I media ufficiali hanno finalmente cominciato a occuparsi del dibattito sul sistema dei “campi di rieducazione” come forma di contrasto al terrorismo, di cui sono vittime centinaia di migliaia di Uiguri e di altra gente nella Cina Nordoccidentale solo negli ultimi anni.1)Dello stesso autore, vedi anche il saggio “Prigioni all’aria aperta. Sorveglianza preventiva e imprigionamento delle comunità nel nord ovest della Cina”, già pubblicato su questa rivista. Ricordo che quasi esattamente tre anni fa feci un intervento al Circolo della Stampa Straniera di Pechino, dove sostenni come il ricorso ai campi d’internamento di massa minacciava la vita sociale dei mussulmani. Dalle domande che vennero poste, la cosa sembrò essere una novità per le decine di giornalisti presenti nella sala. Ne fui sorpreso, perché i resoconti di Joshua Chin e Megha Rajagopalan erano usciti già mesi prima, con un’esauriente descrizione dei sistemi che stavano entrando in uso. Ma allora, perfino a Pechino, il Xinjiang uiguro sembrava assai lontano.

Ricordo che dissi ai giornalisti radunati nello spazio extraterritoriale dell’ambasciata che ospitava la conferenza che spettava a loro di testimoniare che cosa stava succedendo nel Xinjiang. Se non lo facevano loro, nessun altro avrebbe raccontato i fatti. Conversando coi diplomatici dopo la conferenza, Ii spronai a rendersi conto che quello che stava succedendo agli Uiguri era l’estrema conseguenza della Guerra Globale al Terrore — un avvenimento storico mondiale di grave nocumento per le società mussulmane in tutto il mondo. Fermare quello che stava succedendo agli Uiguri avrebbe richiesto la messa in disparte dell’islamofobia imperante non solo in Cina ma in buona parte del mondo non mussulmano.

L’instaurazione di un sistema d’internamento di massa nell’area a maggiore prevalenza uigura della Cina segue di una decina d’anni circa le violenze economiche e politiche nella regione. Nel 2009 le autorità regionali scatenarono campagne militarizzate molto dure in tutta l’area in risposta alle proteste di piazza su larga scala degli Uiguri, che avevano visto violenze poliziesche e sommosse nel capoluogo, Urumqi. Esse condussero alla scomparsa di svariate migliaia di Uiguri, ma anche a un aggravamento del risentimento per la brutalità poliziesca e il controllo statale. Nello stesso tempo, si moltiplicarono le espropriazioni di terreni nel Xinjiang meridionale, come conseguenza dell’incentivazione di Stato degli insediamenti Han nelle aree a maggioranza uigura — altra fonte primaria di tensione.

Queste forme di controllo spietato e di furto legalizzato di terre sono state le cause primarie dell’intensificarsi delle proteste uigure e della violenza contro gli agenti dello Stato. Molte di queste manifestazioni sono state chiamate “terroristiche” dai media di Stato. Tuttavia, è importante rilevare come in maggioranza a essere uccisi e feriti in questi frangenti fossero stati gli stessi Uiguri, solitamente disarmati o armati di armi improprie e sotto il tiro delle armi automatiche della polizia.

In concomitanza con l’intensificarsi delle violenze poliziesche e delle proteste uigure è stato l’arrivo nel 2011 di servizi internet su telefonino miranti a rilanciare le pratiche religiose uigure. Molti Uiguri hanno ricevuto un diluvio di ammonimento religiosi uiguri. Molti sono divenuti più ferventi nelle loro pratiche religiose, e la mia ricerca ha rivelato, per prima cosa, che tali servizi sono stati una forma di protezione contro la crescente pressione degli insediamenti han nelle aree a maggioranza uigura e, in secondo luogo, un modo di sfuggire al controllo di Stato dei movimenti e dell’istruzione, oltre che un successo economico. I miei intervistati dicevano di essere diventati più pii “perchè hanno avuto una speranza”.

A cavallo fra il 2013 e il 2014 ci fu un’intensificazione delle violenze di civili uiguri contro civili han. Lo attestano i numerosi incidenti nei centri urbani, fra cui Pechino, Kunming e Urumqi. Si trattò di attacchi coordinati e pianificati all’arma bianca e con le bombe, alquanto diversi dai molti altri cosiddetti attacchi terroristici più spontanei e diretti contro esponenti di regime. Era stata dichiarata una “guerra popolare del terrore” in risposta agli attacchi, che ha aumentato la solidarietà fra Uiguri.

Tuttavia, la campagna ufficiale della “dura” “guerra di popolo al terrore” non ha preso di mira solo i delinquenti che scatenarono gli attacchi e chi li sostenne. Al contrario, ha comportato la criminalizzazione delle pratiche religiose e dell’affiliazione etnica uigura. Inizialmente, sono stati solo i capi religiosi a essere mandati nei campi, ma dal 2017 lo Stato ha cominciato a prendere di mira l’intera popolazione uigura adulta. Non è stata semplice prevenzione del terrorismo, s’è trattato di un programma di prevenzione dell’adesione uigura all’Islam e, in una certa misura alla stessa appartenenza etnica uigura.

In un certo senso, la logica del sistema fa da premessa alla retorica della guerra contro il “terrorismo“ mussulmano, prelevata dallo Stato cinese dall‘armamentario statunitense e alleato dopo l’11 settembre 2001. Molto di recente, nel 2017, le autorità del Xinjiang hanno ricevuto gli esperti dell‘antiterrorismo britannico nel quadro di uno scambio diplomatico chiamato “Contrasto, ispirato alle esperienze positive del Regno Unito, delle cause scatenanti dell’estremismo violento, minanti la crescita e la stabilità della regione cinese del Xinjiang”. Nel contesto cinese, il contrasto della violenza estremistica, quello che gli esperti britannici chiamano semplicemente “prevenzione”, s‘è concretata nella detenzione di centinaia di migliaia di mussulmani ritenuti “inaffidabili” nei campi e nelle prigioni, e nell’assegnazione degli altri adulti mussulmani a lavori lontani da casa, mentre nel contempo mezzo milione di bambini è stata alloggiata in scuole col dormitorio. Le logiche dell’antiterrorismo sono state usate per ignorare platealmente la questione dei diritti umani e civili e creare un’immensa colonia penale ad alta tecnologia.

Come in altri contesti, i costi della guerra al terrore sono stati ampiamente pagati dagli stessi mussulmani. La possibilità di detenere“pre-criminali,” per esempio i cittadini mussulmani sospettati di collusione col terrorismo, è prodotta dallo Stato tramite meccanismi legali che li collocano fuori delle garanzie assicurate ai non-mussulmani. Nel contesto della guerra globale al terrore, i mussulmani nel mondo sono stati messi sotto sorveglianza. Questa collocazione di popolazioni subordinate nella casella di “terrorista” contribuisce a giustificare il potere dello Stato e contestualmente a promuovere attività di monitoraggio intensivo dei dati.

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In questi ultimi tre anni, la stampa, dall’Economist al New Yorker, ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica in merito a questa nuova forma di colonizzazione lungo le frontiere interne asiatiche dell’economia globale. Hanno fatto quello che aveva suggerito il giornalista Emily Rauhala: porre il Xinjiang al centro degli studi per capire la Cina. È importante non solo perché ha fatto pressione sulla Cina perché chiudesse almeno qualche campo, ma soprattutto perché ha consentito una consapevolezza molto maggiore di quello che capitava agli Uiguri per tutta la Cina. Fra i Cinesi han che hanno accesso ai media globali è cresciuta la consapevolezza di quello che il governo e le aziende private cinesi stanno facendo alla società uigura.

Il 6 febbraio 2012, durante un dibattito in cinese sul social Clubhouse, ho visto alcuni degli effetti di come agisce questa consapevolezza. In una rubrica chiamata “Esistono nel Xinjiang campi di concentramento?” migliaia di cinesi han in Cina e nel mondo hanno partecipato all’evento “verità e riconciliazione” discutendo quello che avevano imparato a proposito della cosiddetta campagna antiterroristica condotta a loro nome.

Molti dei resoconti erano commoventi, con interventi di han dalla regione degli Uiguri che descrivevano il loro senso di colpa e corresponsabilità in quello che veniva fatto ai mussulmani nelle loro comunità. Parlavano apertamente di come i normali comportamenti mussulmani venivano criminalizzati e di come la tecnologia veniva usata per controllare la vita sociale mussulmana. Parlavano dei loro relativi privilegi come persone protette dal sistema. E di quanto era importante non nascondere I crimini contro l’umanità dietro il paramento di una presunta paura dei mussulmani nutrita dagli han — una cosa che uno degli intervenuti ha definito “normalità han.”

Uno degli interventi che mi è rimasto dentro nelle ore in cui ascoltavo queste storie strazianti è stata la riflessione di un cinese han che non è mai stato nel Xinjiang. “Un mio amico ebreo ha paragonato i campi del Xinjiang al campo di sterminio nazista di Auschwitz, condividendo in rete le immagini di entrambi”, ha detto l’intervenuto, che abita in una grande città della Cina orientale. “Sulle prime l’ho sentito come un attacco personale, perché dopotutto la Cina è la mia patria e qui si paragonava la mia patria alla Germania nazista. Sul momento non l’ho sopportato. Non solo non ci ho creduto, l’ho preso come un insulto.” Ha pensato che sembrava quello che avrebbe detto uno straniero che non sapesse niente della Cina, ma poi negli anni seguenti questi pensieri gli sono tornati in mente. “Come tanta gente, a furia di sentire resoconti del genere, ho cominciato a pensare che avrei dovuto prendere sul serio la faccenda e ho finito per rendermi conto che nel Xinjiang i campi esistevano davvero”. Ha detto che mentre ascoltava gli altri nella Clubhouse ripensava a quanto c’era voluto per cambiare idea. Ha l’impressione che la maggior parte della gente che conosce a Pechino abbia la stessa idea, che i campi sono un insulto, una menzogna fabbricata dai media occidentali. Poi l’intervenuto, come riflettendo fra sé, ha detto a voce alta, “ma mi rendo conto adesso che l’opinione della gente sta cambiando. Io l’ho fatto”.

Questo resoconto, di uno che ha cambiato idea e s’è deciso a non negare la verità di quello che succede nel Xinjiang, è una delle cose più confidenti che io abbia udito di recente. Dal 2017, ho trovato alcuni han dallo Xinjiang che avevano personalmente assistito a quello che succedeva nelle loro comunità e mi avevano rintracciato per comunicare quello che pensavano di quanto stava succedendo. Qualche volta riluttavano ad ammettere il ruolo del sistema — sentivano di non avere scelta, ma se ci pensavano abbastanza arrivavano spesso alla conclusione che è una falsità anche negare che ne erano complici. Ho anche constatato che gli studenti non cinesi provenienti dalla Cina sono solitamente disposti a riflettere su come il sistema dei campi e delle scuole con dormitorio assomiglino oppure no alle riserve che hanno spossessato gli indigeni americani nella storia del colonialismo statunitense. Questi memento alla Clubhouse sono stati fra i primi in cui ho visto gente descrivere il processo attraverso il quale avevano cambiato le idee che avevano. Altri nei dibattiti alla Clubhouse hanno ribadito queste posizioni e incitato il popolo cinese a dare ascolto alla propria coscienza. Si ricordavano l’un l’altro che esistono tipi diversi di coraggio per levarsi in piedi nella cultura della paura e dell’islamofobia generate in Cina dal sistema politico. Come ha detto uno degli intervenuti:

“Mi chiedo spesso che cosa potremmo fare. Qui affermo che dovremmo nutrire tre tipi di coraggio. Il primo tipo non è per tutti, perché è il più arduo quando si fronteggia questo genere di potere. Consiste nel levarsi in piedi apertamente. È un genere di resistenza che ignora la paura, è il coraggio più notevole. Ma c’è anche un secondo genere di coraggio che potremmo nutrire. Rifiutarsi di collaborare all’ingiustizia. Non facilitare gli abusi, non approfittarne; distinguere giusto e sbagliato in modo da rendere adamantino lo spirito, più un po’ di vergogna e di senso di colpa. Farsene motivare. Di fronte a certe situazioni nelle quali siamo complici, possiamo scegliere un terzo tipo di coraggio. Tutti abbiamo paura, è quello che succede quando si cresce nella paura, ma almeno una cosa la possiamo fare quando siamo in Cina: non diffondere la paura. Non trasferirla alla giovane generazione. Spero che i nostri figli non avranno tanta paura. Volevo dire questo”.

C’è molto da imparare in quello che dice questo testimone han che travalica la Cina. La paura del diverso, dell’altro sotto il profilo razziale, dei governi autoritari non è peculiare della Cina. I popoli del mondo non mussulmano hanno molto da imparare dalle forme di resistenza che stanno emergendo contro la guerra continua. Ci dovremmo far ispirare da questi tre tipi di coraggio e dalla loro richiesta di un mondo migliore.

Traduzione di GioGo

Articolo pubblicato su Gli Asini, Agosto-Settembre 90-91 2021.

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References
1 Dello stesso autore, vedi anche il saggio “Prigioni all’aria aperta. Sorveglianza preventiva e imprigionamento delle comunità nel nord ovest della Cina”, già pubblicato su questa rivista.