genitorialità è centrale e se solo ci fosse un po’ più di attenzione a questo tema si offrirebbe la serenità e la sicurezza necessaria ai figli che saranno gli attori principali della società che verrà. Purtroppo, non c’è affatto consapevolezza nella comunità cinese del ruolo di genitore, ruolo che è già difficile di per sé. Per creare un luogo di scambio di idee e consigli, di dialogo, ho creato su Facebook il gruppo “Famiglie bilingui cinese-italiano genitori IBC”, ma nella maggior parte dei casi non riesco a coinvolgere i partecipanti, è come se i temi non fossero abbastanza importanti. È come se gli stimoli per i propri figli fossero delegati a terzi, perciò tanti genitori non si sentono proprio chiamati in causa. Eppure, i social media sono un modo semplice e veloce per connettersi a più utenti. Comunque sia, per il momento non sto avendo un grande riscontro, e perciò penso che, come forma di supporto, ognuno almeno nel proprio piccolo possa cercare di coinvolgere altri genitori della comunità, magari invitandoli a essere più partecipi alle iniziative per bambini. Dico per il momento perché in fondo penso che ci sarà una presa di coscienza prima o poi. Diversa è la situazione in America o in Inghilterra, dove invece questo tipo di gruppi sono sempre molto attivi.
È chiaro che tutti i genitori hanno a cuore il futuro dei figli; qui, però, i genitori sono restii a mettersi in gioco e spesso si concentrano soprattutto a sviluppare le abilità dei figli, per far sì che possano entrare in modo competitivo in società, piuttosto che curare gli aspetti più intimi della loro personalità. Questo penso sia un tema importante, oltre a quello della lingua. I miei genitori, ad esempio, non capiscono perché spesso i miei weekend siano pieni di attività con i figli. Pensano che li stanchi troppo. Questo però è dovuto al mio desiderio di farli vivere nella natura, di mostrare loro il mondo, una fortuna che io stessa non ho avuto. Non andavo a vedere mostre, né a fare gite fuori porta; passavo poco tempo fuori con i miei genitori e molto tempo a casa con la babysitter e la tv, ahimè, e credo che questo accada ancora oggi a buona parte dei bambini della comunità. La socialità dei figli è un tema trascurato; molti amici italiani mi segnalano che di solito i bambini cinesi delle classi dei loro figli non partecipano mai alle feste. Anch’io andavo poco alle feste, pensate che i miei ritenevano che giocare con altri bambini mi distraesse dallo studio!
Come insegnante sinoitaliana ritengo sia assolutamente necessario che i nostri figli parlino cinese. In primo luogo, perché avrebbero sicuramente una marcia in più, dato il potere economico che sta acquistando la Cina; ma anche, e soprattutto, perché abbiamo una lingua e una cultura talmente ricca e incredibile che non cercare di conoscerla a fondo sarebbe da pazzi. Ci vorrebbe una vita intera solo per scoprire tutte le meraviglie di questa cultura. E poi conoscere le proprie radici è fondamentale per costruire la propria identità, a prescindere da quanto poi ne sposiamo gli ideali. Come facciamo a conoscere le nostre radici se non conosciamo neanche la lingua dei nostri antenati? La lingua è tutto, incide su come creiamo e formuliamo i pensieri, come si può tralasciare una componente così importante della nostra identità? Concordo con Yang che le scuole cinesi in Italia utilizzino un metodo troppo tradizionalista e a Roma ne ho girate molte. Per molto tempo ho avuto una gran preoccupazione per la scelta della scuola di cinese, perché ritenevo necessario che mio figlio frequentasse un ambiente in cui fosse stimolato a parlare cinese, ma temevo che potesse diventare una costrizione, visti i metodi troppo rigidi di ripetizione, poco fantasiosi e creativi, che avrebbero persino potuto portarlo a odiare la lingua. Questo tipo di scuola genera comunque dei risultati, perché è normale che a forza di ripeterle le cose si imparino, ma è chiaro anche che se si potessero scegliere dei metodi più creativi e divertenti sarebbe ancora meglio, ed è per questo che ho pensato di scrivere un manuale di cinese per bambini con molte attività ludiche, come i puzzle con parti di carattere da ricomporre, il gioco dell’oca, ruba bandiera, teatrini.
Wang Yihan (attivista e grafica, 26 anni, nata in Cina, in Italia da 7 anni, vive Bologna): Vedo che tutti hanno già detto un sacco di cose, io invece sono lenta a scrivere. La prima volta che sono rimasta toccata da questioni femministe ero al liceo. Ogni giorno a lezione gli studenti si alternavano per presentare un articolo di giornale. Il giorno in cui è arrivato il mio turno ho parlato di un reportage che avevo trovato su una rivista. Parlava di mutilazione genitale femminile. Dopo aver finito la mia presentazione, il professore mi ha detto: “Sicuramente in futuro ti darai da fare per i diritti delle donne”. All’epoca non ci ho fatto caso. Era solo il normale incoraggiamento di un insegnante per la sua studentessa e non immaginavo che sarebbe stato così profetico. Nel nord della Cina, dove sono cresciuta, i primi movimenti femministi (ai tempi di “le donne reggono metà del cielo”) e la politica del figlio unico hanno avuto una forte influenza sulle persone e probabilmente è per questo che crescendo non ho fatto esperienze personali particolarmente gravi di maschilismo e ho avuto solo pochi compagni di classe con famiglie particolarmente maschiliste. Nonostante questo, gli stereotipi sulle ragazze e ogni sorta di sottili discriminazioni ci sono comunque sempre stati: “Le ragazze dovrebbero avere l’aspetto da ragazze”, “Le ragazze sono portate per le materie umanistiche”, “Le ragazze non hanno costanza nello studio”. I nonni inoltre preferivano sempre i nipoti maschi. Ogni volta che sentivo queste cose mi arrabbiavo. All’epoca non capivo ancora cosa fossero il movimento femminista e il femminismo. Sentivo solo una gran sensazione di rabbia e da questa rabbia è nato un semplice desiderio “E cosa ci sarebbe mai che le ragazze non possono fare? Possiamo fare qualsiasi cosa”. Successivamente, un po’ alla volta, ho appreso anche delle nozioni teoriche e così ho iniziato ad avere un’idea più precisa di tutta la questione.
La prima volta che ho partecipato a una manifestazione di Non una di meno ero ancora abbastanza ignorante, ma in seguito mi sono dedicata a una partecipazione più attiva. Penso che uno dei motivi che mi abbia spinto ad agire sia l’aver capito che ci sono problemi che possono essere risolti solo con gli sforzi di tutti. In Italia si scende in piazza, si manifesta e si sciopera ogni anno per fare in modo che le nostre voci siano ascoltate. Un’altra ragione che ha guidato il mio attivismo è che, quando si osserva con attenzione, ci si rende conto che la situazione delle donne cinesi è davvero deprimente. Ciononostante, o forse proprio per questo, fra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, il movimento delle donne cinesi ha iniziato a svilupparsi sempre più velocemente. Spero che la voce delle femministe in Cina possa essere sentita anche fuori. I tanti movimenti che si stanno sviluppando un po’ ovunque e le notizie e informazioni che arrivano da ogni latitudine sono un importante incoraggiamento. Spero anche che le donne cinesi che vivono in Italia, siano esse studentesse o immigrate di prima, seconda o terza generazione, possano prestare maggiore attenzione a questa lotta. Sarebbe meraviglioso se partecipassero al movimento femminista globale. Ogni volta che ho partecipato a una manifestazione purtroppo ho visto pochissime persone cinesi.Penso che la difficoltà più grande sia la mancanza di una piattaforma stabile che informi e crei comunità. La condivisione delle informazioni richiede molto lavoro e richiede anche una sufficiente comprensione dei diversi ambienti sociali. Se non si conosce abbastanza bene un ambiente è difficile trovare aiuto quando se ne ha bisogno. Per risolvere questo problema forse è necessaria la partecipazione di tutti, studenti cinesi, immigrati cinesi e cittadini italiani. Non si tratta solo di avere punti di vista diversi, ma anche del fatto che tutte queste persone vivono in ambienti molto diversi fra loro. Di conseguenza c’è bisogno di più collaborazione per trovare soluzioni pratiche.
Jada Bai: Nella comunità cinese mi capita spesso di imbattermi in ingiustizie nei confronti delle donne. I ragazzi possono continuare a studiare, ma se le ragazze smettono non è un problema. I ragazzi ereditano le attività della famiglia, invece alle ragazze viene data solo una “dote”. I ragazzi possono divertirsi, ma le ragazze devono lavorare sodo e così via. Non tutte le famiglie cinesi sono così, ma molte lo sono. E la cosa più difficile è che molte persone non capiscono che è un problema… soprattutto la generazione dei genitori. Forse quel che dobbiamo fare come comunità cinese è già stato avviato in molti contesti in Cina, quindi voglio imparare dalle donne cinesi. Per esempio, un mio amico cinese ha ricevuto un invito da un giornalista italiano che voleva intervistarlo, ma non aveva tempo e quindi gli ha consigliato di rivolgersi a un altro amico, guarda caso anche lui maschio, senza nemmeno considerare colleghe a lui più vicine.
Wang Yihan: Sulla questione della parità di diritto allo studio per le ragazze anche in Cina c’è ancora molto da fare. È un problema che si vede sia in Cina che nella comunità cinese qui. Proprio oggi ho visto un evento della Dali Group (un grande marchio nazionale di cibi confezionati), che ogni anno offre molte borse di studio. Una di queste è per ragazze di famiglie contadine che vivono in zone rurali. Se la ragazza riesce a entrare in un’università di prima fascia il premio è da diecimila RMB, per l’ammissione all’università di seconda fascia il premio è di ottomila RMB. Di per sé è un’ottima cosa per le ragazze che vogliono continuare a studiare nonostante la situazione familiare non sia buona. Ma la ragazza che ne ha parlato su internet ha detto che la coordinatrice della loro classe non aveva detto niente di questa cosa alle studentesse, perché pensava che non avesse senso che le ragazze sprecassero le loro energie per chiedere delle borse di studio. Davvero imbarazzante.Penso che la questione dell’intervista che hai appena raccontato possa anche avere a che fare con semplici questioni personali, non conosco i dettagli ed è difficile parlarne. Ad ogni modo succede troppo spesso che gli uomini raccomandino risorse l’un l’altro e ignorino donne eccellenti che li circondano. Sia intenzionalmente che inconsciamente scelgono immediatamente di condividere i propri privilegi con altri uomini. Di conseguenza al lavoro le donne sono sempre ostacolate e limitate. Senza supporto da parte di amici e conoscenti è tutto molto difficile. Quindi speriamo di vedere sempre più donne diventare politiche, dirigenti aziendali, presidi, ecc. In questi ruoli si possono controllare meglio le risorse della società, che le donne potrebbero poi usare per assistersi a vicenda, ma anche per creare cambiamenti strutturali in ambiti come il congedo di maternità, la discriminazione sul posto di lavoro, ecc. Queste donne potrebbero spendersi per aiutare altre donne ad abbattere gli ostacoli nel mondo lavorativo.
Ho scritto molto oggi, ma in realtà vorrei che ciò su cui ci si soffermasse davvero fosse la soggettività delle singole donne, ciò che vedono, sentono e sperimentano personalmente. Ciò che conta è l’esperienza e il sentimento personale di ogni individuo e il passato, il presente e il futuro di ogni ragazza. In realtà avrei voglia di condividere tanto altro, ma non la finirei più di parlare, ahahahah! Condividerò piuttosto una canzone di qualche tempo fa. Ogni volta che la ascolto non riesco a trattenere le lacrime.
Bai, Creatività sinoitaliane PDF
Immagine: foto di Agnese Morganti, dalla serie Chinatown
Jada Bai è lettrice di lingua cinese presso l’Università degli Studi di Torino. Collabora anche, come mediatrice linguistico culturale e consulente culturale con enti, istituzioni e cooperative tra cui Comune di Milano, Crinali, Cespi, Farsi Prossimo-Centro Come. Si occupa da sempre di diaspora della Cina e di condizione femminile cinese e ne scrive per varie testate giornalistiche (L’Essenziale, VanityFair, China Files, La Città Nuova – Corriere della Sera).