All’inizio del 2020 con l’esplosione del COVID-19 in Cina, anche la violenza sul corpo delle donne si è diffusa come una pandemia, una violenza che si manifesta nelle sue forme più estreme come l’omicidio. Quando il governo è riuscito a mettere sotto controllo la pandemia e si è presentato come esempio sulla scena internazionale, scopriamo che la condizione femminile non solo non è migliorata ma ha conosciuto un peggioramento su tutti i fronti. La violenza di genere ha le sue radici storiche in Cina, durante la pandemia si è manifestata con maggiore evidenza legandosi per giunta a nuove limitazioni al diritto di parola e alle nuove politiche sulla procreazione. Da un lato abbiamo una sorveglianza tecnologica sempre più avanzata che apre le porte a uno stato di polizia, e dall’altra una percezione di insicurezza da parte delle donne sempre più marcata.

Domesticizzazione femminile: la condizione della donna e la violenza sistemica

Con l’inizio delle politiche di aperture e riforme nel 1978, il discorso dominante sul genere in Cina cambia. Se durante il maoismo le donne erano incoraggiate a svolgere lavori tradizionalmente affidati agli uomini, dagli anni ottanta ciò viene visto come “mascolinizzazione delle donne”. Gli studiosi e l’élite urbana all’inizio degli anni novanta hanno poi sostenuto il “ritorno a casa” per le donne insieme all’idea che le capacità femminili dovessero essere applicate al “lavoro femminile”, come nota la studiosa Wang Zheng.

Con l’intensificazione delle politiche di mercato negli anni novanta e l’integrazione della Cina nell’economia globale, questo discorso basato su una concezione essenzializzante della differenza di genere, ha avuto la funzione di giustificare la divisione del lavoro basata sul genere che ha portato un grande numero di donne provenienti dalla campagna nelle fabbriche di “sangue e sudore” e nei settori dei servizi di fascia bassa. Contemporaneamente è venuto formandosi un nuovo gruppo di donne. L’avvio della politica del figlio unico a fine anni settanta (terminata nel 2015) ha modificato il rapporto fra i sessi a favore dei maschi, ma grazie a ciò, come afferma la sociologa Li Chunlin, le donne hanno potuto beneficiare, entro certi limiti e in relazione ad altri cambiamenti sociali, dell’istruzione superiore. L’espansione dell’istruzione superiore dalla fine degli anni novanta ha favorito quel gruppo di donne che a breve sarebbe diventato parte dei “colletti bianchi”.

Il numero delle donne che lavorano è diminuito vistosamente negli ultimi anni, nonostante le donne che possiedono un titolo di studio superiore siano più degli uomini. Diversi studi hanno dimostrato come la differenza di retribuzione tra uomini e donne sia aumentata e così la discriminazione di genere nel mercato del lavoro. La situazione è ancora peggiore se andiamo a guardare le statistiche relative alla forza lavoro femminile, se nel 1990 il 73,2% delle donne in età lavorativa aveva un impiego, nel 2019 sono il 60,5%, a fronte del 75,3% degli uomini. Nel 2019 sul totale della forza lavoro, le donne occupano il 43,7%.

Dal 2013 Xi Jinping ha sottolineato il valore della famiglia, chiedendo alle donne di essere “mogli virtuose e buone madri” (xiangqi lianmu). Ha detto che “la famiglia è l’unità di base dello stato, lo stato sono decine di milioni di famiglie”. Ha aggiunto che “le donne hanno il dovere di occuparsi degli anziani, della prole e dell’istruzione dei figli”. E’ dunque evidente che le donne sono oggi considerate come responsabili del lavoro di cura della famiglia. L’insistenza sul valore della famiglia e sulla posizione della donna si è ulteriormente rafforzata dopo la fine della politica del figlio unico del 2015 e la conseguente richiesta di aumentare il numero dei figli, dapprima due e dal 2021 tre.

La pandemia ha accentuato queste contraddizioni rendendo la realtà che vivono le donne ancora più brutale. Le denunce di violenze commesse da mariti o fidanzati sono aumentate durante la pandemia, quando c’è stato il lockdown nazionale nei primi mesi del 2020. Prima della pandemia le statistiche erano già allarmanti. In base ai dati forniti dalla Federazione nazionale delle donne, che è un’organizzazione di Stato, il 30% delle donne sposate ha subito una violenza domestica. Si noti come queste statistiche non comprendono le donne non sposate. Anche se non sono state fornite statistiche ufficiali accurate a livello nazionale durante la pandemia, in base ad alcuni dati regionali e denunce dei media, la violenza è aumentata. Per esempio, nel febbraio 2020 quando la pandemia è esplosa, in base all’organizzazione anti-violenza no profit ufficiale Blue Sky (Lantian xia) che si trova nel Hubei, i casi di violenza domestica rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente sono triplicati. Il Yuanzhong Gender Development Center di Pechino che ha un servizio di assistenza telefonica a livello nazionale, ha denunciato un aumento delle violenze del 20% nel maggio 2020. In tutti questi casi, le violenze sono commesse da mariti, ex mariti o fidanzati.

Non solo i casi sono aumentati, ma la natura della violenza è diventata più brutale. Nel luglio 2020, il caso raccapricciante di un marito che ha fatto a pezzi la moglie a Hangzhou ha dominato l’opinione pubblica nazionale. Pochi giorni dopo si ripresenta una storia simile nel Sichuan, nella contea di Anyue la polizia scopre che un marito ha fatto a pezzi la moglie e dopo ne ha dichiarato la scomparsa. In agosto, una studentessa dell’Università di Nanchino è dichiarata scomparsa, ma poi si scopre che il ragazzo l’ha portata in viaggio nel Yunnan e l’ha uccisa. Ancora, a settembre una ragazza viene massacrata di botte per strada dal suo ex compagno. Il giorno prima della festa nazionale, il 30 settembre, Lamu, una donna tibetana viene colpita dalle coltellate del suo ex marito e poi bruciata, morirà dopo due settimane in ospedale.

Questi casi di violenza che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sono stati definiti dalla polizia e dai media come “violenza domestica”. Eppure, tale definizione appare riduttiva e problematica sotto diversi aspetti. Intanto, dal momento che vengono inseriti dentro un contesto domestico, la loro violenza appare meno estrema e in qualche modo “giustificata”. I casi di violenza appena menzionati, inoltre, ci portano a ridurre la violenza domestica ai soli casi estremi, mentre invece la violenza sulle donne si manifesta su una linea che va dalla violenza verbale, a quella psicologica fino alla violenza fisica. I casi menzionati sono estremi nel senso che appartengono a un campo decisamente più ampio di azioni violente, guardare solo i casi estremi rischia di farci perdere di vista la natura strutturale e sociale della violenza. E poi, in questi casi estremi, manca la voce delle vittime, private per sempre del diritto di poter parlare per se stesse.

Anche se queste violenze si verificano in un ambito domestico, esse non possono essere confinate in uno spazio che appare “privato”. Esse sono intimamente collegate con la violenza sociale, culturale ed economica. Concepire la violenza come “domestica”, porta a oscurare quella sistematica e strutturale dello stato e della polizia. I media e i comunicati ufficiali oscurano il fatto che nei casi di violenza sulle donne viene sempre meno la responsabilità di tutti gli attori che dovrebbero essere preposti a combatterla. Queste donne, prima di essere ammazzate, sono già state vittime di violenza, che siano botte o stupri. Ma quando si recano dalla polizia a denunciare i fatti, raramente trovano “aiuto”. Sul fronte legale, nonostante una storica legge contro la violenza domestica sia stata introdotta nel 2017, il sessismo e la concezione della violenza domestica come un fatto privato domina l’azione della polizia quando deve agire a favore delle donne. Lamu, per esempio, era andata dalla polizia diverse volte prima di essere uccisa, ma la polizia non ha fatto nulla per prevenire la violenza o fornire un aiuto efficace. È un esempio rappresentativo di quel che accade in tutta la Cina. Le autorità preposte, in altre parole, nei casi di violenza maschile sulle donne sanno ma non agiscono. Nei casi di violenza estrema, vediamo come tutti i diversi livelli della società siano coinvolti e tutti, prima che la violenza si scateni, si dimostrano estremamente tolleranti nei confronti degli uomini. La violenza di genere, ancora più di altre forme di crimini, non può essere ridotta a un fenomeno individuale, essa comporta sempre, direttamente e indirettamente, una responsabilità delle istituzioni. Come ha efficacemente detto l’antropologa e attivista messicana Marcela Lagrande, “il femminicidio è un crimine di Stato”, anche se a commetterlo sono mariti ed ex mariti, fidanzati ed ex fidanzati.

Oltre alla violenza che colpisce direttamente il corpo, la “guerra alle donne” ha conosciuto un aumento nel 2021 in ambito sociale e culturale. Emblematico il caso dell’aprile 2021, quando sui social media come Douban, Weibo e Weixin vari gruppi di donne sono stati silenziati nello stesso momento tramite lo strumento della censura. Poco meno di un mese prima, l’attivista femminista Xiao Meili aveva scritto un post nel suo account Weibo in cui denunciava come a cena con amiche in un ristorante, dopo aver chiesto a degli avventori maschi di non fumare dentro il locale, per tutta risposta è stata schizzata con olio bollente. Il post è diventato subito argomento di discussione nazionale, ma quando è diventato il secondo tema più importante nelle ricerche sulla piattaforma, è divenuto oggetto di un attacco spropositato: Xiao Meili viene accusata di “separatismo” e di “colludere con forze straniere” (il riferimento è al movimento di Hong Kong, le accuse sono penalmente gravissime). Chi si è preso l’onere di formulare queste accuse è un ex militare; sebbene non ci siano prove che sia stato assoldato dal sistema di censura del governo, ha relazioni strette con l’Ufficio nazionale che controlla l’informazione in rete. Così, dalla discussione sul “fumare in luoghi pubblici” si è passati alla “collusione con le forze straniere”. Sulla base di questa deformazione, ad aprile una ventina di account privati e collettivi di femministe sono stati eliminati, a seguito sempre della stessa tattica: prima qualche zelante nazionalista si prende la briga di indicare questi account all’Ufficio di controllo della rete come “separatisti” e “collusi con le forze straniere”, poi si scatena una pubblica caccia alle streghe in rete contro questi account, e infine vengono eliminati. Quando la femminista Liang Xiaomen ha deciso di chiamare in causa la piattaforma e chiedere conto dell’eliminazione immotivata, l’amministratore delegato ha subdolamente detto che questi account avevano provocato “scontri di massa” e “discriminazione di genere”. La piattaforma Weibo ha poi rilasciato una dichiarazione ufficiale dove afferma che gli account di Liang Xiaomen e delle altre femministe erano stati indicati da altri utenti come “contenenti informazioni illegali e dannose”. Anche nell’altra piattaforma, Douban, utilizzata soprattutto da giovani istruiti, i gruppi di discussione femministi sono stati eliminati, con la motivazione di veicolare contenuti estremi, radicali e ideologici.

Negli ultimi due anni, la brutalità degli attacchi sul corpo delle donne e sul diritto di parola è arrivata a un livello estremo, ma a peggiorare le cose c’è una tendenza dominante alla normalizzazione di questi attacchi. In base al concetto di “pedagogia della crudeltà” formulato dall’antropologa femminista Rita Laura Segato, il motivo della violenza sul corpo delle donne è innanzitutto quello di terrorizzare le donne, e su questa base terrorizzare l’intera popolazione. Questa violenza è autorevolmente garantita e accettata dallo Stato, quando non attivamente sostenuta in modo che il connubio fra nazionalismo e patriarcato possa riprodursi come forza sociale e culturale dominante.

Non solo vittime, pratiche di resistenza

Le donne non sono solo vittime, un gruppo di giovani femministe ha preso la parola fin dal 2012. La maggior parte di loro è nata alla fine gli anni ottanta e negli anni novanta. Alcune provengono dalle campagne, altre da famiglie delle classi medie urbane, e hanno tutte un livello di istruzione superiore. Hanno fatto campagne per i diritti delle donne utilizzando diverse strategie, protestando contro la disuguaglianza nell’accesso all’istruzione, nel lavoro e contro le molestie sessuali. Attraverso performance artistiche, questo gruppo di giovani femministe ha attivamente preso la parola sviluppando una battaglia culturale di lungo corso, promuovendo petizioni e sostenendo il cambiamento delle politiche relative alle donne. Quando il Partito-stato ha represso i movimenti del lavoro e le relative Ong nel 2015, anche il gruppo delle giovani femministe ha subito delle limitazioni.

In una situazione di restringimento degli spazi della “società civile” cinese, cultura e media digitali sono diventati un campo di battaglia importante per la presa di parola e per le lotte del femminismo. Per esempio, il movimento #MeToo è emerso nel 2018 principalmente in rete, privo di un centro e di organizzatrici definite. Donne comuni da diverse aree geografiche si sono espresse sui social media e presto hanno ricevuto il sostegno di tante altre donne. L’aumento delle violenze sulle donne nel 2020 ha visto un forte attivismo in rete delle femministe. Allo stesso tempo, alcune donne si sono organizzate dal basso grazie alla rete per raccogliere e donare articoli sanitari per lavoratrici e volontarie in prima linea contro la pandemia. Yang Li, un’attrice comica di 27 anni, è diventata famosa per le sue acute battute sulla disuguaglianza di genere e ha ottenuto il sostegno di moltissime donne. Battaglia culturale e digitale significa anche dover prendere in considerazione un altro attore, cioè il mercato. Per esempio, una pubblicità della compagnia di cosmetici SK-II del 2016, poneva al centro e sosteneva le donne trentenni di fronte alla pressione e all’ansia sociale di doversi sposare e metter su famiglia. Molte donne si sono riconosciute in questa pubblicità, tanto che in sole 24 ore è stata condivisa in rete oltre un milione di volte. Ancora, nel 2020 il programma generalista trasmesso in rete “sorelle coraggiose ed ambiziose” andava contro lo stereotipo diffuso sulle donne che hanno superato i trent’anni sottolineando invece la loro capacità di autonomia. La chat di discussione associata al programma è stata letta oltre quattro miliardi e mezzo di volte. Il mercato offre moltissimi altri casi, qui basta dire che il target di riferimento sono donne della classe media urbana che hanno un alto capitale culturale ed economico.

Ma dal 2021 le strategie di lotta femministe incentrate nel campo della cultura e dei media digitali hanno incontrato nuovi e grandi ostacoli. Già negli anni precedenti, sia nelle performance artistiche sia nelle petizioni e poi nell’attività in rete, le femministe hanno sempre fatto molta attenzione a inserirsi dentro il più ampio discorso ufficiale della “politica nazionale di base di uguaglianza di genere”. L’ “uguaglianza di genere” è stata considerata come una politica nazionale di base dal governo cinese dopo la Conferenza mondiale delle donne che si svolse a Pechino nel 1995. A conferma di ciò, nel 2015 Xi Jinping, partecipando al summit dell’ONU Global Leaders’ Meeting on Gender Equality and Women’s Empowerment, ha rinnovato la volontà di portare avanti queste politiche. A ottobre 2020, in occasione del venticinquesimo anniversario della Conferenza mondiale delle donne, Xi ha affermato: “garantire la protezione dei diritti e degli interessi delle donne è un impegno di livello nazionale”. Eppure, il contesto socio-culturale attuale ci consente di vedere uno spostamento di significato e di azione politica che si è verificato negli ultimi anni. Come detto sopra, molti nazionalisti o “patrioti” stanno usando la rete per colpire le voci femministe, spostando il discorso dei diritti verso il ben più paranoico e strumentale discorso delle “forze straniere”. Poggiando sull’ideologia nazionalista e “patriottica” sostenuta dal Partito-stato, si va a proporre l’uguaglianza fra femminismo e ideologie anti-cinesi. In questo modo, viene a cadere ogni forma di legittimazione nei confronti delle idee e delle pratiche femministe cinesi. Come ha detto l’attivista femminista Lü Pin, siamo a un momento di svolta nella “guerra alle donne”, il femminismo si trova ora nel pantano della stigmatizzazione.

Nella concezione di Xi, l’amor di patria è sempre collegato con la famiglia (jiaguo yiti: stato e famiglia sono una sola cosa). In questi ultimi anni, quando il discorso dominante nazionalista tira in ballo la patria, si porta dietro anche la famiglia. In questo quadro, il ruolo della donna patriottica è metter su famiglia, procreare e badare al lavoro di cura familiare. Non a caso il Quotidiano del Popolo nel 2018 ha pubblicato un articolo eloquente: “procreare è un fatto familiare così come è un fatto di Stato”. Le statistiche dell’ultimo censimento della popolazione rese note a maggio 2021 hanno evidenziato come nel 2020 sono nati solo 12 milioni di bambini, la cifra più bassa dal 1960 e che pone la Cina fra i paesi a più bassa natalità. Nello stesso mese, il governo ha varato la politica del terzo figlio, da molti considerata come tardiva e inefficace.

Bassa natalità e invecchiamento portano dunque le donne a sobbarcarsi ulteriori fardelli, acutizzando così la contraddizione fra produzione e riproduzione sociale. Il restringimento degli spazi di parola per le donne, significa dover affrontare un ulteriore disciplinamento sociale. Se anche l’attivismo femminista inserito nel quadro della politica nazionale di uguaglianza di genere viene contrastato e il nazionalismo si lega sempre più alla violenza patriarcale, come potranno le donne continuare a esprimersi e lottare? Non bisogna poi dimenticare come la condizione di genere sia legata a quella di classe. L’attivismo femminista degli ultimi anni è stato soprattutto, anche se non solo, espressione delle classi medie. Quando anche queste donne si trovano sotto pressione, cosa ne è delle donne subalterne? L’intensificazione della precarietà lavorativa, combinata con la pressione alla procreazione e alla cura domestica, possono essere contrastate dalle donne subalterne? Forse, ma è per ora solo una speranza, proprio questa nuova “caccia alle streghe” sostenuta dallo stato può spingere le donne a una maggiore solidarietà intergenerazionale e interclassista.

Traduzione di GioGo

Articolo pubblicato su Gli Asini, Agosto-Settembre 90-91 2021.

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