Pubblichiamo su Sinosfere una selezione di articoli già apparsi nel dossier Il potere in Cina, a cura di GioGo e Ivan Franceschini, pubblicato dalla rivista Gli Asini nel numero di Agosto-Settembre, 90-91 2021. Ringraziamo Gli Asini per la disponibilità alla ripubblicazione. Di seguito l’introduzione al dossier firmata da GioGo.
Regime e barbarie
Dopo mezzo secolo il dibattito sulla natura della Cina riformata non è ancora approdato a una conclusione condivisa. Gli Stati africani, asiatici e latinoamericani sanno di avere a che fare con uno Stato potentissimo con i suoi propri scopi ma gli riconoscono se non altro una natura non imperialistica. Nel campo imperialista non ci sono dubbi: per gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Russia, il regime cinese non è che un loro omologo, un pericoloso concorrente che però non veicola alcun modello alternativo di società (per questo, incidentalmente, la dizione insistente nelle dichiarazioni ufficiali e nei media di “nuova guerra fredda” non ha alcun senso, rimandiamo alla lettura dello speciale Cina e Usa: una nuova guerra fredda? pubblicato sul sito DINAMOpress e sul sito Sinosfere). Le sinistre del mondo sostengono che si tratti di un regime socialista o, antipodalmente, di un regime capitalista.
Ad esempio, al cahier de doléances delle nazioni africane nei confronti della Cina non mancano le voci: a fronte di una cospicua assistenza finanziaria, la Cina, si sostiene, non presenta né discute ma impone nei paesi finanziati le sue linee guida d’intervento ed è interessata al prelievo delle materie prime, che estrae, lavora e disloca con tecnici, amministratori, aziende e manodopera solo sua. Secondariamente, è interessata ad aprire e mantenere sbocchi ai suoi prodotti sui mercati locali. Un paradigma sinocentrico, che non esclude qualche ricaduta locale. Ma non si dimentica ancora che la Cina fu l’anima del Movimento dei Non Allineati di oltre mezzo secolo fa e i pochi diktat che essa impone come precondizione del suo approdo in loco (l’adesione alle posizioni cinesi in questioni “interne” della Cina o regionali: Taiwan e Hong Kong parte inalienabile della Cina, gli scogli dell’arcipelago delle Senkaku territorio cinese invece che giapponese ecc.) appaiono pretese meno pesanti per le élites africane della retorica dei diritti umani imposta dall’Occidente. Anni fa, l’allora presidente della Tanzania, John Magufuli, ritenne di poter addirittura chiedere alla Cina il condono del debito delle nazioni dell’Africa sudorientale e quello angolano, Eduardo dos Santos, potè descrivere le relazioni bilaterali con la Cina “vantaggiose per entrambe le parti, pragmatiche e prive di precondizioni politiche”. D’altra parte il modello cinese, di uno sviluppo a vantaggio delle borghesie locali, non può che riscuotere ampi consensi a livello governativo, aziendale, istituzionale (cfr. Sta rallentando il passo, la Via della Seta, di Zhang Hong).
Da parte sua, la Cina si dichiara da sempre socialista, dunque agli occhi delle sinistre partirebbe col piede giusto e il dibattito sembrerebbe superfluo, se non fosse che sono esistiti molti tipi di socialismo, da quello rivoluzionario nella linea Lenin-Mao, a quello sviluppista della linea Stalin-Deng, fino a quello revisionista e imperialista (addirittura un fuoriuscito dalle fila socialiste) dell’URSS. Il punto è, allora, il seguente: in che senso la Cina si dichiara socialista, a parte l’ovvio desiderio realpolitico di stabilire un’incrollabile continuità, se non altro nominale, con i decenni precedenti e poter esibire un invidiabile secolo di durata ininterrotta?
Il Lenin della Nuova Politica Economica, applicata in Russia negli anni venti del secolo scorso, chiarì che nella Russia rivoluzionata motore dello sviluppo era la lotta politica, di classe, e l’eliminazione delle classi sfruttatrici e delle prassi di appropriazione, privatizzazione e dilapidazione, non certo l’intervento statale industriale e tecnologico, diretto da una pianificazione statale separata dalle masse, affidata a un ceto di funzionari e tecnici specialisti e con obiettivi quantitativi (economici) anziché qualitativi (politici). Ad esempio, l’aumento della produttività sarebbe dipeso più dalla mobilitazione contadina per lo spossessamento dei contadini ricchi, la divisione delle terre e il movimento cooperativo, su cui avrebbe agito sussidiariamente la fornitura industriale di macchinari e attrezzi agricoli, sementi, concimi chimici, reti di trasporto, elettrificazione ecc. Ma fu presto l’impostazione sviluppista a prevalere con Stalin, per decadere solo col crollo dell’URSS. La prassi cinese, in particolare dal ventennio maoista del Movimento di Educazione Socialista (1963-1966) alla Rivoluzione Culturale (1966-1976), aggiunse alla prassi rivoluzionaria leninista un ulteriore elemento, quello cruciale della prevenzione della formazione di una nuova borghesia, consentita e favorita dalla concentrazione dei poteri nelle istituzioni partitiche e statali preposte alla pianificazione. Al contrario, con le riforme della fine degli anni Settanta, Deng e il suo massimo referente per l’economia, Chen Yun, fecero inizialmente leva proprio sulla rinascita della borghesia, inizialmente quella piccola contadina, e sul suo farsi classe imprenditrice, forse convinti di poterne controllare e orientare lo sviluppo (“il mercato in gabbia”). Invece la neoborghesia cinese prese subito il sopravvento, diventò con Jiang Zemin addirittura il brodo di cultura del PCC ed oggi dilaga dappertutto, riplasmando incessantemente ampi settori del proletariato e del popolo in “classe media” (mimesi per borghesia) inurbata (ma non in società civile), borghese nell’ottica individualista, nella propensione al consumo, nella ricerca dell’agiatezza e nel terrore di non arrivarci o di perderla, puntello del regime, esito e bagno di coltura del funzionariato e dell’imprenditoria pubblica e privata, di Stato e di Partito (che d’altronde sono in larga parte due facce della stessa medaglia), grande e piccola. S’aggiunga la recrudescenza del patriarcato, che, posto termine alle esperienze di vita collettiva (per esempio nelle comuni popolari), ha visto la riapparizione della “famiglia rispettabile” (coniugi di sesso diverso ufficialmente sposati, con uno-due-tre figli a seconda delle politiche demografiche in atto) e dell’autoritarismo e la soggezione delle donne che ne sono degni compari, in totale oblio della diagnosi di Mao (“sul popolo gravano tre montagne: imperialismo, feudalesimo e capitalismo, sulle donne quattro, anche il potere maritale”) (cfr. La violenza sulle donne nella Cina post-pandemia, di Lin Lili).
I lavoratori non (ancora) imborghesiti menano invece vita assai grama (cfr. Dopo il naufragio. Alcune note sull’attivismo dei lavoratori in Cina oggi, di I. Franceschini), mentre la realtà e la retorica dell’ascesa cinese (si pensi per esempio alle nuove forme di essenzialismo che, dopo aver parlato di modello cinese zhongguo moshi, soluzione cinese zhongguo fang’an, adesso riprendono in una forma di auto-orientalismo da due soldi la dicitura “via” – dao – cinese) sono state largamente possibili grazie al loro sfruttamento e spossessamento. Il socialismo del regime cinese contemporaneo è dunque diversissimo da quello leninista e maoista e si configura come un processo di aumento del tenore di vita nazionale tramite l’imborghesimento economico, politico, culturale, antropologico (individuale invece che collettivo) di un miliardo e mezzo di persone. A tale processo sono totalmente estranei concetti quale classe, lotta e odio di classe (sostituiti da armonia sociale shehui hexie e grande rinascita nazionale cinese zhonghua minzu weida fuxing), critica della proprietà privata, rifiuto della delega politica, ripudio della guerra, e in particolare la lotta contro la diseguaglianza,quest’ultima invece considerata uno sprone all’azione personale, per “diseguagliarsi” dalla massa e accedere a uno status elitario. Ne deriva che, se lo sviluppo avviene, anche potentemente, com’è qui il caso, in regime di sperequazione sociale, sarà diseguale anche l’arricchimento, donde per esempio il divario fra il reddito degli oltre 600 miliardari cinesi in dollari (quasi raddoppiati rispetto al 2020, secondi solo agli Stati Uniti e ai suoi 724 miliardari) e quello medio pro capite (intorno ai 12.000 dollari annui).
A. Badiou in I quattro principi del marxismo ha di recente efficacemente sintetizzato la dicotomia socialismo rivoluzionario/sviluppista in quattro punti: quello rivoluzionario è tale perché punta a: (1) organizzare la vita collettiva fuori della proprietà privata e del profitto, oltre che (2) fuori delle logiche identitarie di nazione, lingua, religione, usi e costume, in quanto fondato sull’internazionalismo (e non sulla globalizzazione), ovvero la fratellanza di tutte le classi sfruttate, indipendentemente dalle modalità specifiche di sfruttamento e oppressione (3) organizzare la produzione riducendo e quindi estinguendo la specializzazione e la divisione del lavoro (4) innescare processi di abolizione dello Stato come corpo separato, col monopolio della violenza poliziesca e militare, delle finanze pubbliche, delle decisioni strategiche. Il socialismo cinese ignora totalmente queste quattro caratteristiche. In Cina ad esempio cresce la spesa militare, con un esercito sempre più professionale: la previsione di bilancio del 2021 prevede una spesa di circa 209 miliardi di dollari (un quarto di quella statunitense).
Si tratterebbe allora di un tipo nuovo di socialismo?
Sarebbe un socialismo che colloca la sua identità decisamente altrove rispetto all’idea e alla pratica di emancipazione e liberazione dell’umanità, nell’esercizio di una mediazione fra classi sfruttatrici e sfruttate fondata su una pax romana e garante di una crescita economica costante, cui demandare l’assorbimento degli scompensi sociali. Un socialismo che poggia su un combinato partitico, politico e militare in grado di reggere il paese con mano ferma, anche al prezzo di continue epurazioni interne degli elementi non allineati (anche altolocati, che siano dirigenti di partito o grandi capitalisti) e su un’egemonia culturale in grado di coinvolgere la popolazione grazie alla condivisione (sia pure diseguale) degli utili fra i cittadini. In particolare, questo quadro ospita volentieri e promuove l’informatizzazione della società, potente veicolo di estrazione e disciplinamento sociale, consumismo e controllo capillare delle attività, opinioni e comportamenti personali, a potenziamento del tradizionale braccio armato costituito da esercito e polizia (e, alla bisogna, di bande private, come di recente a Hong Kong). Ma il legame tra lo Stato e la popolazione è assicurato soprattutto dagli oltre 90 milioni di membri del PCC (uno ogni 15 cittadini), animatori di un circuito bidirezionale che da un lato comunica e chiarisce le direttive delle autorità alla popolazione e dall’altro riferisce alle prime gli umori, le reazioni e i desiderata della popolazione.
L’accezione che si dà in Cina del termine socialismo, sembra di capire, a cominciare dalla definizione che si è data (socialista e di mercato), è dunque quella di uno Stato potente e accreditato, motore di uno sviluppo ordinato, garante degli interessi dei cittadini e scudo, sia internazionale sia interno, alle crisi. Un socialismo innovato soprattutto economicamente, molto meno politicamente. Anzi, la migliore garanzia della crescita risiede proprio nella concentrazione del potere politico ai vertici, che assicura la necessaria unità d’azione e innovazione. Alla politica partecipata dalle masse viene sostituita l’adesione e il senso di sicurezza che deriva dall’essere cittadini di un paese prospero e potente. Ad esempio, l’apertura alla fine del secolo scorso di due borse accessibili anche al pubblico dei piccoli investitori e la possibilità di realizzarvi qualche guadagno a fianco dei magnati della finanza ha corroborato il senso d’appartenenza a una stessa comunità, ma d’affari, della quale, in quanto parte attiva della compravendita di azioni, è motore e attore lo stesso Stato, di cui sarà dunque difficile temere il disimpegno e da cui sarà invece possibile ragionevolmente aspettarsi possenti interventi risolutori nelle immancabili crisi.
La sostituzione del socialismo rivoluzionario con lo sviluppismo richiede una mimesi, quella del patriottismo e dello sciovinismo (la rinascita o risorgimento o rinascimento fuxing della Cina e la sua collocazione ai primi o al primo posto nel consesso delle nazioni), atteggiamenti che si rifanno allo pseudo concetto borghese di nazione. Che per la Cina imperiale, che si ritenne sempre, nei duemila anni della sua durata, non già appena una nazione fra le altre, ma tutto l’universo mondo (civile, il Tianxia, “tutto ciò che sta sotto il Cielo”, a esclusione di barbari e fiere, confinati negli angoli), stette inizialmente assai stretto. Uno degli scossoni più violenti lo subì proprio quando l’impero fu aggredito e (parzialmente) soggiogato, a metà dell’Ottocento, da un branco di nazioni imperialiste, economicamente potenti, tecnologicamente avanzate e dotate di un retroterra storico-culturale del tutto paragonabile al suo. Da allora la Cina cercò disperatamente, con la repubblica, di ridursi a nazione, pena la scomparsa dalla faccia della terra. Ovviamente, l’invenzione della “nazione cinese” richiese come sempre in questi casi un ampio rimaneggiamento e camuffamento dei fatti storici, uno su tutti, l’oblio della natura multietnica e multiculturale del paese (un paio di dati: le remote origini della civiltà cinese si collocano in una galassia di Stati e staterelli delle più varie origini etniche e culturali; un terzo circa delle dinastie che amministrarono in tutto o in parte la regione furono non già cinesi, ma turche, tangute, mongole, mancesi). (cfr gli articoli Lottare contro l’internamento di massa degli Uiguri e contro la guerra continua di D. Byler e Patriottismo senza libertà di Shui-yin Sharon Yam)
Ma la globalizzazione nazionalistica sarebbe operazione incerta e rischiosa, giacché evidentemente, come per ogni popolo eletto, non è condivisibile con gli altri popoli del mondo, se non fosse che quella cinese avviene condividendo l’imborghesimento di massa, e trovando così non pochi seguaci in tutte le classi emergenti del mondo.
In conclusione, si tratta di un socialismo dei valori borghesi (la proprietà, l’individualismo, il patriottismo). Che sia l’unico possibile dopo il fallimento globale (per il momento) di quello rivoluzionario proletario e una neoformazione migliore e globalmente competitiva, diversa da quella del passato, bollata come “socialismo della povertà”, sarebbe un’amara conclusione. Peggio, sarebbe una sottovalutazione del ribellismo che cova nella società cinese e che s’è espresso e s’esprime tuttora vivacemente, nella resistenza sul lavoro quando non nel suo rifiuto, nella critica radicale al patriarcato, nelle rivolte che pur in modo ambiguo vedono intersecate le questioni dell’identità, dell’autonomia e della classe, nelle elaborazioni culturali indipendenti sulle questioni del potere (cfr l’articolo Teatro del contagio di D. Gullotta e Lin Lili).
Articolo pubblicato su Gli Asini, Agosto-Settembre 90-91 2021.
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