Da quando la Repubblica Popolare Cinese (RPC) ha dichiarato la “Guerra popolare al Terrore” (反恐人民战争), nel 2014, sulla scia di una serie di incidenti violenti perpetrati da o associati agli uiguri, le autorità cinesi hanno costruito un esteso regime di sorveglianza, di internamento e di lavoro forzato per controllare le popolazioni non han nello Xinjiang.1)Il saggio è contenuto nel volume Xinjiang Year Zero con il titolo originale Nation-Building as Epistemic Violence, pp.17-27
In modo pervasivo, il Partito-Stato cinese ha criminalizzato la vita quotidiana dei musulmani nello Xinjiang (Byler 2019). Profilando interi popoli non-han come potenziali “terroristi”, la campagna è stata un atto di violenza dello Stato a maggioranza han. Mentre questo è stato spesso interpretato in modo essenzialista, come indicativo della natura autoritaria del Partito-Stato, studiosi con un approccio transnazionale (molti dei quali hanno contribuito a questo volume) hanno dimostrato che questa prospettiva oscura la violenza dell’islamofobia e del capitalismo razziale globale, due fenomeni che non sono specifici della Cina (Brophy 2019; Byler 2021; Liu 2020). Non possiamo comprendere la particolare repressione dei musulmani nello Xinjiang senza indagare la logica globalizzata dell’era moderna: il capitalismo e il cosiddetto progresso spesso significano polizia, sfruttamento e disumanizzazione per coloro che li subiscono.
Tuttavia, mentre è cruciale inserire l’attuale violenza statale verso i musulmani turchi all’intersezione dello sviluppo neoliberale postsocialista nelle frontiere interne dell’Asia a partire dagli anni ’90 e l’aumento dell’islamofobia dovuto alla “Guerra al Terrore” dell’Occidente, suggerisco di considerare la tragedia anche come parte di una storia imperiale globale secolare. L’infrastruttura epistemica per questa violenza politica si è formata attraverso l’imperialismo moderno ed è stata riprodotta dallo stato-nazione, anche quando quest’ultimo è nato da una storia di lotta anti-imperialista, come è il caso della RPC. L’espropriazione dei musulmani turchi da parte dello stato cinese oggi è un effetto della costruzione secolare dello stato-nazione. Lo stato-nazione è un progetto incessante e violento che ha iniziato a essere globalizzato nel 1492 con due sviluppi simultanei: in Europa, la monarchia castigliana ha forzato l’esilio e la conversione di ebrei e musulmani per costruire uno stato-nazione puro per gli spagnoli cristiani; oltreoceano, lo stesso stato spagnolo ha conquistato le Americhe attraverso il genocidio e la conversione (Mamdani 2020). In altre parole, la pulizia etnica e la conquista sono il cuore del mito del progresso nazionale. Mentre la violenza nel Xinjiang è particolare sia per il contesto postsocialista che per il ruolo della Cina in un regime di sicurezza globale post 11 settembre che prende di mira i corpi razzializzati, deve anche essere compresa nelle relazioni di continuità con le tecnologie dell’imperialismo che hanno trasposto forme di governo statali non nazionaliste come la Cina dell’ultima dinastia Qing, in stati nazionali.
Questo saggio segnala il cambiamento di paradigma nella razionalità politica dal tardo impero Qing alla Cina moderna rispetto alla “nuova frontiera” (新疆). Nei violenti incontri dei Qing con le potenze imperiali occidentali e giapponesi, e mentre gli imperatori mancesi dei Qing lottavano per mantenere l’autorità, un gruppo emergente di élite han nell’impero multietnico cominciò a riconcettualizzare l’idea della comunità politica. L’integrità territoriale e l’omogeneità culturale, se non razziale/etnica, divennero per la prima volta le principali griglie concettuali attraverso le quali i primi nazionalisti hanno immaginato una comunità politica della “Cina”, lo stato-nazione (Duara 1995; Millward 1998; Mosca 2013). Questo cambiamento epistemico è paradossale: ha permesso ai nazionalisti cinesi di articolare l’autodeterminazione anti-imperialista, ma solo in termini imperialmente coscritti. È stato solo su questo terreno epistemico dello Stato-nazione che i nazionalisti cinesi sono arrivati a percepire i musulmani turchi nello Xinjiang come un problema. Visto che la pedagogia nazionalista si è irrigidita a partire dagli anni ’90, diventa sempre più difficile per i musulmani turchi – i loro mondi di vita ereditati e le loro azioni politiche – essere presi sul serio nei loro stessi termini. Il dissenso è strettamente interpretato come una minaccia all’unità nazionale e alla sovranità territoriale, e viene così usato per giustificare sistemi di sorveglianza e di espropriazione automatici e diffusi. Eppure questo posizionamento violento non è inevitabile. Concentrandomi sulla violenza epistemica (e materiale) dello stato-nazione, la mia intenzione non è quella di reinscrivere la chiusura, ma di esaminare i paradossi, le contingenze e le tragedie della costruzione della nazione. Questo è anche un invito a disimparare la temporalità progressiva su cui si sono fondati i regimi di violenza coloniale e nazionalista, in modo da poter cercare altre vie verso l’azione collettiva.
Territorio e popolazione come corpo sovrano
Dopo l’annessione Qing dei territori che vennero ribattezzati Xinjiang nel 1759, l’impero non pensò a varare un progetto d’incivilimento che portasse l’ordine e le virtù “cinesi” fra i popoli musulmani del Bacino del Tarim; al centro dell’immaginario politico premoderno stava non già la “Cina”, ma la casa imperiale Qing, sotto la quale vivevano han, manciù, mongoli, tibetani e musulmani (i cinque grandi complessi culturali di pari grado “sotto il Cielo” e nella “Grande Unione”) (Millward 1998: 197–201). Funzionari mancesi e mongoli governarono le comunità locali fino al 1864 attraverso alleanza con le élites musulmane locali, che fungevano da intermediarie e proteggevano i locali contro l’influsso destabilizzante dei mercanti e degli insediamenti han (Millward 1998). Tuttavia, allorché i Qing si trovarono accerchiati dal dilagante imperialismo britannico e russo in Asia a partire dalla metà del XVIII secolo, e più tardi dalla minaccia francese a Sud Ovest e da quella giapponese lungo le coste, questo vecchio modo di interpretare le frontiere diventò inservibile. Non fu più possibile considerare le crisi frontaliere fenomeni specifici di un dato luogo separato dal resto, e troppo complessi per poter essere discussi con lo stesso lessico, soprattutto quando l’Impero Britannico agì contemporaneamente su più frontiere (Mosca 2013). Diffusi sconvolgimenti geopolitici indussero gli intellettuali e i funzionari han che poi monopolizzarono le alte cariche dell’amministrazione Qing a ripensare l’impero, per la prima volta, come a un’entità territoriale integrata bisognosa di “ampie strategie” per stare alla pari con quelli che cominciavano ad essere percepiti come Stati rivali (Mosca 2013: 11). Questo passaggio a un’immagine dei Qing come un’entità indipendente fra altre entità geopolitiche ostili si nota in un importante dibattito del 1874 fra due uomini di Stato han, Zuo Zongtang (1823-1901) e Li Hongzhang (1812-85), che portò alla riconquista e e poi all’integrazione del Xinjiang nello Stato Qing in corso di modernizzazione. Entrambe le parti ricorsero alla metafora del corpo malato per dare l’idea della minaccia imperiale straniera, pur dibattendo su quale minaccia (dell’entroterra o costiera) fosse la malattia cardiaca capace di mettere direttamente in pericolo la sopravvivenza dello Stato (Millward 2007: 126–27). Le metafore corporee erano familiari da sempre al pensiero politico confuciano, inserite in una modalità premoderna di organizzazione sociale, quella che Benedict Anderson (2006) ha chiamato “comunità religiosa” e “regime dinastico”. In questa forma premoderna di sovranità, la società è organizzata verticalmente attorno a “un centro superiore che deriva da dio, e non dal popolo, la sua legittimità” (Anderson 2006: 19); tantomeno la legittimazione politica deriva dal territorio. Si può osservare come l’importanza del territorio emerga dal cambiamento della riflessione sul corpo politico. Nel cosmopolitismo confuciano, il corpo politico è considerato infettato dal governo immorale e corrotto. Compito dei sapienti confuciani sarà allora quello di guarirlo. Tuttavia, in conseguenza dell’incontro con gli imperialismi occidentale e nipponico, la metafora del corpo viene territorializzata. Secondo la razionalità nazionalista che andava emergendo allora, perdere le pretese su un territorio frontaliero equivaleva allo smembramento o addirittura alla morte politica. La sovrapposizione e il mutamento della sovranità sulle frontiere divenne da allora un problema. Il territorio andava difeso in permanenza. Come disse Xi Jinping al segretario alla difesa statunitense Jin Mattis nel 2018: “Noi non possiamo rinunciare neanche a una spanna del territorio che ci hanno lasciato i nostri avi. Ma nemmeno vogliamo quello degli altri popoli” (Stewart and Blanchard 2018).
Mentre la nuova razionalità politica metteva gli intellettuali e i funzionari Qing in condizione di capire e di rispondere alle mosse dell’imperialismo straniero, assoggettava al tempo stesso alle considerazioni strategiche dell’impero gli spazi complessi e quelli dove si sovrapponevano più sovranità. Considerare l’impero Qing (d’ora in avanti: Cina) un territorio a sé stante rigorosamente distinto dagli Stati rivali ebbe effetti devastanti sui popoli e i luoghi di frontiera, che, a causa dei loro complessi, dunque impuri, orientamenti e lealtà furono permanentemente tenuti in sospetto e messi sotto sorveglianza.
Nel mettere in evidenza questa sconnessione epistemica, non si vuole certo fare l’apologia dei primi Qing e del loro portato. Si vuole piuttosto mostrare come, secoli prima del paradigma “Stato-nazione globalizzato” dell’imperialismo moderno, non ci fu alcun bisogno di condividere cultura, lingua, valori per coabitare questa o quella porzione del mondo; le terre in cui si viveva non erano state reificate per sempre come un corpo sovrano geograficamente localizzato in permanenza come condizione per una vita sociopolitica significativa.
Gli intellettuali giustificarono l’annessione del Xinjiang con un argomento economico, l’alleviamente della sovrappopolazione della Cina propria, già nel 1826 (Millward 1998: 243), una proposta mirante a dare nuova legittimità entro il paradigma epistemico dello Stato moderno. I Qing subirono profondi sconvolgimenti durante tutta l’era del Nuovo Imperialismo (1870–1914); l’infrastruttura epistemica emergente dello Stato moderno comprese non solo salti epistemici, ma anche riforme materiali e istituzionali. Dopo la riconquista del 1878–81, Zuo Zongtang propose di istituire una “regione del Xinjiang”. La Corte autorizzò Zuo a rimpiazzare con i suoi ufficiali e soldati han i sistemi multipli indiretti delle autorità locali con un’amministrazione di stile cinese (jun xian, prefetture e distretti), onde integrare il Xinjiang nella Cina propriamente detta (Millward 2007: 132). Il presupposto di questa serie di politiche integrazioniste attraverso frontiere multiple – come l’immigrazione han e la formazione di élites non han nelle scuole confuciane per magistrati era che, per rendere governabili le frontiere, essere dovevano diventare il più possibile demograficamente e culturalmente simili alla Cina propria a dominazione han (Millward 2007:138). La “musulmanità” della popolazione turca non era tuttavia ancora vista come opposta alla “sinità”. Il piano di sinizzazione mirava a rendere le popolazioni turcofone musulmane (prima le élites poi il popolo minuto) moralmente confuciane, ovvero leali al trono (Schluessel 2020). Questa pedagogia confuciana ebbe vita breve e non ebbe successo: durò fino al rovesciamento dell’impero nel 1911. Ma la missione sinizzatrice e modernizzatrice di Zuo Zongtang è proseguita nel XX e XXI secolo e ha acquistato una forza micidiale quando s’è sposata al mutamento degli orizzonti temporali. Dato che la concezione lineare e graduale del tempo dilagò nell’episteme delle tarde élites Qing, veicolata dalle nuove idee sociali e scientifiche, con il concetto di minsi (solitamente tradotto “nazione”, “nazionalità”, “etnia”) giunto dal Giappone, i musulmani dell’Asia Centrale e la loro concezione del tempo furono accantonate e rese “estranee”, mentre il territorio che abitavano veniva integrato nel corpo sovrano immaginato dai Cinesi.
Le scienze sociali e l’aporia del minzu: separati e uguali
L’ambiguità del concetto di minzu ha pesato a lungo sul nazionalismo cinese. Il termine proviene dal giapponese minzoku (a sua volta un neologismo per rendere il termine tedesco Volk, “popolo” o “nazione”, risalente ai primi del sec. XX) e segue l’allarmante disfatta dei Qing nella Prima Guerra Sino-Giapponese (1894–95) (Leibold 2006: 213). In tarda epoca Qing, i rivoluzionari han cominciarono ad adottare il termine, che forniva un nuovo terreno epistemico all’attivismo antidinastico. La vecchia distinzione culturalista fra han e manciù non bastava a giustificare la loro opposizione a una Real Casa che aveva perfettamente assimilato le istituzioni e i rituali confuciani (Mullaney 2010: 23). I rivoluzionari lanciarono i concetti di hanzu (razza han) e manzu (razza mancese), che postulavano categorie razziali non assimilabili fra loro e collocavano l’opposizione nazionalistica nel quadro della lotta di una razza maggioritaria contro una razza conquistatrice minoritaria (Duara 1995: 37). Dopo la caduta dei Qing nel 1911, i nazionalisti del KMT (Kuo-min-tang o Guomindang, Partito Nazionalista), trovarono impraticabile il discorso di una Cina han razzialmente pura, dato che l’equazione razza-nazione stava promuovendo un numero crescente di movimenti di autodeterminazione all’interno delle vecchie frontiere interne asiatiche, che essi non intendevano minimamente abolire. La soluzione del KMT sotto la gestione di Sun Yat-sen (1866–1925) fu quella di estendere lo status di minzu ai Manciù, i Mongoli, i musulmani cinesi centroasiatici (detti Hui), i Tibetani, accanto agli han, e unificarli tutti in un popolo solo, in modo che le frontiere delle regioni che abitavano fossero incorporate ipso facto nel nuovo Stato-nazione. La teoria del minzu di Sun Yat-sen consente di vedere il paradosso costitutivo della minzu e della sua tendenza a diventare maggioritarismo. Osservò Foucault che l’arte di governo nell’Europa del XVIII secolo dipese dall’ “emergere del problema politico della popolazione”, attraverso il quale le statistiche e le altre modalità delle scienze sociali divennero cruciali per la legittimazione e l’esercizio del potere politico (Chakrabarty 2002: 83–91). Il concetto di buon governo – equità e giustizia nella rappresentanza politica – si basò da allora sui concetti matematici di numero e proporzione. Nell’era della calcolabilità, le comunità più numerose acquisiscono un maggior peso politico. Nella famosa conferenza di Sun del 1924 sul nazionalismo, egli attribuì cinque tratti comuni alla comunità minzu: sangue, religione, lingua, economia e usi e costumi. Che ne era dei Tibetani, dei Mongoli, dei Manciù, dei Turchi e delle altre popolazioni che non condividevano questi tratti con gli han? Sun liquidò il problema per essere numericamente insignificante: “I ‘non nativi’ (wai lai ‘venuti da fuori’) non arrivano neanche a dieci milioni; possiamo affermare che i 400 milioni di Cinesi sono interamente hanzu (di razza han), condividendo il sangue, la lingua, la religione e gli usi e costumi, una sola, pura minzu” (Sun 2006). Misurata statisticamente, la supposta eguaglianza fra le minzu promessa dalla neonata Repubblica di Cina non riuscì a prendere corpo. Piuttosto, dato che ognuno era uguale all’altro in termini di minzu – cioé, lo stesso statisticamente – la maggioranza numerica divenne politicamente privilegiata.
Quando l’invasione e annessione giapponese della Manciuria condusse alla guerra aperta contro la Repubblica di Cina nel 1937, il KMT e il Partito Comunista Cinese (PCC) raggiunsero un’incerta convergenza nella quale entrò in gioco la teoria del minzu con tutte le sue contraddizioni. Prima del 1937, il PCC, spalleggiato dal Komintern, sostenne il diritto all’autodeterminazione dei popoli non-han, prendendo le distanze dallo “sciovismo grande-han” del KMT. In questa fase il PCC compì una svolta epocale, da marginale movimento d’opposizione critico dell’assimilazionismo delle politiche del KMT sul minzu a rivale nazionalista con fini simili. Al tempo del Secondo Fronte Unito (1937-45), i due Partiti convennero sulla nozione di Cina come di una repubblica sovrana, ovvero la sovranità di una repubblica comprendente tutti i territori che erano stati dei Qing (fuorché la Mongolia, già indipendente), e sulla loro difesa contro il Giappone. Si convenne anche che per tutta la durata della guerra il concetto di nazione cinese (Zhonghua minzu), nonostante (nella prospettiva internazionalista comunista) e grazie (nella prospettiva nazionalista del KMT e del PCC) si sarebbe basato sulla concessione senza ambiguità di una posizione di privilegio agli han. Non c’era altra strada per mobilitare la maggioranza numerica e acquisirla al movimento di resistenza (Liu 2018: 122). Ma qui c’era un problema: fino a che punto tendere l’angusta rappresentazione han-centrica sull’immensa diversità etnoculturale e politica? Nel frattempo, gli intellettuali e gli agenti giapponesi stavano instancabilmente cooptando le élites non-han delle regioni frontaliere per istituire regimi nazionalisti anti-han con il patrocinio imperiale giapponese (Leibold 2006). Le loro persuasive strategie erano basate sulla teoria della distinzione etnico-razziale fra i Manciù, i Mongoli, i musulmani centrasiatici ecc. da una parte e gli handall’altra, ed erano alimentate dalle discipline scientifiche moderne come la storia, l’antropologia e l’archeologia, che convalidavano la tesi di origini nazionali diverse da quelle degli han(Leibold 2006). Questa strategia della divisione-definizione e conquista sollecitò risposte chiaramente diverse ma nazionalisticamente uguali nel KMT e nel PCC, che entrambi tentarono di legittimare ricorrendo alle scienze sociali. Il KMT mescolò la teoria scientifica della razza con il mito rivisitato dell’ascendenza comune, secondo cui i Mongoli, i Manciù, i Tibetani e i musulmani, erano, al pari degli han, discendenti del mitico Imperatore Giallo (Huangdi), universalmente accreditato come il progenitore di questi ultimi. Ampliando la narrazione dell’antenato comune, il regime del KMT contrabbandò le politiche assimilazioniste come un progetto di riunificazione (Mullaney 2010: 28). I comunisti obiettarono che la teoria della razza unica era antiscientifica e sciovinista-han (Chen 1943, cit. in CCP UFWD 1991). Tuttavia, avendo riconosciuto la sovranità del regime nazionalista su tutto il territorio che era stato Qing, il PCC si trovò alle corde. Avrebbe potuto invocare una singolarità plurale dello Stato-nazione solo ammettendo che le comunità non-han fossero “minzu di minoranza” (shaoshu minzu) e non formazioni politiche plurime, come nel federalismo. Il punto divenne chiaro con lo spostamento discorsivo sulla questione delle minoranze.
Nella Costituzione della Repubblica Sovietica Cinese del 1931, il PCC proclamò di “riconoscere categoricamente e incondizionatamente i diritti delle minzu di minoranza all’autodeterminazione’, incluso il diritto all’indipendenza (cit. in Mullaney 2010: 26). Nel 1938, Mao Tse-tung annunciò nel rapporto intitolato “Una nuova fase” che il PCC consentiva ai Mongoli, musulmani, Tibetani, Miao, Yao, Yi, Fan ecc. di avere gli stessi diritti degli han e, in base ai principi del Fronte Unito Antigiapponese, riconosceva loro il diritto di amministrarsi e di allearsi con gli han nell’edificazione di uno Stato unificato (Mao 1938).
Nel 1938 il PCC non era già più un movimento rivoluzionario marginale che consentiva il diritto all’autodeterminazione delle minoranze per indebolire la legittimità della Repubblica.
Sotto il peso degli attacchi nazionalisti, più la riluttanza sovietica a fornire aiuto, la frattura con le comunità non-han durante la Lunga Marcia (1934–36) e l’imperialismo giapponese, il PCC cambiò strategia e si propose come il portavoce del nazionalismo ufficiale di Stato, che concedeva a certe condizioni riconoscimento e autonomia alle minzu di minoranza ma solo a patto che svolgessero il loro ruolo di minoranze nazionali, ovvero a sovranità condizionata, meno che sovrana.
Inoltre, la lotta antimperialista del PCC era inserita nel discorso imperialista stesso nei suoi stessi sforzi di riconoscere le ‘minzu’ di minoranza come categorie distinte e di costruire una nazione inclusiva e progressista. Oltre alla statistica, il PCC condivideva un’altra serie di premesse delle scienze sociali con le potenze imperiali che cercava di sovvertire. Il terreno epistemico che consentiva le moderne pratiche definitorie (come la classificazione per minzu) è stato compiutamente esposto dall’antropologo Johannes Fabian’s (2014: 27): “la classificazione delle entità o tratti che vanno innanzitutto enucleati e distinti prima delle somiglianze è funzionale alla creazione di tassonomie e sequenze nello sviluppo”.
Questa separazione e distanza fra società “primitive” e “civilizzate”, ipotizzate come essenziali, sono state funzionali al saccheggio e alla conversione coloniale. Ancora più tragicamente, i regimi comunisti hanno riprodotto questa violenza sotto la bandiera dell’antimperialismo. Nel 1949, Stalin sollecitò la dirigenza del PCC bolscevico a occupare immediatamente il Xinjiang per prevenire l’istigazione britannica dei musulmani contro i comunisti cinesi, “perché la Cina ha un enorme bisogno del petrolio e del cotone del Xinjiang” (‘Memorandum …’ 1949). Pur ripudiando il rozzo razzismo occidentale, i comunisti sovietici e cinesi mantennero la stessa distinzione fra “primitivi e civilizzati”. Allo stesso modo dei colonialisti europei, i costruttori degli Stati comunisti considerarono gli indigeni incapaci di autogoverno, le loro terre pronte per essere occupate, le loro risorse disposte a essere estratte.
Nel momento in cui questa operazione di tracciamento dei confini è chiamata a fare il lavoro della dominazione imperiale e, ironicamente, del nazionalismo antimperialistico, l’aporia della missione incivilitrice del colonialismo e l’incorporazione nella nazione formano un continuum. I musulmani, i Mongoli, gli Uiguri e gli han devono in primis essere reificati e distinti, devono diventare entità autosufficienti (con i non-han descritti come più arretrati rispetto agli han) prima di poter istituire contatti e scambi da usare per stabilire sequenze di sviluppo nella fusione e unificazione delle etnie. Da qui la necessità per la dirigenza del PCC di far entrare in gioco lo schema del “progresso storicamente inevitabile” (CCP UFWD 1991). L’unità, dunque, per quanto appassionatamente possa essere rappresentata, risulta sempre sospetta. Come si può separare e distinguere entità se vanno fuse in un’unità? Ci sarà indubbiamente, fra i Tibetani, i Mongoli o gli Uiguri, chi resta leale alla sua parrocchia e dev’essere costantemente monitorato e purificato, onde diventare trascendentalmente un cittadino cinese. Per lo Stato-nazione si rivela impossibile definire permanenti le divisioni e procedere alla loro abolizione. Accettando la separazione come premessa della diversità e il progresso come temporalità universale, i comunisti non si appropriarono semplicemente dei mezzi usati dall’impero a fini emancipatori. La loro formazione politica era troppo profondamente alterata dall’infrastruttura epistemica imperiale. Tragicamente, dacché il PCC giunse al potere nel 1949, le loro logiche politiche limitate dalla prospettiva imperialista, riprodussero la differenza gerarchica fra il sé e l’altro, fra maggioranza e minoranza, un’infrastruttura epistemica sottostante che ha reso concepibili le detenzioni di massa, la sorveglianza, il controllo dei musulmani turchi del Xinjiang fino a oggi.
Disimparare il progresso
In una conferenza stampa del 26 marzo 2021, Hua Chunying, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, denunciò le accuse statunitensi di genocidio nel Xinjiang invocando le guerre imperialiste statunitensi condotte in nome dei diritti umani: “La vera intenzione (degli Stati Uniti) è quella di pregiudicare la sicurezza e la stabilità della Cina e impedirle di diventare più forte. Noi informiamo doverosamente gli Stati Uniti che la Cina di oggi non è né l’Iraq né la Siria, ancor meno la tarda dinastia Qing vilipesa dalle Otto Potenze Alleate …. Noi siamo risoluti, determinati e capaci di difendere fermamente la sovranità, la sicurezza, la dignità e l’onore della nazione” (Hua 2021).
Queste dichiarazioni addolorano profondamente chi scrive perché i suoi antenati furono degli scampati a delle guerre imperiali e nazionaliste. Questo orgoglioso proclama di controegemonia è autorizzato dal progresso. Ma il progresso è inestricabilmente legato alla separazione, alla concorrenza, al dominio. Bisogna che la Cina non sia l’Iraq, la Siria, l’impero Qing perché possa difendere “la sovranità, la sicurezza, la dignità e l’onore”? Le moltitudini delle comunità in e dell’Iraq, la Siria e l’impero Qing non meritano la sicurezza e la santità? La rimozione e la distruzione dei loro mondi – che sono anche i nostri – non sollecitano indignazione e compianto? Quanti di noi sono su tutte le furie solo perché la Cina è diventata la seconda più forte nazione al mondo e ancora non può vincere la partita, e non perché la partita degli Stati-nazione è truccata e affonda le sue radici in una lunghissima storia imperiale?
Come ha supposto Talal Asad (2003), la modernità laica ha a che fare con un cambio radicale nella distribuzione del dolore e con la razionalità che lo giustifica. La crudeltà moderna delle guerre, della colonizzazione, dell’incarceramento, dei lavori forzati è normalizzata da “un calcolo laico dell’utilità, un sogno laico di felicità” (Asad 2006: 508). Proprio come l’invasione statunitense dell’Afganistan fu giustificata in quanto missione per “salvare” le donne afgane dal patriarcato islamico (presunto antimoderno), così la Cina ha razionalizzato le sue efferatezze sui musulmani turchi oggi con “il salvataggio delle masse musulmane (donne e bambini in particolare), visti come pedine del separatismo, dell’estremismo e del terrorismo”, solo perché sono stati definiti non-han e quindi cinesi insicuri. Dall’ascesa dello Stato moderno, il dolore inflitto dal secolarismo e dalla costruzione dell’identità nazionale è stato giustificato dalla necessità di eliminare quanto è considerato un eccesso, un ritardo causato dalla religione e la tradizione. Eppure, come hanno dimostrato l’occupazione e poi il ritiro dall’Afganistan degli Stati Uniti e i campi di concentramento nel Xinjiang, la violenza della civiltà è la stessa di quella della cosiddetta arretratezza. In ultima analisi, i regimi liberali e comunisti non sono così distanti dal computo laico delle pene e del bene.
Nel collocare il terrorismo operante nel Xinjiang nella lunga storia di violenza epistemica imperiale sottesa al nazionalismo e alla modernità cinesi, questo articolo tenta di togliere l’etichetta di eccezionalità alla Cina e di accostarsi al compito, difficile ma non impossibile, di decolonizzare la politica. Il comunismo cinese ha le sue specificità e la sua riedizione delle tecnologie imperiali di violenza devono essere viste come parte delle paradossali lotte condivise in svariati contesti postcoloniali. Lo stallo del PCC non differisce dal modo in cui i regimi coloniali europei, prima, negarono ai colonizzati il riconoscimento del diritto allo status di nazione e, poi, concessero loro il riconoscimento, ma senza alterare i regimi coloniali di dominio (Massad 2018). Come David Scott (1999: 45) rilevò in un altro contesto, p. es. nelle riforme coloniali del XVII secolo a Ceylon (odierno Sry Lanka), che consentirono a certi colonizzati la partecipazione nelle istituzioni rappresentative, il punto chiave qui non è se i nativi fossero inclusi o esclusi, ma piuttosto il fatto che i colonizzati furono obbligati a giocare al nuovo gioco politico se volevano contare qualcosa.
Stabilire se lo Stato cinese sia credibile o no, non è il fine di questo scritto, che non è tanto la critica della RPC quanto piuttosto la riflessione su come la stessa politica – ovvero la formazione dello Stato nazione – sia un effetto della colonizzazione. Forse, gettando un po’ di luce sul peculiare apparato epistemico dei nazionalismi condizionati imperialisticamente – il territorio dev’essere difeso, la popolazione resa omogenea, le comunità separate e reificate – potremo guardare all’antimperialismo cinese come al recupero dell’episteme fondante e la violenza materiale dello Stato nazione moderno. È il momento di cercare un’altra via.
Traduzione a cura di GioGo
Immagine: Tian Xia Zong Yu Tu, Library of Congress, Geography and Map Division.
Ye Hui (pseudonimo) studia la decolonizzazione e attraverso la poesia e l’organizzazione della comunità si impegna a praticare modalità non nazionaliste di storia, politica e cura.
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Saggio pubblicato in collaborazione con Dinamopress.
↑1 | Il saggio è contenuto nel volume Xinjiang Year Zero con il titolo originale Nation-Building as Epistemic Violence, pp.17-27 |
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