Otto maschere appese a dei fili, cinque sedie, un telo bianco. La scenografia dell’ultimo spettacolo del teatro sociale Grass Stage (Caotaiban), convertito in teatro del contagio (ren chuan ren juchang), è essenziale.

19-20 giugno 2021, Shanghai, posizionato nei margini della cultura e della società perché basato sul rifiuto delle politiche culturali statali e delle logiche del mercato, Grass Stage propone una riflessione che parte dalla pandemia di Wuhan del 2020 e arriva, nel quadro di una particolare narrazione storica per frammenti, ai temi della segregazione, della verità e del potere, dell’empatia o del comune sentire. Grass Stage ha accettato la sfida di mettere in scena il potere e la vita nella Cina post pandemia.

Grass Stage, fìn dalla sua nascita nel 2005, ha continuamente attraversato gli spazi urbani, dai sottoscala fino alle gallerie d’arte, dalle università fino a diversi festival internazionali. La restrizione degli spazi culturali capaci di esprimere una voce critica autonoma degli ultimi anni, così evidente e solo apparentemente paradossale in una metropoli globale come Shanghai, ci porta ad assistere alla prima dello spettacolo in uno spazio privato, reso per l’occasione semi-pubblico. La casa degli sfaticati (lanhan zhi jia, dove “sfaticato” è una critica diretta contro il feticismo lavorista della Cina post-socialista, in particolare si fa riferimento al lavoro dei colletti bianchi 996, vale a dire dalle nove del mattino alle nove di sera, sei giorni a settimana, che I. Franceschini discute in Dopo il naufragio raccolto in questo numero) è un piccolo esperimento di coabitazione giovanile a ridosso di uno dei diversi centri della megalopoli. Qui oltre ad abitare insieme, tre o quattro giovani neolaureati organizzano saltuariamente delle discussioni (femminismo, Palestina, lavoro, etc.) e delle attività culturali. Negli ultimi anni sono nati diversi spazi simili, più o meno aperti, che sono un indice della necessità di superare le relazioni sociali mediate solo dalla connessione digitale e al tempo stesso di aggirare il controllo sociale sempre più stretto. Il limite di queste esperienze è noto: l’eterogeneità, uno degli elementi fondamentali della vita urbana, viene a ridursi, gli incontri si sviluppano quasi esclusivamente fra persone che hanno lo stesso capitale culturale e sociale.

La temporanea trasformazione dell’ampio soggiorno degli “sfaticati” in palcoscenico ci introduce, finalmente, in uno spazio di analisi e discussione sulla Cina post pandemia. Come scrive GioGo nell’introduzione alla traduzione “Quelli che…” contenuta nella versione on line di questo numero, la “guerra di popolo” contro la pandemia e lo spettacolo farsesco della nuova guerra fredda dispiegata sul palcoscenico geopolitico globale da marzo 2020, hanno fatto sì che l’opinione pubblica nazionale si sia piegata alla sola versione ufficiale governativa sulla pandemia e su tutto ciò che essa ha comportato a livello sociale e culturale. Ma sotto la cappa dell’ideologia cova della brace capace a volte di dar vita a un guizzo di fuoco, uno scintillio di critica, un abbozzo di discorso indipendente. Solo pochi giorni prima dello spettacolo di Grass Stage, sempre a Shanghai una compagnia teatrale amatoriale e abbastanza improvvisata ha proposto in uno spazio comunitario pubblico uno spettacolo sulla pandemia chiamato in inglese The Other Memories on Covid 19 e in cinese Collage delle memorie della pandemia. L’importanza di quello spettacolo è stata nel rappresentare pubblicamente le voci delle persone comuni sulla pandemia nel tentativo di far emergere le “storie individuali” accanto, si lascia intendere, alla storia scritta dalla classe dominante. Anche se la rappresentazione è stata poco incisiva, a causa soprattutto di problemi organizzativi (una creazione collettiva di circa quaranta persone con oltre dieci attori non professionisti che hanno preparato lo spettacolo in soli quattro giorni), essa condivide con quella di Grass Stage lo sforzo di presentare una riflessione “dal basso” sulla pandemia. Di questi tempi, si tratta di un evento culturalmente e socialmente significativo.

Nel soggiorno degli “sfaticati” una ventina di spettatori arrivati su invito e passaparola sono in trepidazione, era da oltre due anni che Grass Stage non si esibiva a Shanghai. La locandina recita: Il decameron sull’isola Geli. Carne vulnerabile, guscio duro. I due caratteri che compongono la parola “geli” significano “vongola”, in questo modo ci sembra di capire il riferimento alla carne e al guscio. Ma “geli” è anche la pronuncia della parola quarantena, ed è a questa che in realtà il titolo fa riferimento. Così la carne vulnerabile e il guscio duro realizzano una metafora profonda: il rapporto fra l’essere umano e il potere. Anche il riferimento a Boccaccio è duplice, il primo sta per la pandemia di peste nera del Trecento e con questa scusa lo spettacolo utilizzerà nomi di persone e di città italiane sinizzati per evitare riferimenti troppo diretti, anche se si capirà fin dalle prima battute che Venezia è Wuhan, e Firenze è Shanghai. Troveremo altri riferimenti all’Italia, nati casualmente, da Primo Levi ad Agamben. Il secondo perché dalla fine della stretta del lockdown a Shanghai, intorno a maggio del 2020, i membri della compagnia hanno preso a incontrarsi all’aperto e, oltre a fare le consuete esercitazioni basate sull’uso del corpo e sulla sua capacità di esprimersi fuori dal dominio della parola e delle convenzioni, hanno cominciato a discutere sulla pandemia e sulle sue implicazioni sociali. Questo spettacolo è quindi una creazione collettiva frutto di quasi un anno di discussioni e incontri “boccacceschi”. Dal novembre 2020 gli incontri si sono spostati nelle sale riunioni di alcuni uffici sparsi nella città, lasciate libere la domenica e trasformate, per l’occasione, in sale di prova e di discussione di temi “sensibili”. Dalla fine dell’anno la discussione si è allargata alla dimensione storica mondiale non solo sulla pandemia, ma anche sulla segregazione, sulla divisione sociale, culturale e politica, la malattia, il rapporto normale-anormale, etc. Da gennaio-febbraio 2021 si è deciso di trasformare la consistente massa di materiali accumulati in uno spettacolo. Molte le limitazioni tecniche, a partire dai partecipanti. Trattandosi di una compagnia non professionale, i membri non sono stabili. Soprattutto negli ultimi anni, quando il gruppo storico di Grass Stage si è piano piano dissolto, la compagnia si è trovata a progettare le proprie attività con partecipanti “precari e flessibili”, rispecchiando e subendo così quel che nella società cinese attuale è la norma, particolarmente per i più giovani. Per questo motivo, durante la preparazione si è pensato, molto pragmaticamente, di utilizzare delle maschere. Ogni maschera rappresenta un ruolo, i pochi attori che indossando le diverse maschere possono così rappresentare più ruoli. Per lo stesso motivo, durante lo spettacolo, sul telo bianco compare una ragazza che è in streaming sulla piattaforma Bilibili. Avendo dovuto lasciare Shanghai per andare a Canton (che proprio durante la prima dello spettacolo si trova in stretto lockdown a causa di una delle solite varianti), si è fatta di necessità virtù e si è pensato di usare lo strumento della rete.

Gli attori entrano in scena uno dopo l’altro, sulle rispettive sedie ognuno inizia una performance con la sola presenza del corpo. Grass Stage è nato e si è sviluppato come teatro sociale e teatro del corpo, così per gli spettatori è cosa naturale partecipare alla forza dirompente dei corpi che stanno trasformando lo spazio circostante. Una prima attrice, facendo perno sui soli addominali, spinge fuori gambe e braccia, sguardo fisso e perso, in questa posizione trasforma la sedia nello spazio della quarantena a cui tutti siamo stati abituati. Un altro, quasi in pigiama, ci trasmette il sonno, il dormiveglia e la noia della nostra vita “seduta” durante la quarantena. La terza attrice si rannicchia sopra la sedia, inespressiva. Si tratta quindi di pose, più che di performance. Allusioni, più che azioni, simboli che non lasciano spaziare la poeticità del corpo. Solo un’attrice riesce a sviluppare una performance vera e propria, pur stretta tra i tempi brevi, lo spazio di una sola sedia e gli altri attori in posa fotografica. Le mani scivolano sul corpo, dalle gambe alla pancia, qualcosa deve uscire, una mano spinge in su e la bocca cucita su un viso perplesso prova a parlare, non esce nulla, una mano spinge dalla pancia ai seni e l’altra massaggia preoccupata il collo, fino a quando la testa cade indietro portandosi via un corpo che ha capito e ci ha fatto capire che non c’è comunicazione, che è impossibile la relazione: fra corpo e parole, fra corpo e attori, fra attori e compagnia, fra compagnia e pubblico. Arrivati a metà dello spettacolo, pose e performance avranno un breve seguito, per dare ritmo a uno spettacolo che è ormai passato decisamente al teatro di parola, e in questo caso la performance suggerirà che, dopo aver realizzato che nella società post-pandemica l’incomunicabilità è strutturale, si può arrivare solo al conato di vomito.

Nel video in streaming, l’attrice dalla sua camera virtuale esordisce con fare professorale: “ge” significa separare, “li” significa lontananza, “geli” significa rompere il contatto. In inglese c’è la parola quarantena, c’è la parola isolamento e nel caso della religione, della politica e della razza c’è la parola segregazione. In cinese si usa solo “geli”.

A questa attrice in streaming è affidato il ruolo della “storia” (nel copione: caverna della storia), grazie a lei il tema della quarantena, a cui i dialoghi degli altri attori faranno sempre riferimento, assume non solo profondità storica ma significati plurimi, tutti legati al rapporto fra persona e potere.

Lo spettacolo è diviso in quattro sezioni: “geli”, vero-falso, empatia (o comune sentire), storia.

La parte più importante, che attraversa le altre e, pur a frammenti, cerca di legare tutto lo spettacolo è appunto quella della storia. Troviamo riferimenti a Primo Levi, a Chomsky, alla storia cinese antica mentre alle spalle degli attori vengono saltuariamente proiettate delle immagini, muri famosi come quello che segrega i palestinesi, quello al confine tra USA e Messico ma anche quello di Berlino e immagini dei lager nazisti. Qui, brevemente, vale la pena riferire dell’uso di Primo Levi: la “storia” in streaming ci dice che nei suoi libri e in alcune interviste Levi ha parlato dei sommersi e dei salvati, della paura e dell’impotenza di parlare fra i salvati. Subito dopo la storia recita la poesia di Levi 25 Febbraio 1944: “Vorrei credere qualcosa oltre/ Oltre che morte ti ha disfatta./Vorrei poter dire la forza/ Con cui desiderammo allora,/ Noi già sommersi,/ Di potere ancora una volta insieme/ Camminare liberi sotto il sole”. Segue una lunga citazione da Illusioni necessarie di N. Chomsky (1989) dove, dopo aver parlato del genocidio a Timor Est, conclude: i limiti interni di uno stato forte forniscono un margine per la sopravvivenza alle sue vittime, un fatto che non dovrebbe mai essere dimenticato.

Alla fine della prima sezione, la “storia” prorompe con uno dei brani più forti dello spettacolo, scritto probabilmente dal solo regista:

guanti, mascherina, occhiali, camice, detergente, sguardo indifferente, posizione di rifiuto e di non voltarsi indietro; porta, sbarre, muri, reti metalliche, elettricità, trincea; montagna, mare, isola, fiume, foresta, deserto; gente col bastone, gente col coltello, gente violenta e violenti in divisa; […] vongola (geli), carne vulnerabile, guscio duro/ 

Non è ancora nata una forma superiore, la quarantena è cosa umana, è una modalità importante di esclusione e divisione garantita dalla costrizione, evita il contatto, taglia la relazione, non consente di stare insieme e interrompe la comunicazione

siccome abbiamo paura, dobbiamo opporci al movimento naturale e libero. Ha una lunga storia la quarantena-segregazione, una dialettica e una interazione che si dispiega nel colpire la malattia, la razza, la religione, la differenza di pensiero e di posizione

l’altra faccia della quarantena-segregazione è il senso di insicurezza che il movimento e la comunicazione comportano, il rischio della tolleranza e dell’accettazione; nelle zone grigie della quarantena-segregazione ci sono margini per reciproci compromessi? […]

In generale, anche indossare degli abiti è una forma di separazione

chi si ritira in un paradiso dorato o chi è sulla strada dell’auto-esilio non si sta forse creando un’altra vita auto-segregandosi?

I lebbrosari di epoca Qin erano già luoghi di quarantena e segregazione

di fronte alla possibilità di lasciare per sempre Atene, Socrate scelse la morte

quando la peste nera arrivò in Europa, Milano impose la quarantena per abbassare il tasso di mortalità

nel ‘600 ancora mettevano sotto chiave tutti i poveri, e il primo ghetto per gli ebrei compare a Venezia

in alcuni periodi di colera o di lebbra la quarantena è stata considerata come l’unico strumento adatto

L’Inghilterra spediva i condannati in Australia, la Francia esiliava gli indesiderabili in Guyana 

Il testo prosegue citando gli USA, la Siberia, il Sudafrica fino a Fukushima, Chernobyl e infine:

e poi tanti altri esempi che non possiamo riferire, isolati fuori dalle labbra, nel nostro stesso linguaggio isolati e segregati

la nuova pandemia ha scritto un nuovo capitolo della quarantena-segregazione?

Le restanti tre parti sono quasi tutte affidate alla parola, fra i personaggi troviamo lavoratrici precarie nelle comunità abitative, quelle che durante la pandemia hanno rivelato la loro capacità di controllo della malattia e della società. Una lavoratrice si lagna del lavoro burocratico che le è stato affidato, la registrazione di chi si è ammalato, chi entra e chi esce dalla comunità. Un altro, che altri non è che la voce del regista, racconta la storia di uno che doveva rientrare a Venezia (cioè Wuhan) ma non ha potuto, si è dovuto fermare a Firenze e lì è stato visto come un appestato. Una studentessa e insegnante, o insegnante e studentessa, cita l’Edipo a Colono in un riferimento criptico alla relazione fra sapere, potere e malattia sociale, c’è spazio anche per una citazione da Sorvegliare e punire di Foucault, affidata a una giornalista, alludendo alla questione della normalità e anormalità, e poi c’è anche il giovane borghesuccio che esalta il periodo della pandemia, perché se ne è stato in panciolle a casa senza dovere star dietro all’affanno della socialità. I personaggi, ognuno con una maschera diversa, dicono le loro frasi ma non dialogano fra loro, i temi sono accennati ma non sviluppati. Le parole, insomma, appaiono superficiali, private per giunta della forza del corpo a cui Grass Stage ha abituato il suo pubblico.

La seconda parte affronta un tema epocale quanto la pandemia stessa. Qui si tocca il tema del potere e della verità. Il tema scaturisce dalle informazioni false e dal controllo sulle informazioni, in particolare durante febbraio e marzo del 2020, prima a livello nazionale poi a livello internazionale. Un personaggio si chiede: chi attesta cosa è vero? Come si fa a verificare la verità? C’è chi dice che grazie alle nuove tecnologie e alla raccolta dei dati si può arrivare alla verità, c’è però chi dice che l’accesso ai dati è disuguale, insomma la questione resta aperta, ma si comprende bene come la verità sia una funzione del potere. Qualcuno si chiede se i diari personali (il riferimento non è solo a Wuhan. Diari di una città chiusa di Fang Fang, ma ai diari delle persone comuni, magari letti solo da amici o letti dopo decenni dalla loro stesura) possano rientrare in un percorso di costruzione della verità, cioè se possano legarsi alla “storia grande”. Ma la storia è verità?

Nella terza parte viene citato Li Wenliang, l’oculista che a inizio gennaio 2020 aveva parlato di un nuovo coronavirus, fu messo a tacere e poi a inizio febbraio morì dopo essere stato contagiato. Il caso di Li è ovviamente legato alla verità e al potere, ma qui è inserito nel tema dell’empatia o del comune sentire. La domanda è: verso chi proviamo empatia? Il personaggio che in modo abbastanza scoperto ripropone le parole del regista, Zhao Chuan, affronta il tema in modo cinico chiedendosi se il comune sentire sia limitato alla comune appartenenza nazionale, per poi aggiungere efficacemente come l’empatia appartenga in realtà all’ambito dell’egoismo umano, il dolore degli altri infatti ci rassicura e ci conforta. Rafforza le parole del regista una presenza fissa della compagnia degli ultimi cinque anni, Zhang Ruoshui, che anche in passato ha portato in scena in modo stereotipato e vittimistico la propria storia personale di ragazza di campagna immigrata in città, che dice: “ma se nemmeno mia madre contadina capisce me ormai cittadina, come possiamo provare empatia verso quelli di Wuhan?”.  L’attrice non tiene la scena e sproloquia, si comprende come in questa parte dello spettacolo sia stato eliminato un tema che invece nei materiali di preparazione era stato molto trattato: durante il primo periodo della pandemia, a febbraio, in città come Pechino, Shanghai, Canton e ovviamente anche a Wuhan, diversi gruppi di attivisti si organizzarono dal basso per fornire mascherine e aiuto alle classi subalterne. Come noto, quando il socialismo si cristallizza in una forma di potere piuttosto che di emancipazione, teme più della peste, è il caso di dirlo, l’autonomia sociale e politica. Quelle forme di cooperazione e aiuto dal basso furono messe a tacere e diversi attivisti, anche a Shanghai, subirono le attenzioni dell’autorità.

Tralasciamo i tre sogni raccontati dall’intrepida Zhang, non molto incisivi, e vediamo in che modo lo spettacolo volge al termine. Fin dalla prima scena, lo spazio è suddiviso in tre zone, quella delle sedie con gli attori, quella dello streaming della “storia”, e quella posta in un angolo in cui sta un attore con una maschera carnevalesca, il cui naso lunghissimo rimanda a un’altra maschera, la zona del Medico della peste. Durante lo spettacolo egli non parla mai, muove il corpo, raramente entra nello spazio degli altri attori, a volte interviene sopra il telo che manda la diretta streaming, si appiccica al muro, si stende sul pavimento, misura con le dita invisibili spazi in aria o sulle mattonelle. Rappresenta il “tempo”. Solo arrivati alla fine, si toglie la maschera e insieme a un’altra attrice recita il seguente dialogo: “Ho letto qualche giorno fa il libro del filosofo Agamben, scrive che…” Il Tempo la interrompe “Ora la maggior parte delle persone pensano che la vita sia la cosa più importante, non si occupano di altri problemi. Ma io vi dico, la vostra libertà e uguaglianza…” L’attrice lo interrompe a sua volta e dice “la nostra” e lui prosegue “la nostra libertà e uguaglianza sono di gran lunga più importanti della chiusura e della sicurezza”. In realtà il nome del filosofo è leggermente storpiato, nonostante nell’ambito degli studi umanistici cinesi sia uno degli autori più letti, più abusato e meno capito. Ci si poteva aspettare un riferimento al “campo” e all’“eccezione”, ma il “tempo” è finito e agli attori in chiusura leggono i versi di uno dei poeti cinesi contemporanei più importanti. Qui traduciamo i versi come vengono presentati nello spettacolo e nel copione, cioè senza il titolo e senza il primo verso:

Depongo le mie speranze nel pineto
Sotto c’è il mare, solo uno stagno da lontano
Un po’ con me c’è la luce del pomeriggio
Il tempo personale è finito, quello dell’umanità è invece lungo
Io nel mezzo devo riposare
Chi passa dice che i rami si abbassano
Chi passa dice che i rami crescono

Così letta, la poesia di Gu Cheng, scritta nel 1988, è di difficile comprensione. Il titolo è Letto di tomba, e il primo verso recita: “So che la morte eterna si avvicina, (ma) non mi addolora”Questa aggiunta dovrebbe chiarire meglio sia la poesia sia il motivo per cui è stata scelta per lo spettacolo.

Lo spettacolo finisce con una candela accesa, a ricordare certo le tantissime candele virtuali e non che si accesero quando fu comunicata la morte di Li Wenliang, ma forse anche a ricordare le veglie che ogni anno si sono tenute a Hong Kong il 4 giugno per commemorare il massacro di Tiananmen. Veglie che, come si sa, da quest’anno sono state “finalmente” proibite.

Come scritto sopra, l’importanza di questo spettacolo sta nel fornire uno spazio di riflessione e discussione altro sulla pandemia e sulla situazione sociale cinese. Grass Stage ha questo merito ormai da molti anni, riesce dai margini ad affrontare la cultura dominante del “centro”. La dialettica fra margine e centro, insieme a una pratica costante del corpo e una riflessione stringente sulla natura della rappresentazione e i suoi rapporti di potere, ha prodotto spettacoli come Unsettling Stones del 2013-2014 sul controllo sociale o Fabbrica del mondo sul mondo operaio cinese. Grass Stage è una esperienza immediatamente sociale, si sviluppa, si rafforza o si indebolisce in base alla condizione sociale in cui si trova a operare. Come nel caso del precedente spettacolo, Caojie (Sterpaglie), si avvertono difficoltà via via sempre più forti che pesano sulla compagnia. Nelle discussioni con il pubblico, che sono una parte strutturale dell’attività di questo teatro sociale, nei due giorni dello spettacolo sono stati dibattuti alcuni temi, forse non quelli che la compagnia sperava. Non si è colta l’occasione per discutere delle questioni politiche e sociali che la pandemia ha messo in luce, si è invece parlato del ruolo troppo “astratto” del personaggio “tempo”, che non ha saputo legare lo spazio degli attori, quello dello streaming (la storia) e il pubblico; si è detto che i riferimenti storici e culturali sono alla portata solo di persone con una buona istruzione; si è poi provato ad argomentare come la mancanza di riferimenti al periodo post-pandemia e alla situazione globale (pensiamo alla parte dedicata all’empatia) abbia indebolito la forza dello spettacolo, così come, aggiungiamo noi, sono stati eliminati troppi temi centrali che l’allestimento stesso avrebbe favorito: il rapporto con le tecnologie digitali, per esempio, e il controllo sociale potevano articolarsi con lo streaming del personaggio della “storia”. Fra il pubblico, qualcuno ha detto che i temi sono stati accennati ma mai trattati, con attori che in tutto lo spettacolo sono apparsi come monadi incapaci di dialogo. Una maggiore attenzione al corpo, piuttosto che alla parola, avrebbe potuto affrontare i temi scaturiti dalla riflessione sulla pandemia in modo più efficace, pensiamo alla questione del respiro e della vulnerabilità, pur citati nella locandina. Anche le maschere sono state utilizzate solo per sopperire al numero esiguo degli attori, non si è sviluppata la questione più perturbante dell’identità, tornata centrale nella Cina ascesa a superpotenza globale.

Come parlare della pandemia? Meglio, come parlare del rapporto fra potere e vita? L’uso (postmoderno) della storia è servito a non affrontare in modo diretto la questione politica del potere, per ovvi motivi. Ma ciò ha comportato una certa freddezza del pubblico impossibilitato a riconoscersi nello spettacolo. Il regista ha motivato dicendo che Shanghai e la sua gente ha già dimenticato la pandemia. In realtà il periodo post pandemico, è già un anno, ha reso naturali trasformazioni radicali e strutturali. Di queste il pubblico voleva sentire “parlare”.

Come parlare della pandemia? Certo, il potere. Nello spettacolo, soprattutto in modo allusivo, si è efficacemente fatto riferimento costante al potere che domina, che controlla, che tappa la bocca. Ma si è evitato di entrare nelle pieghe del potere, quello che tutti noi produciamo, nella realtà quotidiana e a partire dallo stato delle relazioni umane e sociali che stanno toccando livelli di strumentalità pari solo allo scambio virtuale finanziario sulla piattaforma Wechat. Se il potere è una serie di relazioni che trovano forma e linfa vitale anche a livello orizzontale, l’isola Geli ha preferito non affrontarle. La mancanza di dialogo effettivo fra gli attori, e poi fra attori e pubblico, è forse la cifra più evidente della condizione sociale attuale.

Sappiamo però che una volta avviata la serie di spettacoli (dopo Shanghai, sarà a Canton), Grass Stage farà tesoro del dibattito col pubblico e modificherà il copione e lo spettacolo certamente considerando i limiti tecnici, ma provando a far tesoro delle suggestioni di quella che possiamo dire sia ormai la comunità allargata di supporto della compagnia.

Articolo pubblicato su Gli Asini, Agosto-Settembre 90-91 2021.

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