L’informazione statistica ufficiale sui mondi migratori, nell’ultimo decennio, è cresciuta considerevolmente. Benché i buchi informativi e la sistematizzazione delle fonti dati sia ancora lontana, da qualche anno ormai abbiamo rilevazioni specifiche e dati amministrativi in serie storica non solo sugli stranieri residenti o presenti nel loro complesso, ma anche per cittadinanza. Questo articolo presenta alcune informazioni statistiche sui cinesi in Italia, con un focus sulle trasformazioni della presenza cinese – anche a confronto con gli altri immigrati in Italia – in particolare relative a mercato del lavoro e nuove generazioni.

Introduzione

 L’attenzione statistica per la popolazione straniera in Italia ha subito alterne vicende, ed è in qualche modo specchio di un modello nazionale di “non politica”, di gestione implicita e senza chiare direzioni del processo di integrazione.

Infatti, da un lato abbiamo almeno tre rapporti con una lunghissima storia, prodotti da iniziative della società civile a partire dagli anni Novanta: Caritas-Migrantes e Idos, che – prima congiuntamente, poi separatamente – sono giunti al trentesimo anno di rapporti che mettono assieme dati pubblici e analisi divulgative; ISMU, giunto alla 26esima edizione, che produce anche dati di survey, oltre a raccogliere sul proprio sito fonti statistiche nazionali e internazionali.

Dall’altro, la statistica ufficiale è rimasta a lungo indietro – a esclusione della pubblicazione dei dati della popolazione residente sul sito ISTAT dedicato. Si pensi che ancora nel Censimento del 2001 si riscontravano gravi problemi di sottorappresentazione della popolazione immigrata – un momento critico che è stato colto per migliorare l’offerta di dati, non solo a livello censuario. Soprattutto negli ultimi 10 anni, infatti, anche l’interesse e la produzione statistica ufficiale nazionale in materia sono cresciuti significativamente. Nel 2013 Istat mette online la sezione “Immigrati.Stat”, un datawarehouse che raccoglie e rende fruibili le statistiche su immigrati e nuovi cittadini. Negli stessi anni escono gli esiti di una serie di ricerche e analisi condotte nel biennio 2011-2012 sugli stranieri residenti (per es. su discriminazione e life satisfaction). Una produzione e analisi proseguita negli anni su dati labour force survey (rilevazione continua forze lavoro), nei rapporti annuali fino alla recenti pubblicazioni dedicate alle nuove generazioni figlie dell’immigrazione e ai percorsi di integrazione.

Anche altre amministrazioni dello Stato hanno prodotto statistiche, anche se non sempre con continuità: il Ministero dell’istruzione ha fornito dati sugli “alunni con cittadinanza non italiana”; il CNEL ha prodotto una serie di rapporti sugli indici di integrazione (l’ultimo nel 2013, tema oggi ripreso da una recente pubblicazione dell’INMP); l’INPS ha prodotto quattro rapporti fra il 2003 e il 2011 e presenta oggi sul suo sito open data che per molti indicatori distinguono la situazione dei cittadini non italiani. Il Ministero del Lavoro, in particolare, è giunto al decimo rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro e si è impegnato nella redazione di rapporti sulle principali cittadinanze presenti in Italia.

Questo elemento, infatti, è particolarmente importante, perché molta della produzione statistica si limita a differenziare italiani e stranieri e rende quindi difficile analizzare “fratture” interne a un aggregato tanto vasto e diversificato: per traiettoria e anzianità migratoria; per titolo di soggiorno; per genere; e – ovviamente – per cittadinanza.

Questo contributo intende riprendere i dati disponibili sulla popolazione immigrata cinese, per caratterizzare un suo profilo statistico e alcune linee di tendenza nei processi di partecipazione sociale ed economica in Italia, a partire proprio dall’ultimo rapporto del Ministero del Lavoro sulla comunità cinese in Italia (questo significa anche che, se non diversamente indicato, i dati riportati nel seguito del testo provengono da quella fonte).

Un profilo sociodemografico

Gli stranieri con passaporto cinese regolarmente soggiornanti in Italia sono ca. 301.000 (terza cittadinanza non comunitaria, dopo Marocco e Albania) e i residenti ca. 289.000 (quarta cittadinanza straniera, dopo Romania, Marocco e Albania).

Si tratta per lo più di una presenza ormai consolidata e di lungo periodo, composta per il 60% da lungo-soggiornanti (cioè persone titolari di un permesso senza scadenza, che non deve dunque essere rinnovato) e per più di un quarto di minori, in grande parte nati in Italia (in base a dati del Ministero dell’Istruzione, più dell’80% degli studenti di origine cinese nelle scuole italiane è nato in Italia – la quota più elevata fra tutti i gruppi nazionali).

Ma si tratta anche di una presenza che sta cambiando, da diversi punti di vista. Dal punto di vista demografico, si sta riducendo: negli ultimi 5 anni i soggiornanti sono calati del 10% (il totale dei non comunitari meno, dell’8%), mentre i residenti sono ancora in crescita, a segnare un passaggio di visibilizzazione per le istituzioni locali (banalmente, chi è presente si registra alle anagrafi comunali).

La riduzione è legata solo in parte ad acquisizioni di cittadinanza, ca. 8.000 nell’ultimo lustro. Si tratta di numeri comparativamente bassi rispetto agli immigrati di altra origine, legati anche al divieto di doppia cittadinanza previsto dalla normativa cinese. Se guardiamo ai giovani (0-19) nel 2017 (si veda il Prospetto 1.1. qui) solo 1,3 cinesi su 100 sono diventati italiani (contro il 4,7% di tutti gli stranieri di pari età), in larghissima parte per elezione (per scelta, dunque, al compimento del diciottesimo anno d’età).

La riduzione è dunque legata ad altre dimensioni, fra le quali possiamo senz’altro considerare:

  • il calo dei nuovi ingressi, collegato plausibilmente anche a uscite dal Paese e forse anche ad alcune cadute nell’irregolarità, legate alle crisi generali e settoriali degli ultimi lustri (come testimoniato anche dalle quasi 12.000 domande di regolarizzazione presentate da cittadini cinesi nel quadro del recente provvedimento di emersione del 2020). Da questo punto di vista, un altro fattore trasformativo riguarda la mobilità non stanziale: i cittadini cinesi sono i primi richiedenti di visti di ingresso in Italia (più di 575.000 visti nell’ultimo anno prepandemico, il 2019), per l’88% per turismo e per quasi l’8% per affari (si veda la tabella a p. 125 del Dossier IDOS 2020). Se da un lato questa potrebbe essere anche una fonte di aggiramento delle norme di ingresso e soggiorno (con i cosiddetti overstayers, cioè coloro che sono irregolarmente presenti che non abbandonano il Paese allo scadere del visto), si tratta comunque di un passaggio importante nei rapporti di mobilità italo-cinesi, in cui loisir e business si gestiscono in tempi più brevi – per il quale è da valutare anche il ruolo di interfaccia delle comunità stanziali.
  • il calo della dinamica naturale. Certo, la presenza di minori e giovani è particolarmente marcata, ma è frutto del pregresso acquisito negli anni scorsi. Si consideri che per tutta la prima metà del decennio scorso i nati da cittadini cinesi superavano agevolmente i 5.000 l’anno, mentre nell’ultimo lustro siamo nell’ordine di poco più di 3.000 nati l’anno. Vediamo questa transizione anche nel mondo della scuola: la quota di alunni cinesi iscritti nelle scuole italiane cresce, ma cresce poco nell’infanzia e nella primaria, e molto nella secondaria – proprio come “onda lunga” delle nascite e dei ricongiungimenti del boom migratorio del decennio scorso.

Quest’ultimo punto ci permette di iniziare a introdurre il tema del cambiamento generazionale: pur essendo un aggregato, quello dei cinesi in Italia, composto complessivamente da persone piuttosto giovani (più giovani della media dei cittadini stranieri non comunitari presenti in Italia – si veda il grafico 2 qui), sta mutando forma. Da un lato, abbiamo gli stabilizzati: per lungo tempo i cinesi in Italia hanno avuto accesso limitato ai permessi per lungosoggiornanti – anche quando in teoria potevano averne diritto. Oggi rispetto a cinque anni fa la loro quota è molto più vicina a quella delle altre nazionalità presenti nel nostro Paese (in un lustro dal 46 al 60% per i cinesi e dal 60 al 63% per il complesso dei non comunitari) – segno di una volontà e possibilità di immaginare un futuro in Italia.

In questo aggregato, pur rimanendo ancora ben presente una quota di lavoratori e lavoratrici soli (le famiglie unipersonali sono il 29% delle famiglie cinesi, contro il 34% del totale delle famiglie non comunitarie), abbiamo una quota molto ampia di famiglie con figli: le coppie con figli e le famiglie monogenitoriali assieme sono quasi la metà delle famiglie cinesi, ma solo un terzo di quelle totali non comunitarie. L’altro elemento chiave, dunque, è quello delle generazioni figlie dell’immigrazione cinese, nate e/o cresciute in Italia – cui dedicheremo la prossima sezione per opportuni approfondimenti.

Un aspetto però, più generale, lo anticipiamo qui: è probabile che nel futuro delle comunità cinesi in Italia questi giovani si troveranno fianco a fianco con altri giovani cinesi, arrivati direttamente dalla madrepatria con un percorso piuttosto diverso. Infatti, guardando ai nuovi ingressi, negli ultimi anni i tradizionali permessi per lavoro e famiglia non ci permettono più di avere un quadro chiaro del fenomeno migratorio, complessivo (si pensi ai permessi per richiedenti e titolari di protezione) e cinese.

In quest’ultimo caso, guardando all’ultimo lustro, vediamo una crescita importante del peso relativo dei permessi per motivi di studio. Se 5 o 6 anni fa i permessi di studio erano un terzo dei nuovi ingressi, sono arrivati oggi alla metà – prevalentemente di giovani donne. Il peso è aumentato non per una crescita particolarmente marcata, ma per il calo drastico degli altri motivi di soggiorno (in particolare, i permessi per lavoro): si pensi che nel solo 2010 venivano rilasciati quasi 50.000 nuovi permessi a cittadini cinesi, ancora 20.000 nel 2013, meno di 9.000 nel 2019.

Sappiamo che la mobilità degli studenti – per classe sociale, aspirazioni e progetti migratori – è in genere molto diversa dalle migrazioni per lavoro e ricongiungimento. Purtuttavia – come accaduto in altri contesti dove il consolidamento delle migrazioni cinesi è partito anche da flussi studenteschi (come in Giappone o Australia) – non possiamo escludere che si possa strutturare un nuovo gruppo con caratteristiche distinte dentro alla già plurale comunità cinese in Italia.

Generazioni figlie dell’immigrazione

Una giovane migrazione qualificata comporterebbe una trasformazione molto significativa, se si considera che l’attuale presenza cinese in Italia presenta diverse difficoltà sul fronte delle credenziali educative: da un lato, i lavoratori cinesi occupati nel mercato del lavoro italiano hanno spesso un basso titolo di studio (sia per bassa qualificazione in partenza, sia per difficoltà nel riconoscimento dei titoli). L’85% ha la sola licenza media (contro il 60% del totale dei non comunitari). Dall’altro, il percorso scolastico dei figli dell’immigrazione cinese è particolarmente accidentato.

Le generazioni figlie dell’immigrazione cinese evidenziano una posizione che il rapporto ISTAT sulle seconde generazioni osserva con grande preoccupazione. I giovani cinesi sono quelli che più si sentono stranieri in Italia (ca. la metà di loro esprime quest’opinione), che hanno meno interazioni con i coetanei italiani – anche in rapporto a forti problemi di comprensione linguistica dell’italiano. Ma nonostante ciò sono anche i giovani con background migratorio che vedono più degli altri il loro futuro in Italia. Considerando la forte mobilità e le reti diasporiche dei genitori, si tratta di un elemento particolarmente significativo. In qualche modo, si tratta di giovani che appaiono forse più di altri situati fra due fuochi, con una “doppia coscienza” difficile da conciliare.

Da una parte, infatti, i tentativi di inclusione sociale sembrano frustrati da una incapacità di accoglienza e accomodamento della diversità sociale, culturale ed economica di questa minoranza migratoria. Se pensiamo al loro inserimento scolastico, gli alunni cinesi sono fra quelli che meno vengono inseriti in classi corrispondenti alla loro età (solo 1 su 5, contro uno su due del totale degli stranieri): cosa che – insieme alle bocciature – fa accumulare ritardi e limita le opportunità educative. Si tratta anche di una delle minoranze in cui i minori residenti sono meno inseriti a scuola (fatto 100 il numero di minori iscritti in anagrafe, ne risultano inseriti nel sistema educativo solo 66 – si veda il grafico 3.1.1. nel rapporto 2018 sulla comunità cinese del Ministero del Lavoro), segnando sia il rischio di abbandoni precoci, sia – come analizzato da Elisabeth L. Krause– complesse e difficili strategie di gestione familiare, con rimpatri dei figli per periodi variabili. Infatti, il tasso di uscita precoce dal sistema dell’istruzione e della formazione è il peggiore fra tutti i gruppi nazionali presenti in Italia: secondo i dati del 2014 riportati nel V Rapporto annuale su “I migranti nel mercato del lavoro”, esso arriva al 45% dei casi per i ragazzi (contro il 16% degli italiani e il 37% dei non-EU) e addirittura il 68,5% per le ragazze (contro l’11% per le italiane e il 31% per le non comunitarie). Un elemento di sfavore di genere che si riscontra solo per poche altre provenienze, come Egitto e Pakistan.

L’incapacità e la difficoltà del sistema scolastico e sociale non passano inosservate ai ragazzi stessi: se gli adulti – anche in considerazione del frequente inserimento in segmenti produttivi etnicizzati e funzionali ad alcune filiere dell’economia nazionale e del limitato contatto sociale e istituzionale con gli italiani – tendono a considerarsi molto poco vittime di discriminazione, i giovani cinesi lamentano più di tutti sia la discriminazione subita in ambito educativo, sia il bullismo dei coetanei (si veda la figura 4.4. qui). Non si sentono dunque valorizzati e accettati, in un sistema scolastico come il nostro in cui la barriera linguistica diventa spesso e troppo facilmente sinonimo di incompetenza e inadeguatezza educativa e in un quadro sociale di “multiculturalismo conservatore” in cui la “eccessiva” visibilità della differenza (fenotipica, linguistica, sociale) è di fatto sanzionata socialmente.

Dall’altro lato, le relazioni intergenerazionali sembrano particolarmente complesse – anche se qui l’ISTAT forse assolutizza un po’ etnocentricamente il disvalore delle limitate interazioni genitori-figli. Esse assurgono a problema in un contesto nazionale di attenzione protettiva all’infanzia e adolescenza, ma c’è da chiedersi se essa sia soggettivamente considerata un problema anche per quei mondi sociali e culturali in cui i rapporti genitori-figli si basano su diversi modelli di espressione dell’affettività. Certo, in un contesto di emigrazione in cui l’esplicitazione del rapporto affettivo genitori-figli è norma sociale, l’evidenza problematica è piuttosto netta: i giovani cinesi più degli altri si sentono trascurati e non capiti dai genitori.

In fin dei conti, sono dunque sovrarappresentati fra quanti vivono un certo isolamento sia all’interno del gruppo di origine familiare, sia nelle reti sociali intergruppo (si veda la sez. 6.4. qui). Si tratta di un caso “da manuale” di gap fra integrazione sociale e integrazione economica. Infatti, dal punto di vista del mercato del lavoro, per certi versi la situazione dei giovani cinesi potrebbe persino essere definita idilliaca. Si consideri per esempio che i NEET (coloro che non sono inseriti in percorsi formativi e non lavorano) sono solo l’11% dei giovani cinesi (tasso quasi dimezzato in cinque anni), mentre per i non comunitari la percentuale è tripla – e doppia per i giovani in Italia nel loro complesso.

Di più: si tratta del gruppo nazionale che evidenzia un inserimento occupazionale e percorsi di autonomia superiore a chiunque altro in Italia. Quasi due terzi dei giovani cinesi di 15-29 anni risultano inseriti nel mercato del lavoro (contro il 39% degli italiani e il 53% degli ucraini – secondo gruppo nazionale in questa statistica – si veda la fig. 3.15. qui). Ancora, ben l’84% dei giovani cinesi di 18-24 con al massimo la licenza media e che non frequentano percorsi di istruzione è occupato (contro il 31% degli italiani e 38% dei non comunitari in analoga condizione – si veda la Tabella II qui), con un tasso di disoccupazione meramente frizionale (2,4%), immensamente inferiore a quello dei pari età a bassa scolarizzazione (47%).

Ma ovviamente, c’è l’altra faccia della medaglia: un così ampio e precoce inserimento lavorativo significa anche un limitato inserimento scolastico (solo il 27% dei giovani cinesi è inserito in percorsi di istruzione, contro il 50% degli italiani). Un aspetto che può anche marcare qualche rischio di downward assimilation, cioè di inclusione socio-economica, ma tutta concentrata nei segmenti più deboli della società, con una limitata possibilità di mobilità sociale ascendente di lungo periodo.

I cinesi nel mercato del lavoro italiano

Le caratteristiche appena segnalate relativamente ai giovani cinesi richiedono ora di essere inquadrate più ampiamente nelle condizioni di inserimento economico dei cinesi in Italia. Esiste ormai una lunga storia di studi e analisi sulla partecipazione socio-economica cinese, per cui – giusto per riferirsi a quelli più recenti – si rimanda ai lavori di Ceccagno; Rasera e Sacchetto; Baldassaret al.; Berti, Pedone e Valzania. Qui delineeremo solo alcune caratteristiche di fondo per il lettore digiuno di questi temi, e alcune sfide presenti e future.

Sicuramente le migrazioni cinesi sono un esempio di integrazione economica – per quanto a tratti subordinata. Il tasso di occupazione (peraltro in crescita) si aggira intorno al 75% (per l’insieme dei non comunitari è del 60%, e ancora inferiore per la popolazione complessiva), che mette assieme un tasso maschile dell’80% e femminile del 70%, a segnare un inserimento lavorativo molto elevato di entrambi i sessi – benché, data la forte presenza di famiglie con figli, con una probabile questione di conciliazione. Infatti, le donne cinesi – alla pari di quelle filippine – sono le non comunitarie in Italia che più frequentemente si trovano sia in coppia, sia inserite nel mercato del lavoro (il 50% delle donne cinesi è in questa condizione – si veda la Fig. 3.11. qui).

Il tasso di disoccupazione si attesta stabilmente intorno al 3-4% (mentre per il totale degli adulti non-UE non è mai stato inferiore al 12% nell’ultimo decennio) e quello di inattività intorno al 20-25% (contro l’oltre 30% per i non-UE). Considerando che si ritiene comunemente che una disoccupazione al 3-4% sia meramente frizionale (cioè legata al tempo necessario ai lavoratori nel passare da un lavoro all’altro), stiamo parlando di una minoranza caratterizzata di fatto da piena occupazione.

I settori di inserimento principali sono commercio e ristorazione (60%) e industria (28%) che – con qualche oscillazione – definiscono un profilo abbastanza stabile e diverso da quella della popolazione non comunitaria complessiva (in cui commercio e ristorazione pesano solo per il 24%, a favore degli altri servizi e delle costruzioni). Per precisare meglio la specializzazione industriale, si consideri che ben due addetti non comunitari su tre assunti nel 2019 (ultimo dato disponibile) nei settori del tessile, abbigliamento e lavorazione di cuoio, pelli e calzature sono cinesi (si veda la Tabella 8 qui).

Notoriamente, un’altra caratteristica tipica delle migrazioni cinesi è l’inserimento imprenditoriale, secondo in Italia solo a quello degli immigrati marocchini. Calcolando il tasso di imprenditorialità (imprese su residenti maggiorenni), quasi un cinese su quattro è titolare di impresa (nel 47% donne, dato anch’esso in crescita e più che doppio rispetto alla media dell’aggregato dei non comunitari): era uno su cinque solo cinque anni fa (quindi la caratterizzazione imprenditoriale è in ulteriore crescita).

Ci sono tuttavia interessanti elementi di trasformazione – fra tutti la terziarizzazione: nel periodo 2015-2019 i nuovi rapporti di lavoro nell’industria passano dal 47 al 40% del totale, mentre quelli nei servizi crescono dal 51 al 56%; coerentemente, cresce anche l’imprenditoria in un segmento specifico, quello degli alloggi e ristorazione (oggi un imprenditore cinese su sette è attivo in quel settore). Dato che le imprese individuali cinesi crescono da 49.000 a 53.000 nell’ultimo quinquennio, e che la quota di imprenditori nell’industria è sempre stabile (pari a un terzo egli imprenditori cinesi), se ne desume che le imprese industriali gestite da cinesi stiano diventando più piccole e che plausibilmente ci sia anche una transizione dal lavoro dipendente al lavoro autonomo. Quest’ultimo può assumere la forma della impresa rifugio o fittizia con il risultato di flessibilizzare (e precarizzare) ulteriormente le filiere di inserimento.

Se si considera che i lavoratori cinesi sono più facilmente inseriti nelle microimprese (si veda qui), si tratta di un processo di polverizzazione imprenditoriale che non facilità redditività e peso negoziale né degli imprenditori né dei lavoratori. E qui possiamo iniziare a evidenziare che non è tutto oro quello che luccica. Ci sono alcuni elementi che suggeriscono un inserimento subordinato e problematico:

  • la retribuzione media dei dipendenti – come registrata dall’INPS – è molto bassa (€ 818/mese nel 2019, a fronte di € 1.191 per il complesso dei lavoratori non comunitari – si veda il Grafico 9 qui). Difficile dire che per i lavoratori cinesi ci sia un ricorso più frequente a forme di lavoro nero o grigio, visto che situazioni di inserimento precario – se non di grave sfruttamento – riguardano altri gruppi nazionali e specializzazione etniche (dagli indiani Sikh e richiedenti protezione africani in agricoltura al lavoro domestico e di cura per lavoratrici dall’Europa Centrale e Orientale, dalle Filippine e dalle Americhe). Certo, l’economia sommersa – o quanto meno l’economia basata sul contante non tracciato – è un elemento importante, che si evince anche da alcuni elementi statistici – come il crollo delle rimesse verso la Cina (legato anche ad alcune inchieste che ne evidenziavano l’uso improprio come canale di pagamento) e il tasso di bancarizzazione (solo il 70% degli adulti cinesi ha un conto bancario, contro l’80% della media dei non comunitari);
  • i nuovi rapporti di lavoro segnano la crisi dell’eccezione cinese, dato che i rapporti a tempo indeterminato sono calati dall’82 al 70% in 5 anni e le cessazioni per licenziamento raddoppiano in 4 anni (dal 17 al 30% del totale delle cessazioni – percentuale invece sempre stabile intorno al 17-18% per il complesso dei non comunitari). Sempre più che per la media dei non comunitari (dal 40 al 25% nell’ultimo lustro), ma comunque un segnale: meno bisogno di rapporti di lavoro validi per il rinnovo dei permessi, data la crescita dei lungosoggiornanti? Primi segni di rottura nel modello di inserimento lavorativo etnicizzato?
  • Una protezione del lavoro molto bassa. Da un lato, il tasso di sindacalizzazione è limitato: solo il 5,9% degli adulti cinesi non titolari di impresa è iscritto ad un sindacato confederale (specie alla UIL), contro il 50% dei non comunitari – coerentemente con una logica di “invisibilità” rispetto alle istituzioni e organizzazioni italiane e ad una gestione intragruppo di una parte importante delle relazioni fra imprenditori e lavoratori cinesi. Dall’altro il tipo di inserimento lavorativo – insieme a barriere linguistiche, sociali e culturali – limitano anche l’accesso dei cinesi alle prestazioni di welfare previdenziale. L’uso della cassa integrazione è residuale (usata dallo 0,2% degli adulti cinesi e dal 2% degli adulti non comunitari); pur in crescita, solo l’1% fruisce di pensioni assistenziali (contro il 3,6%); solo il 3,5% (contro oltre il 12%) fruisce di benefici assistenziali per la famiglia.
  • Un’alta mobilità territoriale – analizzata approfonditamente da Ceccagno – sia di breve sia di lungo raggio, che limita le chance di stabilizzazione sociale (si veda la sez. 1.6 qui e sez. 2.8. qui)
  • Come conseguenza dei fattori di cui sopra, una soddisfazione per le proprie condizioni lavorative piuttosto bassa – e stridente con l’alta partecipazione lavorativa (solo il 39% dei lavoratori cinesi è molto soddisfatto; graduando le 15 nazionalità considerate nell’elaborazione in Figura I qui, i cinesi sono al nono posto per soddisfazione).

Conclusioni

Quasi 15 anni dopo il lavoro di Antonella Ceccagno sulla compressione dei tempi di vita degli immigrati cinesi in Italia, il tema sembra ancora di attualità. Un massiccio inserimento lavorativo – in condizioni tuttavia precarie – non sembra porre facili basi per un inserimento sociale altrettanto positivo, in cui alcuni segni di emersione della presenza cinese (per es. le iscrizioni anagrafiche) si accompagnano a elementi di limitata partecipazione sociale – anche perché la società italiana non sembra porre condizioni particolarmente agevoli per l’inserimento.

Gli sforzi delle seconde generazioni in particolare sono frustrati da barriere discriminatorie da un lato (inclusa la “discriminazione statistica” occupazionale, che non dipende solo dall’agency delle minoranze, ma anche da processi di etnicizzazione e di costruzione dell’alterità socialmente ed economicamente funzionali per alcuni gruppi della maggioranza autoctona) e da limitate opportunità dall’altro, legate a diversi fattori – barriere linguistiche, percorsi occupazionali e tempo sociale, enclavizzazione.

Si tratta di processi che rischiano di riprodursi anche a livello intergenerazionale, con i giovani di origine cinese particolarmente “schiacciati” fra aspettative sociali e interne alle reti di kinship – e in qualche modo fuori posto in entrambi i casi. Al contempo, questo modello difficilmente può durare a lungo, sia per elementi endogeni (la difficoltà di continuare nell’(auto-)sfruttamento, specie in ottica intergenerazionale), sia per motivi esogeni (la trasformazione delle filiere di riferimento), sia per fattori misti (si pensi alle trasformazioni nelle logiche del mercato del lavoro etnicizzato con il venire meno delle premesse economiche delle filiere etnicizzate stesse). Da questo punto di vista, se i giovani di origine cinese sembrano ancora adottare modelli di inserimento occupazionale simili a quelli dei genitori, sembrano farlo in modo più riluttante. Il rischio di una ulteriore segmentazione della partecipazione socio-economica (bassi salari, bassa qualificazione, overworking) è sempre presente. Allo stesso tempo, in prospettiva leggere i mondi cinesi in Italia in modo univoco potrebbe diventare sempre più complicato, per lo stratificarsi di generazioni, classi sociali e percorsi di mobilità (si pensi alle nuove migrazioni di studenti).

Barberis, Cinesi e mercato del lavoro PDF

Immagine: foto di Agnese Morganti, dalla serie Chinatown

Edoardo Barberis, sociologo, è professore associato presso l’Università di Urbino Carlo Bo, dove insegna “Politiche dell’immigrazione” e “Sistemi di welfare comparati”. Si occupa di dimensione territoriale delle politiche di welfare e dei processi migratori. Fra le sue pubblicazioni recenti “Il lavoro sociale con le persone immigrate” (con P. Boccagni) ed “Educazione civica e costituzione” – entrambi editi da Maggioli.