Nato nella periferia urbana di Wenzhou, una città nella provincia cinese dello Zhejiang meridionale, Liu ha trascorso la maggior parte della sua adolescenza in una città costiera delle Marche. I suoi genitori hanno vissuto e lavorato qui dopo essere emigrati in Italia alla fine degli anni Novanta. Il padre di Liu era un calzolaio in Cina, e dopo che è venuto in Italia ha continuato a fabbricare scarpe per alcune imprese gestite dai suoi connazionali. Quando è riuscito a regolarizzare il proprio soggiorno, ha portato sua moglie e due figli in Italia e ha avviato un piccolo laboratorio a conduzione familiare per la produzione di scarpe. Era il 2004. Liu aveva 11 anni e sua sorella 17. Liu ha frequentato una scuola media locale senza capire una parola di italiano. Gli ci sono voluti almeno due anni per riuscire a malapena a comunicare con i suoi insegnanti e compagni di scuola italiani. Nel frattempo, come la maggior parte degli altri bambini nelle famiglie di immigrati cinesi, ha iniziato a dare una mano all’azienda di famiglia dopo la scuola. Liu è uno dei pochi cinesi emigrati in Italia che alla sua età è riuscito a completare l’istruzione secondaria e più tardi a ricevere un’istruzione superiore. Sua sorella maggiore, ora madre di tre figli, ha abbandonato la scuola superiore dopo due anni a causa di problemi linguistici. Ha lavorato insieme ai suoi genitori fino a quando ha sposato un uomo cinese con un background migratorio simile. La giovane coppia ha quindi avviato la propria attività gestendo un ristorante di sushi. Due anni fa hanno aperto un grande negozio di baihuo (“articoli casalinghi”) insieme ai genitori di Liu che nel frattempo hanno chiuso il loro laboratorio di calzoleria. Nel frattempo, anche Liu è tornato per aiutare a gestire l’azienda di famiglia dopo aver conseguito un master in psicologia. Spera ancora di diventare un giorno uno psicologo professionista e di assistere pazienti appartenenti alle comunità cinesi in Italia, o magari pazienti cinesi in Cina qualora non ci fossero opportunità in Italia.
La migrazione di massa dalla Cina all’Italia avviatasi a partire dagli anni Ottanta è terminata, ma la popolazione cinese in Italia ha continuato ad aumentare a causa dei ricongiungimenti familiari e di tassi di fecondità relativamente più elevati. Come la famiglia di Liu, molte famiglie di immigrati cinesi ora si estendono alla terza generazione. Le attività etniche cinesi, nel frattempo, si sono diversificate e si sono espanse da invisibili laboratori nascosti in edifici residenziali a visibili negozi di quartiere. In questo articolo esplorerò i meccanismi di creazione e transizione d’impresa tra gli immigrati cinesi in Italia, concentrandomi sul ruolo delle istituzioni familiari e di parentela. Illustrerò alcune dinamiche generazionali legate al tempo di migrazione, al livello di istruzione, di classe sociale e ai sistemi valoriali si associano a questo processo. La mia analisi si vuole collocare nel più ampio contesto politico-sociale della ristrutturazione economica italiana e dell’ascesa della Cina, nonché del crescente razzismo anti-asiatico globale.
Migrazione della manodopera cinese ed economie etniche in Italia
Sebbene i dati dei censimenti italiani indichino che diverse centinaia di immigrati cinesi provenienti dalla zona di Wenzhou e dintorni si erano stabiliti in diverse città italiane fin dalla seconda metà degli anni Venti,1)Daniele Brigadoi Cologna, “I cinesi nell’Italia fascista”, in Rocchi C., Demonte M., Primavere e Autunni (Padova: Becco Giallo, 2015), 147-155. l’attuale popolazione cinese in Italia può essere ricondotta principalmente alla migrazione di massa di manodopera dalla stessa zona dagli anni Ottanta. Le persone di quell’area costituivano oltre il 90% di tutta la popolazione cinese negli anni Ottanta e tra il 70% e l’80% negli anni 2010.2)Kevin Latham, Kevin, e Bin Wu, Chinese Immigration into the EU: New Trends, Dynamics and Implications (London: Europe China Research and Advice Network, 2013). Indipendentemente dalla loro diversità sub-regionale e linguistica, le persone del Zhejiang meridionale hanno dominato le economie etniche cinesi in Italia. Gli immigrati arrivati più tardi dalla provincia del Fujian e dal Dongbei (Cina nord-orientale) hanno iniziato la loro vita in Italia occupando le posizioni economiche più basse insieme a quelli arrivati successivamente dal Zhejiang. Tuttavia, il loro numero, la loro presenza sui social network e il loro potere economico in Italia sono molto più deboli rispetto a quelli dei loro connazionali provenienti dallo Zhejiang. Per la maggior parte essi sono stati assorbiti nel circuito delle economie etniche cinesi. Alcuni di loro hanno potuto esperire un certo grado di mobilità economica come quelli dello Zhejiang. Il presente articolo, dunque, non prende in considerazione le distinzioni particolari riguardo i luoghi specifici di provenienza degli immigrati cinesi e delle loro imprese.
Dalla metà degli anni Ottanta fino alla recessione globale del 2008, l’emigrazione cinese ha incontrato un mercato del lavoro italiano che richiedeva manodopera flessibile e transnazionale da impiegare nei marchi emergenti del made in Italy, soprattutto nell’industria globale del pronto moda.3)Antonella Ceccagno, City Making and Global Labor Regimes: Chinese Immigrants and Italy’s Fast Fashion Industry (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2017). I laboratori di produzione, insieme ai ristoranti cinesi, costituivano due importanti nicchie commerciali che consentivano a molti immigrati cinesi appena arrivati e alle loro famiglie di raggiungere la ricchezza. Quando la Cina è emersa come produttore ed esportatore globale di merci dopo gli anni Novanta, l’import-export e le correlate attività all’ingrosso sono diventate un nuovo percorso verso il successo economico per i cinesi arrivati successivamente in Italia. Nel nuovo millennio, l’economia etnica cinese si è ulteriormente estesa ai settori della vendita al dettaglio e dei servizi. Sempre più cinesi sono entrati in piccole attività di quartiere rivolte a diverse popolazioni locali, tra cui bar, parrucchieri e negozi di beni di consumo economici. Negli ultimi anni, un numero crescente di immigrati cinesi in Italia è coinvolto anche in attività transnazionali: alcuni stanno reinvestendo in Cina mentre altri stanno utilizzando WeChat, una piattaforma di social media cinese, per impegnarsi nel settore, fortemente in espansione, delle microimprese per i consumatori cinesi in entrambi i paesi. Negli ultimi quattro decenni, le comunità cinesi sono cresciute fino a diventare uno dei gruppi di immigrati più prosperi ed economicamente potenti in Italia.
La prima generazione: dalla manodopera a basso costo agli imprenditori immigrati
Gli imprenditori cinesi appartenenti alla prima generazione degli immigrati in Italia dal Zhejiang spesso condividono diverse caratteristiche comuni. Di solito hanno bassi livelli di istruzione e provengono dalla periferia urbana o dalla campagna. Prima di emigrare, di solito erano impiegati statali, lavoratori subordinati, artigiani, venditori o proprietari di piccole imprese, più raramente semplici lavoratori agricoli. In molti casi avevano già intrapreso una migrazione interna. Per questi lavoratori scarsamente qualificati e poco istruiti, le attività autonome costituivano in genere l’unico modo di ottenere una mobilità economica e sociale ascendente, sia nella Cina del post-Mao che all’estero. Sebbene non tutti gli immigrati venuti in Italia dal Zhejiang meridionale fossero già stati migranti interni o piccoli imprenditori in Cina, quelli con tali esperienze rappresentavano un gruppo considerevole tra i primi emigranti. Ciò può essere dovuto al fatto che la loro precedente esperienza nella piccola imprenditoria ha fornito loro la motivazione per avviare la propria shiye (impresa) una volta presentatasene l’opportunità. Molti di loro avevano chiuso le loro piccole attività in Cina e si erano recati in Europa alla ricerca di migliori opportunità economiche, non necessariamente a causa di risultati economici negativi nel loro paese d’origine. Questi immigrati cinesi che avevano meno debiti avevano anche maggiori possibilità di avviare la propria attività prima di altri connazionali. Credevano che l’Europa avrebbe dato loro migliori opportunità di affari e rendimenti economici. Secondo Minghuan Li, il “senso di deprivazione relativa” e la “migrazione a catena” sono due concetti chiave per capire perché molti cinesi della grande area di Wenzhou si siano uniti all’ondata migratoria verso l’Europa.4)Minghuan Li, “‘To Get Rich Quickly in Europe!’: Reflections on Migration Motivation in Europe”, in Frank N. Pieke, e Hein Mallee (a cura di), Internal and International Migration: Chinese Perspectives (Richmond, Surrey: Curzon 1999), 181-198. Non volevano perdere l’opportunità di arricchirsi rapidamente come alcuni dei loro parenti o amici che erano già emigrati in Europa.
Gli immigrati cinesi in genere hanno iniziato la loro vita nel nuovo paese lavorando in laboratori o attività co-etniche a cui hanno avuto accesso grazie alle loro forti reti etniche. Tali lavori spesso forniscono vitto e alloggio gratuiti e quindi permettono agli immigrati cinesi di rimanere nelle loro nicchie etniche per i primi anni senza dover affrontare un nuovo ambiente culturale e linguistico. Dopo aver acquisito maggiore familiarità con la società locale, alcuni hanno continuato a lavorare come salariati, mentre altri si sono impegnati in attività autonome informali come scorciatoia per la mobilità economica e sociale, come venditori ambulanti o massaggiatori mobili da spiaggia in estate. Il lavoro autonomo è stato per gli immigrati cinesi un modo di resistere allo sfruttamento da parte di altri, che consentiva loro una maggiore autonomia in termini di distribuzione del tempo e spesso prometteva migliori ritorni economici, esponendoli allo stesso tempo a maggiori rischi imprenditoriali. Il desiderio di iniziare la propria shiye è stato anche uno dei motivi principali per cui molti immigrati cinesi non desideravano rimanere in Italia da immigrati irregolari, motivandoli ad aderire in massa alle cosiddette sanatorie. Secondo diversi racconti di imprenditori immigrati cinesi, dall’emigrazione all’avvio delle loro prime attività formali ci volevano almeno due o tre anni, ma più comunemente da cinque a sei. Durante questo processo, oltre ad accumulare capitali per le loro piccole imprese, potevano anche ripagare i debiti contratti con i propri parenti per finanziare la loro emigrazione, regolarizzare il proprio soggiorno, inviare rimesse alle loro famiglie in Cina e alla fine portare i loro figli in Italia.
I legami personali sono stati spesso gli unici social network che questi primi arrivati potevano utilizzare e manipolare. Hanno appreso opportunità di affari e conoscenze locali dai loro “amici e parenti” e hanno imitato i loro esempi di successo. Questo è un percorso comune seguito nella formazione di una nicchia imprenditoriale etnica.5)Glenn R. Carroll, “Long-term Evolutionary Change in Organizational Populations: Theory, Models and Empirical Findings in Industrial Demography”, Industrial and Corporate Change 6 (1), 1997: 119–143. Per gli immigrati cinesi dallo Zhejiang, i loro forti legami sociali reciproci hanno spesso promesso un sostegno finanziario che ha consentito un più facile accesso ai finanziamenti per le start-up sotto forma di contanti. In molti casi, non avevano bisogno di accumulare abbastanza denaro in anticipo per avviare un’attività. Inoltre, questa rete reciproca è spesso transnazionale, piuttosto che essere limitata all’interno del confine italiano. Qui transnazionale non significa solo Italia e Cina, ma comprende anche la rete diasporica di parentela. Ad esempio, una coppia cinese in Italia che desidera acquistare un bar può ricevere sostegno finanziario dai suoi fratelli che fanno affari in Spagna.
Questi imprenditori immigrati cinesi di prima generazione hanno partecipato attivamente a varie attività economiche nel tentativo di abbinare le loro risorse alle mutevoli circostanze economiche della società italiana in modo da massimizzare la loro prosperità economica. Considerano in genere la loro migrazione transnazionale come uno sforzo continuativo verso la mobilità economica e sociale. In questo processo, molti di questi immigrati cinesi si sono cimentati in più di un settore di attività. Alcuni di loro sono diventati imprenditori seriali che possiedono più di un’impresa o diversi tipi di piccole attività. Quando un’attività non funziona o non è all’altezza delle loro aspettative, spesso passano a un’altra. Nessuno di loro vede una data attività come il punto di arrivo della propria carriera imprenditoriale. Mobilitano e impiegano attivamente capitali e risorse per far fronte a circostanze economiche avverse e forgiano nuovi percorsi economici attraverso le loro varie forme di interazione con le strutture sociali in cui sono incorporati.6)Nina Glick-Schiller e Çağlar Ayşe, “Locating Migrant Pathways of Economic Emplacement: Thinking Beyond the Ethnic Lens”, Ethnicities13 (4) 2013: 494–514. Ad esempio, molti proprietari di piccoli laboratori di produzione, compresi i genitori di Liu, hanno deciso di lasciare il loro laboratorio e investire in una nuova attività a causa della carenza di manodopera e del calo delle commesse. Un altro esempio è l’attuale molteplicità di ristoranti di cucina panasiatica gestiti da immigrati cinesi. Questo è un risultato diretto delle loro reazioni adattive e strategiche alla sinofobia legata all’epidemia di SARS nel 2003, durante la quale le attività di ristorazione cinesi hanno subito gravi perdite. Allo stesso modo, l’attività dei bar si è rivelata una nuova e talvolta ideale opportunità per alcuni immigrati cinesi di massimizzare il proprio reddito familiare e sopravvivere alle incertezze economiche dopo la crisi economica del 2008 (Deng 2020).7)Ting Deng,“Chinese Immigrant Entrepreneurship in Italy’s Coffee Bars: Demographic Transformation and Historical Contingency”, International Migration 58 (3) 2020: 87-100.
Erdai: manodopera effettiva per le imprese familiari
L’imprenditoria cinese immigrata in Italia è comunemente associata al potere riproduttivo e a una struttura familiare patriarcale che enfatizza la continuazione della linea familiare. Un certo equilibrio di genere è stato notato tra le popolazioni cinesi in Italia. L’emigrazione è spesso un piano basato sulla famiglia per gli immigrati cinesi dalla provincia dello Zhejiang meridionale. Molti di loro erano sposati e avevano uno o più figli prima della loro emigrazione. Sebbene questi immigrati cinesi di prima generazione siano spesso emigrati in Italia con mezzi irregolari, i loro figli raramente l’hanno fatto allo stesso modo. Alcuni uomini sono emigrati per primi e, dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno, le mogli e i figli hanno chiesto il visto per il ricongiungimento familiare in modo da raggiungerli in Italia. Altre coppie sono emigrate come migranti irregolari, lasciando dietro di sé i bambini con i nonni e successivamente portandoli in Italia attraverso i canali ufficiali una volta che ciò è diventato possibile. Questo è anche uno dei motivi principali per cui gli imprenditori immigrati cinesi di solito preferiscono legalizzare la loro residenza il prima possibile, piuttosto che rimanere in Italia senza il permesso. Anche la circolazione transnazionale dei bambini era abbastanza comune tra gli immigrati cinesi.8)Elizabeth Krause,Tight Knit, Global Families and the Social Life of Fast Fashion (Chicago: Chicago University Press, 2018). Questi lavoratori immigrati dovevano mandare i loro figli nati in Italia ai nonni in Cina e non potevano riportarli in Italia fino a quando non avessero avviato un’attività autonoma che consentisse loro una maggiore flessibilità per prendersi cura dei propri figli.
Tra questi bambini erdai o di “seconda generazione” in Italia si mostra una grande diversità intragruppo. L’età di arrivo in Italia ha un impatto considerevole sul livello di istruzione, sulle scelte professionali e sulla mobilità sociale. Molti bambini si sono uniti ai genitori in Italia a un certo punto della loro adolescenza prima di raggiungere l’età adulta, quando erano ancora idonei per i visti per ricongiungimento familiare. Alcuni di questi bambini si definivano scherzosamente come di “una generazione e mezza”, invece che di “seconda generazione” vera e propria, ovvero persone nate e cresciute in Italia, o rispetto a persone che hanno ricevuto un’istruzione scolastica completa in Italia e appaiono loro più integrati nella società italiana. In effetti, alcuni studiosi hanno anche usato lo stesso termine “generazione 1.5” per riferirsi a bambini migranti che sono stati in parte scolarizzati nel paese di origine e si trovano a cavallo sia della società di arrivo che di quella di partenza, ma non si sentono completamente parte di nessuna di esse.9)Min Zhou, “Growing Up American: The Challenge Confronting Immigrant Children and Children of Immigrants”, Annual Review of Sociology 23, 1997: 63-95. Ruben G. Rumbaut, The Agony of Exile: A Study of the Migration and Adaptation of Indochinese Refugee Adults and Children (Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press, 1991).
Le limitazioni linguistiche sono uno dei principali ostacoli che i bambini cinesi di “una generazione e mezza” hanno incontrato comunemente e che ha impedito loro di ottenere risultati migliori a scuola e di continuare la loro istruzione. Sono pochissimi i bambini cinesi che hanno iniziato la scuola in Italia alle medie o dopo aver conseguito una laurea. La maggior parte di loro ha abbandonato dopo uno o due anni di scuola secondaria. Nessuna istruzione bilingue o corsi di lingua erano disponibili in molte scuole medie italiane per questi nuovi giovani arrivati, che non avevano una formazione in lingua italiana prima della migrazione. Come nel caso di Liu, spesso questi bambini impiegavano almeno due anni per poter affrontare la comunicazione quotidiana in italiano, ma spesso non abbastanza per far fronte al materiale scolastico, soprattutto nelle scuole secondarie poiché il loro vocabolario era insufficiente. Alcune materie erano particolarmente difficili per loro, come la storia, la letteratura italiana e le lingue straniere. Molti di loro sono stati impediti dall’esperienza del primo anno di scuola secondaria. Li ha fatti sentire scoraggiati e molti di loro hanno abbandonato dopo solo uno o due anni. Per chi si iscriveva direttamente a una scuola secondaria, l’istruzione scolastica in Italia era solo simbolica. Alcuni di loro sono entrati in un liceo linguistico con l’intenzione di imparare l’italiano, poi hanno scoperto che dovevano imparare altre due lingue simultaneamente.
A parte lo scarso rendimento scolastico, la pressione della famiglia costituisce un’altra ragione significativa per cui questi studenti cinesi hanno abbandonato presto gli studi. Nei primi anni del loro trasferimento in Italia, gli immigrati cinesi tipicamente hanno trattato i loro figli come capitale umano da utilizzare per il raggiungimento della mobilità economica e sociale. Durante questo processo, i loro figli sono diventati adulti e hanno svolto un ruolo cruciale nelle loro economie familiari. Spesso hanno dovuto affrontare forti pressioni da parte delle loro famiglie per svolgere i loro doveri familiari tramite il cosiddetto bangmang(l’aiuto prestato ai genitori) nell’attività gestita dalla famiglia già all’età di dodici o tredici anni. Hanno contribuito con la loro manodopera lavorando a fianco dei loro genitori o almeno interagendo con altri commercianti, con i fornitori, le autorità italiane e le altre parti interessate. Molti bambini più grandi avevano anche la responsabilità di prendersi cura dei loro fratelli più piccoli. Una situazione simile è stata registrata tra le comunità cinesi nei Paesi Bassi, dove i bambini cinesi hanno svolto un ottimo lavoro a scuola o hanno abbandonato.10)Frank N. Pieke, “Chinese Educational Achievement and ‘Folk Theories of Success’”, Anthropology and Education Quarterly 22 (2), 1991: 162–180. Il fatto che si fossero ritirati o meno era dovuto ai calcoli razionali dei genitori per massimizzare l’accumulo familiare. L’investimento nell’istruzione poteva essere un percorso per la mobilità ascendente della famiglia, ma era considerato utile solo se i benefici attesi superavano la perdita del lavoro del bambino.
I bambini che hanno abbandonato la scuola presto non hanno avuto migliori opportunità nel mercato del lavoro mainstream e di solito sono rimasti nelle imprese familiari di gestione autonoma. Eppure, sono spesso questi bambini, che hanno trascorso la loro infanzia in Cina, a diventare la manodopera maggiore e più efficace che ha contribuito alle loro attività familiari autonome e alla mobilità economica, come hanno già notato alcuni studiosi.11)Antonella Ceccagno, Giovani migranti cinesi: La seconda generazione a Prato (Milano: Franco Angeli, 2004). Daniele Cologna, “Giovani cinesi d’Italia: una scommessa che non dobbiamo perdere”, in L. M. Visconti ed E. M. Napolitano (a cura di), Cross Generation Marketing (Milano: Egea, 2009), 259-282. Sebbene esclusi dal mercato del lavoro mainstream, hanno acquisito una migliore competenza linguistica e un’istruzione relativamente maggiore rispetto ai loro genitori. Sebbene abbiano spesso dovuto affrontare problemi linguistici con i loro materiali scolastici, di solito sono stati in grado di leggere e parlare l’italiano e gestire la comunicazione quotidiana più facilmente dei loro genitori, avendo beneficiato di un’età più giovane di apprendimento delle lingue e frequentando scuole di italiano, anche se per brevi periodi di tempo. L’importanza di questi bambini è evidenziata ancora di più nelle attività di servizi rivolte alle comunità locali e ai quartieri, come i bar, dove vengono richieste maggiori competenze linguistiche e conoscenze locali. Spesso, a questi bambini che hanno abbandonato gli studi e che sono rimasti nell’impresa famigliare si sono uniti i bambini che avevano titoli di laurea ma erano scoraggiati dall’ambiente economico incerto dell’Italia, dal precario mercato del lavoro mainstream e dai ritorni economici poco promettenti.
Tuttavia, il fatto che rimangano nell’azienda di famiglia non significa che questi giovani erdai faccianolo stesso lavoro o la stessa attività dei loro genitori. La maggior parte degli immigrati cinesi di vecchia generazione veniva reclutata in laboratori di produzione situati in piccole città o periferie urbane di distretti industriali. Le giovani generazioni cinesi, che hanno raggiunto una certa sicurezza economica attraverso l’auto-sfruttamento dei loro genitori e il loro lavoro manuale a basso costo, non erano disposte a lavorare nei laboratori per dodici ore o più al giorno come avevano fatto i loro genitori. Di solito preferivano lavorare nelle industrie dei servizi dove erano in grado di interagire con le persone e godere i benefici della vita urbana. Alcuni di loro hanno persino optato per il dagong (“lavorare per altri”) come camerieri, commessi o baristi in centri urbani, allontanandosi dai distretti manifatturieri, e sono solo tornati al bangmang (“prestare aiuto” nell’impresa famigliare) nei loro laboratori di proprietà familiare solo quando la loro famiglia era a corto di manodopera. Anche i cinesi di vecchia generazione, in particolare quelli che sono ancora lavoratori salariati o possiedono un piccolo laboratorio o impresa, tendono ad avviare o ristrutturare l’impresa di famiglia in un’attività meno laboriosa e faticosa, di solito nel settore dei servizi. Pertanto, quando la manodopera dei loro figli diventa disponibile, iniziano a cercare una “buona” attività per i loro figli e per la loro famiglia nel suo insieme.
Il sistema di parentela patriarcale ha ulteriormente incoraggiato l’imprenditoria familiare tra gli immigrati cinesi in Italia. L’idea di “un’impresa per ogni figlio” è una tacita regola tra i cinesi in Italia dello Zhejiang meridionale. Avere un’attività o almeno avere la capacità di avviare una shiye è ampiamente considerato il prerequisito affinché un uomo erdai trovi una moglie. Il divorzio è piuttosto raro e altamente stigmatizzato nelle comunità cinesi. In effetti, il matrimonio è spesso una parte del loro progetto imprenditoriale per l’azienda familiare e il successo economico. Gli immigrati cinesi in genere preferiscono sposare altri cinesi all’interno della specifica regione cinese per motivi di solidarietà familiare e considerazioni economiche. Luogo di origine, condizioni economiche, obbedienza, pietà filiale e una buona etica del lavoro sono spesso le considerazioni principali per entrambi i lati della famiglia. I genitori hanno comunemente la responsabilità genitoriale di aiutare i propri figli ad avviare un’attività in proprio o trasmettere l’impresa di famiglia ai propri figli maschili. A volte i genitori dello sposo non hanno un’impresa pronta da trasmettere o hanno ancora figli più piccoli e non sposati a casa. La giovane coppia in questo caso può ancora fare affidamento sui risparmi e sulle risorse dei genitori o utilizzare i regali in denaro per il loro matrimonio, raccolti da parenti e amici di famiglia per avviare le proprie piccole imprese.
Alcuni nuovi fenomeni meritano un’attenzione particolare per quanto riguarda le nuove imprese gestite dagli erdai cinesi. In primo luogo, questi immigrati cinesi di seconda generazione hanno migliorato o innovato molte attività cinesi “tradizionali”, inclusi i ristoranti e l’industria del pronto moda. Gli immigrati cinesi e i loro figli si sono progressivamente emancipati dal ricorso al lavoro manuale e ora adottano preferibilmente ruoli gestionali. Molti erdai hanno sostituito i genitori nell’esercizio di un ruolo manageriale nell’azienda familiare. Hanno assunto altri lavoratori cinesi o immigrati di altra nazionalità per fare la parte del lavoro manuale; hanno introdotto modalità di gestione più moderne con le tecnologie digitali; alcuni di loro hanno addirittura creato e promosso i propri marchi sia nel mercato italiano che in quello transnazionale. In secondo luogo, oltre a queste attività tipiche di quella che un tempo era l’economia d’enclave etnica cinese, negli ultimi vent’anni sono emersi numerosi servizi di prossimità che travalicano il perimetro dell’economia etnica per offrire beni e servizi offerti a una clientela generalista. Queste attività (barbieri, sartorie e tintorie, minimarket di articoli casalinghi, centri estetici ecc.) si rivolgono principalmente a una popolazione locale sempre più diversificata sia dal punto di vista etnico che da quello della classe sociale. Terzo, molti immigrati cinesi hanno rilevato tradizionali esercizi di prossimità tradizionali nei quartieri residenziali come bar e ristoranti di quartiere. Hanno rilevato queste attività dai precedenti proprietari italiani che hanno dovuto vendere l’attività in seguito al pensionamento dei gestori, dell’aumento dei costi di gestione o della diminuzione del fatturato a causa della recessione economica. Gli immigrati cinesi sono in grado di mantenere queste attività grazie al loro utilizzo della manodopera flessibile dei propri famigliari, spesso avendo a disposizione della collaborazione famigliare di due generazioni. Un ulteriore sviluppo, non meno importante, è quello del trapianto in Italia di modelli d’impresa affermatisi in questi ultimi anni nella Cina urbana, come negozi di bubble tea, saloni di bellezza, nuovi tipi di ristoranti etnici e di microimprese che si servono di piattaforme online come i social media cinesi WeChat o Alibaba. Alcuni imprenditori cinesi di nuova generazione che parlano la lingua cinese hanno ricevuto ispirazione imprenditoriale dalle loro reti transnazionali, dai liuxuesheng (gli studenti cinesi all’estero) residenti in Italia, dai social media cinesi o dalle loro altre esperienze in Cina. Queste attività si rivolgono sia a una clientela italiana che, in modo crescente, ai cinesi in Italia come specifico target commerciale, soprattutto le giovani generazioni che sono relativamente benestanti e dispongono di una certa capacità di consumo. È sempre più comune vedere proprietari di piccole imprese cinesi impegnati contemporaneamente anche nella vendita online, pubblicizzando prodotti cinesi che non sono disponibili sul mercato regolare italiano o viceversa.
Le nuove generazioni come minoranza modello in ascesa?
Se Liu era ancora un’eccezione tra i suoi coetanei, il conseguimento della laurea oggi non fa più notizia tra gli erdai che sono nati o almeno hanno ricevuto un’istruzione scolastica completa in Italia. Un numero crescente di cinesi di seconda generazione in Italia mira ad essere o è già stato assunto nel mercato del lavoro tradizionale. Sono diventati avvocati, medici, banchieri e professionisti di vario tipo, un po’ come è avvenuto ai cinesi americani famosi per il loro stereotipo di minoranza modello. Alcuni servono ancora le comunità cinesi, mentre altri sono stati reclutati in nuove imprese cinesi statali o private che hanno operazioni in Italia. Inoltre, molti cinesi si sono uniti all’emigrazione italiana di manodopera specializzata. Alcuni di loro sono partiti per altri paesi europei o negli Stati Uniti, inseguendo promesse di una carriera migliore, altri si sono trasferiti in Cina per lavorare per aziende italiane o di altre società transnazionali.
I cinesi di seconda generazione in Italia, le cui famiglie hanno ampiamente raggiunto una certa mobilità economica e sociale, non hanno però ricevuto il riconoscimento sociale che si aspettano. Il razzismo e l’esclusione sociale che molti di loro hanno incontrato in una forma o nell’altra in quanto membri della minoranza etnica cinese in Italia, resta un vissuto che condividono con gli immigrati cinesi della vecchia generazione. Il fatto di essere nati e cresciuti nello stesso paese e di condividere la stessa lingua con gli italiani non li ha liberati dalla razzializzazione cui sono esposti nella sfera mediatica e dalla discriminazione nei loro confronti a livello sociale. In questo contesto, si sta formando una particolare identità generazionale tra gli italo-cinesi. Molti cercano di affermare una loro identità distintiva, cercando di smarcarsi dallo stereotipo degli immigrati cinesi della vecchia generazione, che “sanno solo lavorare”.
Un buon esempio è la mission che un’influente associazione cinese di seconde generazioni, ha pubblicato sul proprio sito web. Afferma:
“(…) Siamo ragazzi nati o cresciuti in Italia che, stufi di essere giudicati e classificati per il proprio involucro esteriore, cercano di sfatare i luoghi comuni come la generale chiusura della comunità cinese in Italia; chiusura che effettivamente c’è, ma limitata principalmente alla prima generazione, giustificabile dalle problematiche linguistiche – il cinese basato sugli ideogrammi è totalmente diverso dalla lingua alfabetica italiana e dalle difficili condizioni economiche che non lasciano tempo per pensare ad altro se non al lavoro. Noi siamo i loro figli, nati o cresciuti in Italia, che hanno frequentato scuole italiane, con uno stile di vita italiano, che parlano l’italiano come madrelingua, con nuove esigenze e prospettive di vita. Non abbiamo necessità di integrarci quanto non ne ha qualsiasi persona nata o cresciuta in Italia, noi seconde generazioni non siamo degli immigrati: nel Bel Paese ci siamo sempre stati.”
Questa dichiarazione simile a un manifesto esprime esplicitamente il forte desiderio di riconoscimento sociale di queste giovani italo-cinesi di nuove generazioni. Tuttavia, mostra anche che hanno interiorizzato il discorso sulle differenze culturali che legittimizza l’esclusione sociale e la discriminazione contro gli immigrati e le minoranze etniche in Italia. È stata fatta una netta distinzione tra i cinesi di prima generazione, che provengono da una cultura diversa e quindi rappresentano i soggetti da integrare, e i cinesi di seconda generazione che rivendicano un posto legittimo nella società italiana.
La loro autoidentificazione è ulteriormente complicata dalle mutevoli dinamiche di potere tra l’Italia e la Cina. Mentre l’Italia è intrappolata nella stagnazione economica da più di un decennio, la Cina è emersa come una potenza economica globale che svolge anche un ruolo sempre più importante nel plasmare le imprese dei cinesi in Italia. Essere cinese rappresenta dunque una forma di “capitale etnico” di cui sperano di beneficiare per sopravvivere in un presente e futuro economicamente incerto. Sempre più cinesi di generazione giovane, che non potevano parlare cinese poiché sono cresciuti in un ambiente in cui la lingua cinese non era considerata importante, stanno imparando il cinese mandarino da adulti, e assegnano a lingua cinese una parte fondamentale nell’educazione dei loro bambini. Allo stesso modo, i genitori cinesi più benestanti mandano i loro figli in scuole internazionali in Italia con l’idea che l’inglese sia più importante dell’italiano, sostenendo anche i loro figli che tornano in Cina per corsi di lingua o addirittura per l’istruzione universitaria. In questo modo, la Cina non è più solo una remota “radice” immaginaria per i cinesi in Italia, che avevano vissuto lì esperienze limitate.
Considerazioni conclusive
Le differenze generazionali sono diventate sempre più evidenti tra i cinesi in Italia. Le difficoltà economiche e di vita che gli immigrati cinesi della prima generazione hanno vissuto come immigrati irregolari sono state in gran parte lasciate come una memoria collettiva che non è familiare ai loro figli e nipoti. Una minoranza etnica che un tempo molti italiani disinvoltamente associavano al mondo oscuro e misterioso della presunta mafia cinese, assomiglia oggi sempre più a una “minoranza modello”. Tuttavia, le esperienze di altre società hanno dimostrato che essere considerati una “minoranza modello” non libera necessariamente dall’esclusione sociale e dalla discriminazione razziale radicatesi nella lunga e brutale storia del colonialismo europeo e dell’imperialismo bianco.
Uno dei motivi per cui Liu ha deciso di imparare la psicologia è stato il suo desiderio di assistere le comunità cinesi, dove ha notato che molti erdai hanno sviluppato problemi di salute mentale, presumibilmente legati alle loro crisi di identità e al dilemma di essere economicamente privilegiati e socialmente svantaggiati. Sempre più cinesi di giovane generazione sono anche diventati più espliciti e impegnati socialmente e politicamente nel perseguimento della giustizia sociale in termini di uguaglianza razziale ed etnica. Nessuno può prevedere che tipo di futuro i tre nipoti di Liu e gli altri cinesi di terza generazione in Italia affronteranno sia economicamente che socialmente. Saranno più integrati o assimilati agli italiani e allo stesso tempo più lontani dall’identità cinese o, al contrario, più distaccati dall’Italia e più attaccati alla Cina? Ad oggi non si può dire. Tuttavia, in questo momento in cui scrivo, nelle fitte nebbie della pandemia Covid-19, dell’aumento della sinofobia globale e dell’odio anti-asiatico, le loro vite future in Italia non sembrano meno impegnative di quelle delle generazioni di migranti cinesi che li hanno preceduti.
Immagine: foto di Agnese Morganti, dalla serie Chinatown
Grazia Ting Deng è Postdoctoral Research Associate presso il Population Studies and Training Center della Brown University, USA. Nel 2018 ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Antropologia della Chinese University of Hong Kong. Nel 2020 ha vinto la Marie Curie Individual Fellowship dell’UE in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari. Il suo interesse di ricerca si focalizza sull’immigrazione cinese in Italia e gli incontri etnici e interculturali.
↑1 | Daniele Brigadoi Cologna, “I cinesi nell’Italia fascista”, in Rocchi C., Demonte M., Primavere e Autunni (Padova: Becco Giallo, 2015), 147-155. |
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↑2 | Kevin Latham, Kevin, e Bin Wu, Chinese Immigration into the EU: New Trends, Dynamics and Implications (London: Europe China Research and Advice Network, 2013). |
↑3 | Antonella Ceccagno, City Making and Global Labor Regimes: Chinese Immigrants and Italy’s Fast Fashion Industry (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2017). |
↑4 | Minghuan Li, “‘To Get Rich Quickly in Europe!’: Reflections on Migration Motivation in Europe”, in Frank N. Pieke, e Hein Mallee (a cura di), Internal and International Migration: Chinese Perspectives (Richmond, Surrey: Curzon 1999), 181-198. |
↑5 | Glenn R. Carroll, “Long-term Evolutionary Change in Organizational Populations: Theory, Models and Empirical Findings in Industrial Demography”, Industrial and Corporate Change 6 (1), 1997: 119–143. |
↑6 | Nina Glick-Schiller e Çağlar Ayşe, “Locating Migrant Pathways of Economic Emplacement: Thinking Beyond the Ethnic Lens”, Ethnicities13 (4) 2013: 494–514. |
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