Il potere politico ha da sempre usato la ritualità e gli elementi che la compongono per compilare una sorta di “grammatica del consenso”. La Cina non è stata estranea a questo tipo di utilizzo della ritualità. La ritualità quale esisteva nella Cina imperiale è stata ampiamente documentata e discussa, fino a divenire una sorta di jolly concettuale impiegato per gli obiettivi e le necessità più varie. Questo numero di Sinosfere si distacca dal discorso e dalla retorica sul rituale 礼, per concentrarsi piuttosto sulla celebrazione, che definiamo come tutte le sequenze di atti posti in essere seguendo norme stabilite, sempre uguali a sé stesse.
La differenza tra il 礼/rituale e gli atti che avvengono secondo convenzioni o norme stabilite è una differenza sostanziale. Se il 礼/rituale è inserito entro una costellazione di significati ormai dati, ciò che noi chiamiamo celebrazione si situa al di fuori del contesto delle narrazioni intessute intorno al 礼/rituale. La separazione da questo contesto è essenziale affinché il concetto di celebrazione possa operare ad un livello di astrazione più alto. Affinché esso riesca a cogliere le strutture ricorrenti e regolari che producono consenso, e dettano il modo in cui il consenso vada espresso. Pur essendo estranee alle narrazioni del 礼/rituale, le celebrazioni sono dotate di una loro propria tradizione che trascende tanto i soggetti agenti della storia quanto i fenomeni storici. Le celebrazioni sono ancorate alla storia e al passato, ma retroagiscono su entrambe. Esse interpretano e reinterpretano, scrivono e riscrivono la storia e il passato presentandoli sotto la luce più coerente con finalità encomiastiche, denigratorie o di qualsiasi altro tipo.
Le celebrazioni sono centrali alla sfera politica, ma la loro importanza non è limitata a questo ambito, e non coinvolge solo l’interazione tra le sfere del Partito Comunista Cinese, della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) e dei loro partner internazionali. Nella sfera culturale le celebrazioni sono un’occasione per ottenere riconoscimenti e legittimazione, per accumulare capitale simbolico e sociale. Le celebrazioni sono anche l’ambito privilegiato del marketing, che nel loro ambito trova ampie occasioni per dispiegare le proprie tecniche di persuasione e vendita. Infine, le celebrazioni possono offrire anche l’occasione per generare contro-narrazioni che danno luogo ad una simbolica “rottura” con il passato.
Sullo sfondo di questa concezione multiforme, anziché univoca, delle celebrazioni questo numero di Sinosfere raccoglie interventi che esaminano le più ampie implicazioni storiche, sociologiche e culturali del fenomeno. Per questo motivo la prospettiva del numero evita la cronaca delle celebrazioni della nascita di determinate entità politiche, né intende scadere nell’agiografia.
L’articolo di Lorenzo Andolfatto è una celebrazione delle piazze vuote, delle parole che ormai non possono più puntare ad alcuna realtà extralinguistica. Perché le persone e le cose che una volta esistevano nel mondo reale, ancorando il linguaggio, ormai non sono più. È un universo distopico, l’universo che emerge dalla letteratura di Chan Koonchung, anche noto come Chen Guanzhong, o con il nome anglicizzato di John Chan. Quando la distopia e la ucronia diventano meccanismi formali che definiscono la “struttura stessa della narrazione” esse si fanno celebrazione. Celebrazione che mediante il non-detto, l’allostoria e la distopia rinvia direttamente all’oggetto che si vorrebbe negare, e che in definitiva resta vincolata dalle “regole del gioco” cui non vorrebbe prender parte.
Esistono regole che non possono essere evitate ed esistono giochi cui è d’obbligo partecipare. Entrambe sono creati da un’entità totalizzante – lo stato-nazione – la cui celebrazione si colloca al centro dell’articolo di Mariagrazia Costantino. Tipico degli stati nazione moderni è l’uso dello sport, soprattutto dei Giochi Olimpici, come occasione celebrativa per forgiare il “senso di appartenenza” a un’entità frutto di una costruzione culturale, eppure fin troppo reale. Mariagrazia Costantino osserva come la conoscenza del senso di appartenenza e della coesione sociale si diffonda tra la popolazione come un “contagio discreto e progressivo”. Come un’infezione trasmessa senza frontiere, che riesce a toccare anche i tentativi di trovare una via di fuga nell’allostoria.
Del resto, tale è la logica dello stato-nazione. Questa logica totalizzante non investe solo la letteratura, ma anche il cinema, come sottolinea l’articolo di Giorgio Ceccarelli. Essa prende le forme concrete del “fronte unito”, principio politico attivo anche nella cinematografia, e che strizza l’occhio ai gruppi sociali da cooptare, rappresentando sotto una luce favorevole il ruolo da essi svolto nella storia della Cina. Molto meno benevola è la rappresentazione degli stati-nazione (e delle persone) che esprimono interessi geopolitici diversi da quelli di Pechino, primi tra tutti gli Stati Uniti d’America. Sono interessi rappresentati come irreconciliabili e contrapposti, che conducono necessariamente ad una rotta di collisione e che chiamano i membri dello stato-nazione al sacrificio della vita.
Chi può dirsi a pieno titolo membro dello stato-nazione? Diversi tipi di stato-nazione hanno risposto a questa domanda in base all’ideologia vigente in un determinato periodo storico, alla propria specificità e alle proprie caratteristiche. Nel suo articolo Mario de Grandis esplora come la Rpc ha integrato la minoranza etnica Wa nella grande famiglia della nazione cinese, composta per il 91% dagli appartenenti all’etnia Han. L’inclusione delle persone appartenenti alle 55 etnie minoritarie ha avuto luogo in base a una tradizione rappresentativa basata sulla celebrazione della loro diversità rispetto agli Han. La celebrazione spesso ha però prodotto una contrapposizione tra le persone appartenenti all’etnia Han e persone quali i Wa. Se gli Han sono vestiti all’ultima moda, i Wa sono agghindati in coloratissimi abiti tradizionali. Se gli Han sono tesi verso l’innovazione gli uni, i Wa sono ancora preda dell’arretratezza. Se gli Han sono educatissimi e gentili, i Wa sono da poco stati emancipati da pratiche rituali violente. Le celebrazioni, anche cinematografiche, dei Wa pur costruendo tali dicotomie sottolineano anche “l’unione armonica tra le etnie che porta al conseguimento del bene comune” che si vuole non solo della Cina, ma dell’intero genere umano/人类.
Immagine: Anniversario del PCC, foto di GioGo.
Flora Sapio è attualmente RtdB presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, dove insegna corsi in Storia e Istituzioni della Cina Contemporanea e Politica e Istituzioni della Cina Contemporanea. Autrice o curatrice di numerose monografie e articoli scientifici, dal 2000 è impegnata nello studio e nella ricerca sulla storia delle istituzioni politiche, sociali e di governance ampiamente intesa della Repubblica Popolare Cinese.