Di rado la confusione mentale di questa fase storica si è manifestata più chiaramente che in occasione della rotta americana in Afghanistan. Dai massimi livelli, quali la presidenza degli Stati Uniti, fino a quelli minimi, di un’opinione pubblica spesso disinformata e satura di pregiudizi, di un’intellighèntsia che non di rado ancora si compiace di ricorrere alla stanca formula dello scontro di civiltà. A un primo sguardo ai media eurostatunitensi, sembra di doversi difendere da due idola: l’essenzialismo sull’Afghanistan, che sarebbe popolato praticamente solo da tagliagole in turbante e donne bistrattate; la vittoria sull’imperialismo, suggerita dalla fuga cinica e ignominiosa delle truppe statunitensi.

Le posizioni ufficiali cinesi in materia, non sorprendentemente ispirate al progetto di inclusione dell’Afghanistan nei circuiti cinesi di appropriazione e valorizzazione (dei giacimenti minerari, delle vie di comunicazione, dei mercati ecc.) qui non vengono riportate; si riferisce piuttosto delle analisi da aree che si appellano a una critica di sinistra (dopo la fine indecorosa della “nuova sinistra cinese” finita a fare da megafono alle magnifiche sorti e progressive del Partito), per fare sperabilmente un po’ di luce sulla mentalità, gli atteggiamenti cognitivi e emotivi, le idées reçues che possono emergere nel pubblico cinese di fronte a temi globali e indigeni quali l’imperialismo, la genesi e il radicamento dello Stato, l’etnia, il genere, la religione etc. Ad agosto 2021 c’è stata una esplosione di post su weixin e weibo.

I commenti cinesi dominanti non sembrano indulgere quanto in Europa e negli Stati Uniti sull’essenzialismo afghano e sulla questione femminile; sono invece pronti a inorgoglirsi per la “sconfitta dell’imperialismo nella tomba afghana” e a vantarsi della loro ambasciata rimasta impavidamente aperta a Kabul nel fuggi fuggi generale e accostando talora, ma anche distinguendo, la lotta talebana e le rivoluzioni terzomondiste, inclusa quella cinese. Un post che ha avuto ampia circolazione, per esempio, affermava che la vittoria talebana è assimilabile alla lotta di popolo maoista, cioè una lotta antimperialista e di indipendenza nazionale. A questo post, le stesse aree della “sinistra” nazionalista e sovranista, cioè conservatrice, hanno risposto dicendo che il paragone storico non regge. Più che per proteggere la storia, le aree sovraniste e nazionaliste sembrano preoccupate di evitare di dover cadere nel ridicolo di fronte alla natura ideologica dei Talebani e alla loro debolezza politica. Ché invece quanto a costruire e ricostruire la storia a proprio piacimento, proprio la sinistra nazionalista e sovranista sembra essere il campione. Ma un’ampia analisi, che pubblichiamo qui, richiamando le dinamiche economiche e sociali scatenate dal ventennio d’occupazione, nega recisamente ai Talebani la natura di forza popolare, e vi vede piuttosto una delle tante fazioni della classe dirigente o aspirante tale impegnate a ritagliarsi una fetta di torta.

Altra forza potente che si manifesta nelle reazioni a quanto è accaduto e sta ancora accadendo è l’oblio della memoria storica, dai moventi e apporti dalla monarchia modernizzatrice di Daoud alla repubblica democratica di Najibullah, fasi in cui il paese si era in parte liberato dalle ingerenze straniere, dal latifondo, dall’oscurantismo dei preti e si disponeva su linee parallele, conflittuali ma laiche e conviventi, in campo politico, sociale, economico, culturale. Anche nei commenti cinesi la memoria storica brilla per la sua assenza, forse per ritrosia a trattare l’esperienza filosovietica.

In generale, i commenti cinesi, meditati o episodici, mostrano in filigrana quanto sia radicata l’egemonia culturale della Cina riformata, la convinzione, inculcata dal dopo-Mao, che siano la crescita economica e la stabilità politica l’unica via di scampo per i popoli del mondo, non la lotta per l’indipendenza, non il conflitto di classe attraversato dalle lotte per l’emancipazione femminile e innervato dalla potenza della differenza, ma la compromissione affaristica con qualunque interlocutore con cui valga la pena di avviare speculazioni, soprattutto se o a condizione di poter contare su uno Stato nazionale al quale si chiede soprattutto di essere potente.

Seguono gli articoli:

Wu Shuang, “Il presidente dell’Afghanistan. Il fallimento della ripresa di uno Stato mancato”

“Chi arriva al salvataggio dell’Afghanistan? Alcune domande per l’oggi e per il futuro”

Immagine: dalla serie Quattro destrieri afghani, di Giuseppe Castiglione, custodito presso il National Palace Museum di Taipei.