Dal finire degli anni Settanta del Novecento, con la ripresa dei movimenti migratori dalla Cina continentale, comincia una vivace discussione sui contorni dell’identità culturale di cinesi e sinodiscendenti residenti permanentemente fuori dai confini nazionali. Il dibattito si svolge su vari fronti (a tratti assume i contorni di una battaglia), attraversa diversi ambiti disciplinari e guadagna centralità e visibilità prima in corrispondenza con lo sviluppo economico delle cosiddette tigri asiatiche, territori densamente abitati da sinodiscendenti, e successivamente con la crescita dell’influenza geopolitica della Repubblica Popolare Cinese a livello globale. Mentre nel discorso culturale della Repubblica Popolare Cinese si assiste sostanzialmente a una trasformazione della concezione del migrante da traditore in epoca maoista a portavoce della cultura cinese nell’epoca delle riforme denghiane, fino ad arrivare alle recenti strategie di politicizzazione delle diaspore di cui trattano altri in questo doppio numero speciale, lo stesso dibattito raccoglie posizioni più sfaccettate tra studiosi di origine cinese attivi fuori dalla Cina.

Nella definizione di quanto (e cosa) ci sia di cinese nell’identità culturale dei sinodiscendenti confluiscono tanti discorsi più ampi, a partire da quello della costruzione dell’idea di identità nazionale, discorso globale ma di origine europea con cui a partire dal XIX secolo si è dovuta misurare anche la Cina, e da quello del colonialismo euroamericano, che, soprattutto proprio nelle aree oggi più popolate da sinodiscendenti, ha contribuito a forgiare l’identità culturale dei cosiddetti “cinesi d’oltremare”. Si tratta di ampie problematiche, su cui Edward Said ci ha insegnato a riconoscere l’evidente intrecciarsi tra dinamiche di potere e dinamiche culturali. D’altra parte, le conseguenze socio-culturali implicite nel riconoscersi appartenenti a una unica razza (mi riferisco al mito della consanguineità della stirpe cinese) o a una unica etnia sono facilmente assimilabili a quelle che Benedict Anderson individua per altre comunità immaginate, le nazioni, e possono similmente essere attivate con finalità di controllo ed esercizio di potere. Il carico politico che la definizione della cinesità ha finito per avere nel discorso culturale contemporaneo spiega dunque perché si sia acceso attorno a questo tema un vivacissimo dibattito globale, che, pur avendo avuto un suo culmine nella seconda metà degli anni Novanta, ancora oggi stimola interessanti riflessioni in vari ambiti, tra cui quello dell’espressione letteraria, artistica e culturale dei cinesi residenti all’estero e dei sinodiscendenti. È su quest’ambito che mi soffermo in questo articolo.

Il dibattito globale sulla cinesità

Tra i primi a riflettere sulla concettualizzazione della cinesità fuori dalla Cina, Wang Gungwu è ancora oggi uno dei più autorevoli esperti di Chinese Overseas. Nato in Indonesia, ha studiato in diverse prestigiose istituzioni, in Asia e in Europa, e ha insegnato a lungo in Australia, stabilendosi infine a Singapore. Sin dagli anni Settanta la sua riflessione si è concentrata sulla terminologia con cui identificare le comunità di origine cinese stabilitesi al di fuori della Cina. Partendo dalla propria esperienza personale e dalla sua formazione di storico, Wang Gungwu è stato tra i primi a interrogarsi criticamente riguardo al concetto di diaspora cinese. Contrario all’utilizzo del termine diaspora per indicare l’esistenza di comunità di origine cinese al di fuori della Cina, Wang Gungwu rifiuta l’analogia con la diaspora ebraica, da cui il termine prende origine, perché rimanderebbe a un’unica cinesità omogenea, di cui le diverse comunità sparse per il mondo rappresenterebbero degli avamposti.  Nel suo influente articolo Greater China and the Chinese Overseas e poi in diversi articoli e monografie dedicate, Wang Gungwu contribuisce inoltre al dibattito internazionale sull’identità culturale di cinesi e sinodiscendenti all’estero contestando anche l’utilizzo della definizione in lingua inglese “overseas Chinese”, che metterebbe l’accento sulla cinesità, in favore della formulazione “Chinese overseas”, in cui sintatticamente dominerebbe overseas, ovvero i diversi contesti di insediamento e dunque le diverse ibridazioni culturali, ciascuna con le sue specificità. Analogamente, Wang Gungwu contesta l’utilizzo del termine cinese huaqiao 华侨 per riferirsi a chiunque al di fuori della Cina abbia origini cinesi, in quanto sarebbe un termine con un preciso e circoscritto referente storico e si riferirebbe solo a chi soggiornava fuori dalla Cina temporaneamente e prima degli anni Cinquanta. Secondo Wang Gungwu, l’utilizzo esteso di questo termine anche a comunità o soggetti di origine cinese in epoca contemporanea non farebbe che rinforzare l’idea del migrante cinese come soggiornante a tempo determinato, inassimilabile perché perennemente di passaggio nel contesto ospitante.1)Wang Gungwu, “Greater China and the Chinese Overseas”, The China Quarterly, 136, 30, 1993, 926-948.

La strada aperta da Wang Gungwu con i suoi studi pionieristici sulle comunità formate da sinodiscendenti in diversi contesti geografici è stata poi percorsa e, per certi versi, popolarizzata dai lavori di Lynn Pan, scrittrice e studiosa cinese attiva tra Europa e Sud-est asiatico, che nei primi anni Novanta ha prodotto in lingua inglese due influenti lavori enciclopedici di catalogazione e vera e propria celebrazione delle comunità sinodiscendenti nel mondo.2)Lynn Pan, Sons of the Yellow Emperor (New York: Little Brown, 1990); Lynn Pan (a cura di), The Encyclopedia of the Chinese Overseas (Surrey: Curzon, 1998). Anche i lavori di Pan vanno nella direzione di una concezione delle diverse comunità sinodiscendenti come caratterizzate da tratti culturali unici, che valorizzano la loro identità localizzata. Tuttavia, alcuni temi fortemente culturalisti da lei entusiasticamente abbracciati, quali ad esempio l’insistenza sul mito della consanguineità e la quantificazione dei diversi gradi di cinesità che le varie comunità manterrebbero, hanno reso questi testi, pur preziosi per la mole di informazioni raccolte e per la prospettiva globale che adottano, oggetto di forti critiche da parte di alcuni studiosi.

Nello stesso filone va ricordato anche l’importante contributo offerto dallo studioso Tu Weiming, professore emerito ad Harvard ed esperto mondiale di Confucianesimo moderno, che con il suo The Living Tree ha lasciato un segno importante nel dibattito globale sulla cinesità dei sinodiscendenti. Secondo Tu Weiming, le varie comunità di sinodiscendenti sono da considerarsi come rami e chioma di uno stesso albero. In questa immagine lo studioso vuole da un lato ribadire l’origine culturale comune, ma dall’altro vuole anche rappresentare le comunità sinodiscendenti d’oltremare come più vitali (rami carichi di verdi foglie) della Cina continentale stessa.3)Tu Weiming, The Living Tree: The Changing Meaning of Being Chinese Today (Stanford: Stanford University Press, 1994). Il suo lavoro in questo ambito, difatti, risale a un momento di grande sviluppo economico di aree come Singapore, Hong Kong, Taiwan, prima della grande crisi asiatica del 1997, e si sofferma sulla previsione di una modernizzazione culturale e rilettura del concetto stesso di cinesità proprio a partire dalla periferia, in questo caso le comunità sinofone d’oltremare, in contrapposizione con il centro, ovvero la RPC, che all’epoca era guardata con sfiducia e sospetto a livello internazionale per via degli ancora recenti fatti di Piazza Tian’anmen del 1989. Si coglie immediatamente come, pur seguitando a definire la cinesità come un valore svincolabile dalla cultura cinese centrale dominante, come già proposto da Wang Gungwu e Lynn Pan, Tu Weiming non vada comunque a metterne in dubbio l’esistenza concreta e tangibile, anzi in un certo senso proponga una visione per cui la cinesità dei sinodiscendenti sia da considerarsi ancora più autentica di quella dei cinesi continentali stessi, la cui cinesità sarebbe stata invece contaminata dal comunismo. A queste prime importanti riflessioni, seguono nella seconda metà degli anni Novanta reazioni ancora più radicali che puntano verso una vera e propria decostruzione della cinesità.

Il dibattito, infatti, prosegue nella seconda metà degli anni Novanta con la messa in discussione del concetto stesso di cinesità, che sbiadisce anche in considerazione dello sviluppo di nuovi modelli con cui analizzare i diversi tipi di mobilità dalla Cina verso il resto del mondo. L’articolo “Fuck Chineseness” del 1996 di Allen Chun, ricercatore dell’Academia sinica di Taiwan, si posiziona in maniera radicale contro il concetto di cinesità, in aperta e diretta critica all’idea di Tu Weiming che si possa parlare dell’esistenza di una “Cina culturale”, slegata da qualsiasi territorialità, ma con una sua realtà ontologica, su cui si possono misurare diversi gradi di autenticità. Chun è tra i primi a focalizzare l’attenzione al tema specifico della cinesità dei soggetti di origine cinese all’estero impegnandosi in un ragionamento che separi i concetti di nazionalità, etnia, cultura e identità cinese fino a quel momento spesso sovrapposti in questo dibattito. Nel suo articolo, che poi verrà sviluppato successivamente nel volume Forget Chineseness, Chun suggerisce che l’identità etnica (e quindi la cinesità) dovrebbe essere considerata situazionale, ovvero solo in relazione al contesto specifico in cui si esprime (oggi forse diremmo fluida).4)Allen Chun, “Fuck Chineseness: On the Ambiguities of Ethnicity as Culture as Identity”, Boundary 2, 23, 2, 1996, 111-138; Allen Chun, Forget Chineseness (Albany: Suny Press, 2017).

La provocazione di Chun trova riscontro nel campo dei critical cultural studies, tanto che, sul finire degli anni Novanta, la “cinesità” diventa un vero e proprio tema di dibattito anche al di fuori degli studi di area. Tra le voci più autorevoli di questa discussione, si ricorda quella di Rey Chow, cresciuta tra Hong Kong e gli Usa e oggi affiliata alla Duke University, che nel suo articolo “On Chineseness as a Theoretical Problem” raccoglie l’invito alla decostruzione dell’idea di cinesità, e analizza come tale concetto sia tenuto in piedi parimenti da presupposti orientalisti insiti nel discorso culturale “occidentale” sulla Cina e da quella che lei definisce la logic of the wound, ovvero una forma di vittimismo intriso di nazionalismo che sottenderebbe a gran parte del discorso culturale cinese odierno.5)Rey Chow, “On Chineseness as a Theoretical Problem”, Boundary 2, 25, 3, 1998, 1-24. La riflessione di Chow è ben radicata nei classici della critica post-coloniale e spinge contro l’essenzialismo culturale dispiegato in funzione politica in opposte direzioni, mettendo a fuoco il pregiudizio (negativo o positivo a seconda dei casi) riguardo all’eccezionalismo cinese, ovvero all’idea che la cultura cinese (e le dinamiche a essa legate) abbia delle specificità che la distinguono da qualsiasi altra cultura.

In chiusura di millennio il dibattito si allontana sempre di più dal concetto di nazione, se non proprio di territorialità, e percorre strade nuove rispetto anche a quelle più tradizionali degli studi sulla migrazione e sulla diaspora. Questo percorso risente certamente anche dei cambiamenti geopolitici e socioeconomici globali che hanno influito sulle diverse mobilità dalla Cina verso il resto del mondo in chiusura di secolo. I lavori di Aihwa Ong ben evidenziano come i vecchi paradigmi degli studi sulla migrazione (e in parte anche quelli post-coloniali, che presuppongono sempre un centro e un margine, un solo colonizzatore e un solo colonizzato) non risultino più utili di fronte a nuove forme di mobilità multidirezionale come quelle che lei riferisce alla transnational Chinese experience, in cui a trovarsi in una dimensione deterritorializzata, ma culturalmente connotata, non sono solo migranti lavoratori, ma anche elite di businesspeople, che negoziano la loro cinesità su un piano transnazionale.6)Aihwa Ong, Flexible Citizenship: The Cultural Logics of Transnationality (Durham: Duke University Press, 1999); Aihwa Ong, Donald Nonini, Ungrounded Empires: The Cultural Politics of Modern Chinese Transnationalism (New York: Routledge, 1997).

Il dibattito di fine anni Novanta sulla cinesità include ancora molti altri contributi ed è estremamente vivace, tuttavia finisce poi per esaurirsi, almeno temporaneamente, con la messa in crisi più generale del concetto stesso di identità etnica, che viene, insieme ad altri costrutti sociali e culturali, messo in profonda discussione al volgere del millennio. L’introduzione dell’asse di osservazione transnazionale, delle routes che diventano roots, da una parte, e il riconoscimento delle identità ibride e non binarie, della inbetweenness, dall’altra, fanno sì che il dibattito si allontani sempre più dal tentativo di definire in cosa consista un background culturale “cinese” in senso astratto, per allacciarsi invece a parametri più inequivocabili quali gli usi linguistici, che vengono esplorati con maggiore attenzione nel loro relazionarsi alle varie espressioni di cinesità all’estero. Ien Ang, studiosa di origine indonesiana formata in Europa e oggi affiliata presso la University of Western Sydney, dopo aver contribuito al dibattito sulla cinesità con l’influente articolo “Can One Say No to Chineseness?”, pubblica nel 2001 il volume On Not Speaking Chinese, in cui esplora ulteriormente questioni relative all’identità dei sinodiscendenti, mettendole però in relazione proprio all’utilizzo (o all’impossibilità di utilizzo) della lingua cinese.7)Ien Ang, “Can One Say No to Chineseness? Pushing the Limits of Diasporic Paradigm”, Boundary 2, 25, 3, 1998, 223-242; Ien Ang, On Not Speaking Chinese: Living between Asia and the West (London: Routledge, 2001).

Ma è sicuramente il lavoro di Shu-mei Shih a monopolizzare il discorso globale su cinesità e lingua a partire dagli anni Zero. Con Visuality and Identity, infatti, Shih inaugura il campo della sinofonia o studi sinofoni (Sinophone studies), ovvero una prospettiva critica che ricalca in parte il modello degli studi francofoni, occupandosi dunque della produzione culturale in lingua cinese al di fuori dalla Cina continentale, come anche della produzione culturale in lingua cinese delle minoranze di lingua non cinese all’interno della Cina stessa (come uiguri e tibetani).8)Shu-Mei Shih, Visuality and Identity (Berkeley: University of California Press, 2007). L’idea trainante dei Sinophone studies è che il cinese non sia da recepire come una lingua e/o una cultura unitaria, ma come una famiglia di lingue e culture, con le proprie specificità locali. Questa cornice interpretativa, svincolando l’espressione in lingua cinese dalla Cina centrale, permette di localizzare definitivamente le espressioni culturali in lingua cinese delle varie minoranze sparse per il mondo, valorizzandone le specificità, scindendo definitivamente la questione linguistica da quella identitaria e culturale. La raccolta di articoli contenuta nel volume Sinophone Studies: A Critical Reader del 2012 ha avuto un importante impatto sul dibattito circa i contorni dell’identità cinese in epoca contemporanea.9)Shu-Mei Shih, Sinophone Studies: A Critical Reader (New York: Columbia University Press, 2012). Con i Sinophone studies, Shih cerca di estendere diverse questioni già sollevate da Jing Tsu e David Der-Wei Wang in importanti volumi come Global Chinese Literature e Sound and Script, quali in primis l’importanza di valorizzare in modo indipendente la produzione letteraria in lingua cinese fuori dalla Cina, legandola a un dibattito non solo strettamente letterario, ma più ampiamente culturale, critico e politico, che includa e muova dal riconoscimento di dinamiche coloniali e di abuso del potere istituzionale tuttora in atto.10)Jing Tsu, David Der-Wei Wang, Global Chinese Literature: Critical Essays (Leiden: Brill, 2010); Jing Tsu, Sound and Script in Chinese Diaspora (Cambridge: Harvard University Press, 2010).

Il dibattito circa la cinesità nel corso dell’ultimo decennio ha continuato da un lato a svincolarsi definitivamente dal concetto di nazione e dalla lettura semplificante di dipendenza delle periferie dal centro e dall’altro a perdere centralità (ed eccezionalità), trasformandosi sempre più in uno tra gli elementi nell’inventario di strumenti utili ad analizzare espressioni culturali situate. In questa direzione, la categoria di cinesità rimane vitale nell’analisi di specifiche forme letterarie sinofone in diversi contesti geografici,11)Cfr. p. es. Asheley Thorpe, Diana Yeh (a cura di), Contesting British Chinese Culture (London: Palgrave Macmillan 2018); Obert Hodzi (a cura di), Chinese in Africa: ‘Chineseness’ and the Complexities of Identities (London: Routledge, 2019); Chang-Yau Hoon, Ying-Kit Chan (a cura di), Contesting Chineseness: Ethnicity, Identity, and Nation in China and Southeast Asia(Singapore: Springer, 2021). oppure nelle più recenti riflessioni sugli usi linguistici di soggetti sinodiscendenti12)Cfr. p. es. Wei Li, “Complexities of Chineseness: Reflections on Race, Nationality and Language”, Language & Communication, 78, 2021, 35-39; Andrew D. Wong, His-Yao Su, Mie Hiramoto, “Complicating Raciolingistics: Language Chineseness and the Sinophone”, Language & Communication, 76, 2021, 131-135. o ancora in approfondimenti riguardo questioni identitarie più ampie.13)Cfr. p. es. Howard Chiang, Ari Larissa Heinrich, Queer Sinophone Cultures (Bosa Roca: Routledge, 2017); Lily Wong,Transpacific Attachments: Sex Work, Media Networks, and Affective Histories of Chineseness (New York; Columbia University Press, 2018). Le proteste di Hong Kong del 2019 prima e la polarizzazione del discorso riguardante la Cina in concomitanza con la diffusione del Covid dopo hanno rivitalizzato la discussione intorno all’idea di cinesità. In queste nuove riflessioni, convivono sia modelli interpretativi che propongono una concettualizzazione dell’identità etnica sempre più ibrida e fluida, che modelli incentrati proprio sulla contestazione della razzializzazione di soggetti di origine asiatica (anche in risposta all’ondata globale di sinofobia), quindi sulla decostruzione attiva e militante dell’idea di cinesità.

Letteratura sinoitaliana o letteratura della cinesità?

 Ho definito altrove la letteratura sinoitaliana, o letteratura dei sinoitaliani, come la produzione letteraria di persone cinesi o sinodiscendenti che risiedono stabilmente in Italia. Questo corpus di scritti è plurilingue, è principalmente espresso in putonghua e italiano standard, ma in parte presenta anche incursioni in varietà dialettali e forme miste. Nel definire questa produzione letteraria, si sceglie dunque di utilizzare una prospettiva ispirata a quella dei Sinophone studies, valorizzandone la situatezza in relazione al vissuto di chi li produce, a prescindere dalla lingua in cui sono espressi e dal luogo in cui sono pubblicati. Si tratta di una produzione identificata evidentemente su base etnica, dunque, a partire dal background culturale dei suoi autori e autrici. Scelgo di utilizzare concetti come etnia e identità culturale non per suggerire che ne esista un referente tangibile e concreto, ma per sfruttarne le potenzialità di strumenti critici che permettono di analizzare come specifiche soggettività e gruppi producano interi sistemi di interpretazione della realtà proprio in relazione e a partire da questi concetti. Nel distinguere i lavori di questo corpus dal resto della produzione letteraria italiana si sceglie dunque di evidenziare la specificità dell’esperienza sinoitaliana, caratterizzata da determinati contatti, intrecci e negoziazioni tra riferimenti valoriali diversi, tradizionalmente attribuiti alle culture italiane e cinesi. In questo modo, da un lato ci si sforza di includere voci solitamente marginalizzate, e dall’altro, mettendo in primo piano l’esperienza sinoitaliana, possiamo meglio riflettere sui suoi contorni e osservarne le forme e le specificità.

Tratto più evidente della produzione scritta sinoitaliana è la pervasività del tema della cinesità. Considerando quanto sia vivace il dibattito globale intorno a tale tema, non stupisce che la quasi totalità degli scritti di cinesi e sinodiscendenti in Italia vi abbia a che fare. Quello della cinesità, della perdita della cinesità, o dell’assenza di cinesità, infatti, come abbiamo visto è un tema estremamente presente nelle comunità sinodiscendenti di tutto il mondo. Questo tema solo in parte si può mettere in relazione a una generale etnicizzazione (o autoetnicizzazione), pur comune, che si riscontra in altri scrittori di origine straniera attivi in Italia. Molti autori della letteratura italiana della migrazione incentrano i propri lavori sulla cultura di origine, ma in termini generali nei loro lavori ci si interroga su come tale cultura di origine possa conquistare il suo posto nella società italiana. Per contro, il racconto sinoitaliano si sviluppa principalmente sulla nostalgia della cultura di origine e sulla sfida del mantenimento e preservazione di tale cultura di origine, in un contesto che invece tenterebbe incessantemente di cancellarla. Si tratta di due punti di vista diversi, dunque, quasi opposti, uno che esige l’inclusione e l’altro che aspira all’esclusione.

Un elemento da prendere certamente in considerazione nel valutare queste due diverse prospettive è la particolare estrazione socioculturale di chi, cinese o sinodiscendente in Italia, pubblica libri, racconti o poesie. Solo una parte trascurabile di autori e autrici sinoitaliani appartiene alla classe sociale cui appartengono la grande maggioranza degli immigrati cinesi in Italia (e buona parte degli scrittori della letteratura italiana della migrazione). I lavori pubblicati da cinesi e sinodiscendenti in Italia oggi provengono per lo più dalla penna di persone con percorsi sui generis, spesso individui di medio o alto livello culturale, attivi nell’ambito dell’educazione (Gao Liang, Zhai Ran, Yang Xiaping, Mao Wen, Lala Hu), dell’impresa, della politica, dei media e dello spettacolo (Hu Lanbo, Marco Wong, Shi Yang Shi, Angelo Ou, Zhang Changxiao). Il particolare posizionamento a livello socioculturale di tali autori e autrici alimenta una percezione ben diversa del proprio ruolo nella negoziazione identitaria tra autore e lettore, rispetto a scrittori migranti di estrazione socioculturale più modesta. Cina e Italia, inoltre, non hanno un trascorso storico profondamente caratterizzato dall’esperienza coloniale, cosa che, ad esempio, influenza molto la produzione di diversi autori e autrici di origine africana della letteratura italiana della migrazione. Anche questo è un elemento che incide in maniera radicale sul posizionamento dello scrittore nei confronti del lettore e agisce sulle dinamiche di potere che definiscono il ruolo di autori e autrici sinoitaliani all’interno della e rispetto alla società e cultura italiana contemporanea.

L’assoluta centralità del tema della cinesità nella letteratura sinoitaliana è dunque senza dubbio una sua caratteristica, tanto che sono pochissimi i testi scritti da sinoitaliani che non abbiano in essa la loro principale ragione d’essere (ricordo qui il romanzo erotico di Marco Wong Nettare rosso e il racconto di fantascienza di Alessandro Zhu 2083, quest’ultimo tra i vincitori della prima edizione del concorso letterario Cinarriamo, indetto da Orientalia Libri).14)Marco Wong, Nettare Rosso: Storia di un’ossessione sessuale (Roma: Compagnia delle Lettere, 2011); Alessandro Zhu “2083”, in Cinarriamo (Roma: Orientalia, 2019), 65-91. È interessante notare come il tema della cinesità sia un tema trattato anche in alcuni lavori di scrittori e scrittrici che non hanno origine cinese. È il caso del racconto autobiografico di Benedetta Renier, Diecimila chilometri più in là, in cui il rapporto tra cultura italiana e cinese è tratteggiato a partire da esperienze personali; ma la cinesità è anche un tema cui in tempi recenti hanno dato attenzione anche autori del tutto estranei all’esperienza sinoitaliana, usando la cinesità come topos letterario. Esempi di questo trattamento letterario della cinesità, ma forse sarebbe più opportuno dire della sinofobia, ricorrono in diversi romanzi noir pulp pubblicati sul finire degli anni zero e parzialmente ascrivibili alla New Italian Epic, quali Cinacittà: Memorie del mio delitto efferatodi Tommaso Pincio e La seconda mezzanotte di Antonio Scurati.15)Benedetta Renier, Diecimila chilometri più in là (Castrolibero: Talos, 2020); Tommaso Pincio, Cinacittà: Memorie del mio delitto efferato (Torino: Einaudi, 2008); Antonio Scurati, La seconda mezzanotte (Milano: Bompiani, 2019). Su questa specifica produzione letteraria italiana della cinesità (quella prodotta da individui non sinodiscendenti) lavorano da diversi anni gli italianisti Mark Chu (University College Cork) e Zhang Gaoheng (University of British Columbia). Sarebbe auspicabile far dialogare diverse prospettive disciplinari riguardo alla rappresentazione della cinesità nella letteratura italiana contemporanea (comprendendo anche quella in lingua cinese), così da indagarne i contorni in maniera ancora più completa e fruttuosa.

Nella produzione scritta dei sinoitaliani si possono delineare alcuni filoni in relazione a come vi viene trattato il tema della cinesità. Tra i diversi approcci, i più comuni sono quello che descrive la cinesità come un immaginario collettivo atavico; quello che racconta la cinesità come un repertorio di conoscenze e abilità da confrontare e trasmettere; e quello che esprime la cinesità come natura, così definendola a livello individuale o sociale. Presento di seguito alcuni esempi per ciascun approccio.

Diversi scritti di sinoitaliani fanno riferimento alla cultura tradizionale dei popoli cinesi, soprattutto al suo ricchissimo patrimonio letterario e folklorico che costituisce una sorte di immaginario collettivo atavico per chi viene educato nell’universo culturale cinese. L’autore Mao Wen in questo ambito ha pubblicato diversi lavori, alcuni dei quali in versione bilingue italiano e cinese. Si tratta sia di racconti o brevi romanzi ispirati a leggende cinesi, che però vengono reinterpretati in modo personale dall’autore, oppure di storie originali altrettanto ricche di riferimenti a storie tradizionali cinesi. Analogamente la scrittrice Yang Xiaping ha pubblicato sue riscritture di miti cinesi, anche in questo caso con testo cinese a fronte, così come ha fatto Zhai Ran. La casa editrice Cina in Italia, diretta dalla scrittrice e giornalista Hu Lanbo, sta correntemente pubblicando una intera collana di libri in italiano per bambini dedicata proprio a questo tipo di storie. L’insistenza sul folklore e sul patrimonio culturale tradizionale cinese è una costante di molta letteratura di sinodiscendenti, non solo in Italia. Si tratta comunque di forme situate di auto-orientalizzazione, che nascono dalla condizione di dislocamento dalla Cina. Come osservato da Shih Shu-mei, la nostalgia verso la Cina è un topos forte nella sinofonia, ma si tratta di una nostalgia che scaturisce dal contesto che evoca il senso di dislocamento, una nostalgia che viene espressa anche da chi, pur nato da genitori cinesi, non ha neppure mai vissuto in Cina.16)Shu-Mei Shih, “The Concept of the Sinophone”, PMLA, 126, 3, 2011, 709-718, 715. Quella raccontata negli scritti italiani sarebbe dunque, secondo questa prospettiva, un tipo di nostalgia italiana o, più precisamente, sinoitaliana.

Un’altra tipologia di testi molto comune tra quelli pubblicati da sinoitaliani è quella che rimanda all’osservazione, indicizzazione e comparazione delle culture italiana e cinese. In questi testi la cinesità è concepita come un repertorio di conoscenze, abilità, valori, discreti e ben definiti, da mettere in relazione con corrispettivi non cinesi (italiani, ma a volte anche genericamente “occidentali”). Questo confronto avviene sia nella trasmissione/traduzione degli elementi di cinesità a lettori non cinesi, che nella presentazione di elementi culturali non cinesi a lettori cinesi. Questo approccio è rintracciabile in vari volumi che raccolgono articoli di giornale, o reportage di taglio pseudo-giornalistico. Alcune sono vere e proprie raccolte di articoli pubblicati in precedenza sulla stampa in lingua cinese, come avviene per il volume Yidali Yidali 意大利, 意大利 (Italia, Italia) di Wan Zimei 万子美, oppure per quello dei tre giornalisti Liu Ruting 刘儒庭, Shi Kedong 史克栋 e Wen Chengde 温承德, San ge Zhogguoren yan zhong de Yidali  三个中国人眼中的意大利 (L’Italia agli occhi di tre cinesi). Altri lavori, pur condividendo un simile approccio, sono più vicini al memoir o alla letteratura di viaggio, a seconda di come l’autore o autrice percepiscono la propria permanenza in Italia. È il caso, ad esempio, del memoir di Li Shuman 李叔蔓 Binfen Luoma 缤纷罗马 (Variopinta Roma) e di quello di Hu Lanbo 胡兰波 Shuo zou jiu zou! 说走就走! (Prendo e me ne parto!).17)Wan Zimei 万子美, Yidali Yidali 意大利, 意大利 [Italia, Italia] (Beijing: Waiwen chubanshe, 2012); Liu Ruting 刘儒庭, Shi Kedong 史克栋, Wen Chengde 温承德, San ge Zhogguoren yan zhong de Yidali 三个中国人眼中的意大利 [L’Italia agli occhi di tre cinesi] (Milano: Fondazione Italia-Cina, 2008); Li Shuman李叔蔓, Binfen Luoma 缤纷罗马 [Variopinta Roma] (Beijing: Guoji wenhua, 2002); Hu Lanbo 胡兰波, Shuo zou jiu zou! Cong Beijing dao Luoma 说走就走!从北京到罗马 [Prendo e me ne parto! Da Pechino a Roma] (Beijing: Zhongguo huaqiao chubanshe, 2015). Nel primo l’autrice, a partire dalla sua esperienza di immigrata cinese in Italia che negli anni riesce a emanciparsi socialmente, pur scegliendo di esprimersi unicamente nel contesto sinoitaliano sinofono, traccia una personale cartografia delle differenze culturali tra Cina e Italia e offre consigli e informazioni a chi voglia seguire le sue tracce. Nel secondo, la giornalista punta a creare un autoritratto di donna cosmopolita, che si muove disinvoltamente tra sistemi valoriali distinti, quello europeo (francese e italiano) e quello cinese, mettendone in luce differenze e similitudini. Bamboo Hirst in questo filone pubblica un libro di ricette cinesi romanzate, in cui l’autrice racconta pietanze cinesi ed elementi della dietologia tradizionale mettendole in relazione al proprio vissuto personale e facendosi portavoce di questi scampoli di cinesità presso i lettori italiani. La stessa Bamboo Hirst ha inoltre pubblicato due diari dei suoi viaggi in Cina, Il mondo oltre il fiume dei peschi in fiore Cartoline da Pechino, in cui enfatizza le specificità culturali dei luoghi che racconta.18)Bamboo Hirst, Il mondo oltre il fiume dei peschi in fiore: viaggio attraverso La Cina (Milano: Mondadori, 1989); Bamboo Hirst, Cartoline da Pechino: emozioni e colori cinesi (Milano: Feltrinelli Traveller, 1994).

Un’altra forma che questo approccio tassonomico alla cinesità così comune negli scritti sinoitaliani può assumere è quella del testo informativo di taglio pseudo-saggistico. Ad esempio, in questa tipologia di scritti si potrebbe includere il lavoro di Angelo Ou L’altra metà del cielo, che vuole ricostruire la storia dei primi cinesi che si stabilirono in Italia negli anni Trenta prendendo come elemento centrale della narrazione le donne (italiane e cinesi) che sono state protagoniste di quella storia. Le graphic novel di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, Primavere e autunni e Chinamen, analogamente, ricostruiscono la storia del flusso migratorio cinese dal Zhejiang verso Milano. Un ultimo esempio di questi scritti sono anche i volumi di Zhang Changxiao 张长晓 (alias Sean White), Gaogui de xuezi 高贵的靴子 (Lo stivale prezioso) e La costellazione del dragone. Si tratta di una sorta di prontuari per cinesi (il primo) e per italiani (il secondo) volti a “spiegare” proprio le differenze culturali che l’autore sembra implicare creino difficoltà di convivenza e comprensione tra questi due gruppi di persone.19)Angelo Ou, L’altra metà del cielo (pubblicato in proprio, www.ilmiolibrokataweb.it, 2020); Ciaj Rocchi, Matteo Demonte, Primavere e autunni (Padova: BeccoGiallo, 2015); Ciaj Rocchi, Matteo Demonte, Chinamen, Un secolo di cinesi a Milano (Oderzo: Becco Giallo, 2018); Zhang Changxiao 张长晓, Gaogui de xuezi: Women cheng zhang zai Yidali 高贵的靴子: 我们成长在意大利 [Lo stivale prezioso: Noi che siamo cresciuti in Italia] (Beijing: Chaohua chubanshe, 2018); Sean White (Zhang Changxiao), La costellazione del dragone: I segreti delle Chinatown italiane (Milano: Piemme, 2020).

La cinesità è infine concepita e raccontata in diversi altri scritti sinoitaliani come vera e propria natura, componente essenziale e ineluttabile dell’individuo di origine cinese, quasi si trattasse di elemento biologico (forse un’eco del mito della consanguineità). Questo trattamento della cinesità si ritrova in scritti più tipicamente narrativi rispetto a quelli ricordati fino ad ora, in cui i personaggi, talvolta costruiti su base autobiografica, si animano intorno a dinamiche di attrazione o conflitto motivate proprio dall’esistenza stessa della cinesità. Quasi a formare un sottogenere, tanti di questi scritti raccontano di coppie interculturali. È il caso di Qing chen 轻尘 (Polvere leggera) di Gao Liang 高梁, che racconta la storia di una donna cinese finita in Italia dopo varie vicende che si scopre attratta da un avvocato italiano neo-divorziato, evento che la getta in confusione, oppure di Yuan jia Ouzhou 远嫁欧洲 (Matrimonio all’italiana) di Zhai Ran 翟然, che insiste sulle difficoltà vissute da una donna cinese nel rapporto con la famiglia italiana del marito, dove non è apprezzata per motivi di distanza culturale. Anche le storie più apertamente autobiografiche come Petali di orchidea di Hu Lanbo, in cui l’autrice racconta la sua vita con il marito italiano, o Blu Cina di Bamboo Hirst, che racconta la relazione tra la madre cinese e il padre italiano dell’autrice, o ancora Luoma tiankong xia 罗马天空下 (Sotto il cielo di Roma) di Long Santiao 龙三条 (alias Chen Xi), che racconta la relazione tra l’autrice, pechinese, e suo marito di Benevento, sono costruite insistendo sull’attrazione e conflitto tra natura cinese e italiana.20)Gao Liang 高梁, Qing chen 轻尘 [Polvere leggera] (Hangzhou: Zhejiang wenyi chubanshe, 2014); Zhai Ran 翟然, Yuan jia Ouzhou远嫁欧洲 [Matrimonio all’europea] (Beijing: Zhongguo huaqiao chubanshe, 2000); Hu Lanbo, Petali di orchidea (Siena: Barbera, 2012); Bamboo Hirst, Blu Cina (Casale Monferrato: Piemme, 2005); Long Santiao 龙三条 (alias Chen Xi), Luoma tiankong xia 罗马天空下 [Sotto il cielo di Roma] (Xi’an: Shanxi shifan daxue chubanshe, 2010).

In questo tipo di narrazione, la cinesità (o la sua assenza) è di fatto la protagonista e la ragione d’essere dell’intreccio e dell’opera. Mentre in queste storie, però, il conflitto tra cinesità e non cinesità si dispiega sul piano privato e familiare, in altri racconti questa dialettica raggiunge una dimensione sociale, di gruppo, e per certi versi politica. Si tratta ad esempio del caso di Cuore di seta, di Shi Yang Shi, racconto autobiografico in cui l’autore rivendica con fatica e sofferenza il suo diritto a rinunciare a parte della sua cinesità, a superarla, in un percorso di empowerment individuale, ma anche sociale, che coinvolge anche la presa di coscienza della sua omosessualità.21)Shi Yang Shi, Cuore di seta: la mia storia Made in China (Milano: Mondadori, 2017). Anche nei lavori di Deng Yuehua 邓跃华, scrittore immigrato operaio di origine fujianese residente in Veneto, la sua cinesità è l’elemento che determina la sua eterna estraneità alla società italiana. A differenza del romanzo di Shi Yang Shi, però, nei lavori di Deng Yuehua il conflitto tra individuo e aspettative sociali non viene consumato interiormente, ma risulta in una testarda e orgogliosa ostentazione della propria inassimilabilità. I personaggi dei racconti e romanzi di Deng Yuehua sono flâneurs transnazionali, eterni vagabondi, protetti da un’armatura di cinesità. Non soffrono della loro esclusione dal contesto sociale in cui vivono, anzi arrivano a tratti a farne un vanto (in modo non troppo dissimile dai personaggi della nota serie tv dei primi anni Novanta Beijingren zai Niuyue 北京人在纽约). Come negli altri scritti menzionati in queste pagine, anche per quelli di Shi Yang Shi e di Deng Yuehua è la cinesità dei protagonisti a motivare le storie raccontate.

Cinesità: opportunità o prigione?  

La produzione letteraria sinoitaliana con ogni probabilità continuerà a godere dell’attenzione di chi nel racconto della cinesità si identifica o di chi ne è incuriosito. Potrà approfittare di piattaforme dedicate alla scrittura migrante, sia in Italia che in Cina, e di spazi preclusi ad altre forme letterarie. Al contempo, però, potrebbe essere difficile sia per i nuovi che per i più esperti autori sinoitaliani liberarsi dalle aspettative dei lettori proprio riguardo alla centralità della cinesità nella loro narrazione. Al di là del futuro destino degli autori e autrici e dei loro lavori, però, mi sembra opportuno interrogarci anche su come questa produzione, che tra l’altro non è solo letteraria, ma anche visuale, performativa, etc., possa contribuire oggi all’evoluzione della letteratura e cultura contemporanea italiana in generale.

Nella sua componente più didattica e culturalista (quella della cinesità come immaginario collettivo e come repertorio di conoscenze), una produzione italiana sulla cinesità alimenta una riflessione sulla non omogeneità della cultura italiana stessa. Misurandosi con una tradizione culturale prestigiosa come quella cinese, anche se mitificata, e incorporandola, la cultura italiana ripete il processo di contatto, confronto e inclusione tra culture che ne ha da sempre costituito la sua stessa natura, contribuisce ovvero a demistificare l’idea di una cultura italiana non ibrida, astorica e asituata. Se si accoglie il corpus letterario sulla cinesità, sia quello in italiano che in cinese, prodotto da chi, sinoitalian*, si posiziona all’interno della cultura italiana, a prescindere dagli ascoltatori a cui parla (siano questi cinesi in Italia, cinesi in Cina e quant’altro), all’interno di un canone letterario italiano (della letteratura transculturale? della letteratura meticcia?), lo si può attivare come strumento (forse persino come metodo) per contribuire a “decolonizzare” l’intera letteratura italiana.

La letteratura sinoitaliana della cinesità nella sua componente più identitaria, conflittuale, invece, può giocare un ruolo nell’evoluzione della cultura italiana contemporanea nel suo interrogarsi sulla validità dell’opposizione tra modelli culturali e nella sua ricerca di modelli di sintesi e conciliazione, ibridi e fluidi. Può contribuire a mettere in discussione certi modelli culturali e identitari offerti come statici e indiscutibili, alimentando una riflessione e dialogo che vanno ben al di là della questione dell’incommensurabilità della cultura “cinese” rispetto a tutte le altre, dell’eccezionalità, puntando anzi a smontare l’opportunità stessa di continuare a misurarsi con modelli identitari essenzialisti in ogni ambito culturale e sociale.

Pedone, Il racconto della cinesità PDF

Immagine: Teng Ai, Vacanze pratesi, 2019.

Valentina Pedone è professoressa associata di lingua e letteratura cinese presso l’Università di Firenze, dove coordina l’unità di ricerca SILC (SinoItalian Links and Crossroads). Si interessa di contatti culturali tra Cina e Italia e di produzione culturale di sinoitaliani. Correntemente dirige il progetto VulCa 2021 (con Zhang Gaoheng) volto a valorizzare la voce delle vittime di attacchi sinofobici in Italia e Canada in seguito alla pandemia di Covid-19.

References
1 Wang Gungwu, “Greater China and the Chinese Overseas”, The China Quarterly, 136, 30, 1993, 926-948.
2 Lynn Pan, Sons of the Yellow Emperor (New York: Little Brown, 1990); Lynn Pan (a cura di), The Encyclopedia of the Chinese Overseas (Surrey: Curzon, 1998).
3 Tu Weiming, The Living Tree: The Changing Meaning of Being Chinese Today (Stanford: Stanford University Press, 1994).
4 Allen Chun, “Fuck Chineseness: On the Ambiguities of Ethnicity as Culture as Identity”, Boundary 2, 23, 2, 1996, 111-138; Allen Chun, Forget Chineseness (Albany: Suny Press, 2017).
5 Rey Chow, “On Chineseness as a Theoretical Problem”, Boundary 2, 25, 3, 1998, 1-24.
6 Aihwa Ong, Flexible Citizenship: The Cultural Logics of Transnationality (Durham: Duke University Press, 1999); Aihwa Ong, Donald Nonini, Ungrounded Empires: The Cultural Politics of Modern Chinese Transnationalism (New York: Routledge, 1997).
7 Ien Ang, “Can One Say No to Chineseness? Pushing the Limits of Diasporic Paradigm”, Boundary 2, 25, 3, 1998, 223-242; Ien Ang, On Not Speaking Chinese: Living between Asia and the West (London: Routledge, 2001).
8 Shu-Mei Shih, Visuality and Identity (Berkeley: University of California Press, 2007).
9 Shu-Mei Shih, Sinophone Studies: A Critical Reader (New York: Columbia University Press, 2012).
10 Jing Tsu, David Der-Wei Wang, Global Chinese Literature: Critical Essays (Leiden: Brill, 2010); Jing Tsu, Sound and Script in Chinese Diaspora (Cambridge: Harvard University Press, 2010).
11 Cfr. p. es. Asheley Thorpe, Diana Yeh (a cura di), Contesting British Chinese Culture (London: Palgrave Macmillan 2018); Obert Hodzi (a cura di), Chinese in Africa: ‘Chineseness’ and the Complexities of Identities (London: Routledge, 2019); Chang-Yau Hoon, Ying-Kit Chan (a cura di), Contesting Chineseness: Ethnicity, Identity, and Nation in China and Southeast Asia(Singapore: Springer, 2021).
12 Cfr. p. es. Wei Li, “Complexities of Chineseness: Reflections on Race, Nationality and Language”, Language & Communication, 78, 2021, 35-39; Andrew D. Wong, His-Yao Su, Mie Hiramoto, “Complicating Raciolingistics: Language Chineseness and the Sinophone”, Language & Communication, 76, 2021, 131-135.
13 Cfr. p. es. Howard Chiang, Ari Larissa Heinrich, Queer Sinophone Cultures (Bosa Roca: Routledge, 2017); Lily Wong,Transpacific Attachments: Sex Work, Media Networks, and Affective Histories of Chineseness (New York; Columbia University Press, 2018).
14 Marco Wong, Nettare Rosso: Storia di un’ossessione sessuale (Roma: Compagnia delle Lettere, 2011); Alessandro Zhu “2083”, in Cinarriamo (Roma: Orientalia, 2019), 65-91.
15 Benedetta Renier, Diecimila chilometri più in là (Castrolibero: Talos, 2020); Tommaso Pincio, Cinacittà: Memorie del mio delitto efferato (Torino: Einaudi, 2008); Antonio Scurati, La seconda mezzanotte (Milano: Bompiani, 2019).
16 Shu-Mei Shih, “The Concept of the Sinophone”, PMLA, 126, 3, 2011, 709-718, 715.
17 Wan Zimei 万子美, Yidali Yidali 意大利, 意大利 [Italia, Italia] (Beijing: Waiwen chubanshe, 2012); Liu Ruting 刘儒庭, Shi Kedong 史克栋, Wen Chengde 温承德, San ge Zhogguoren yan zhong de Yidali 三个中国人眼中的意大利 [L’Italia agli occhi di tre cinesi] (Milano: Fondazione Italia-Cina, 2008); Li Shuman李叔蔓, Binfen Luoma 缤纷罗马 [Variopinta Roma] (Beijing: Guoji wenhua, 2002); Hu Lanbo 胡兰波, Shuo zou jiu zou! Cong Beijing dao Luoma 说走就走!从北京到罗马 [Prendo e me ne parto! Da Pechino a Roma] (Beijing: Zhongguo huaqiao chubanshe, 2015).
18 Bamboo Hirst, Il mondo oltre il fiume dei peschi in fiore: viaggio attraverso La Cina (Milano: Mondadori, 1989); Bamboo Hirst, Cartoline da Pechino: emozioni e colori cinesi (Milano: Feltrinelli Traveller, 1994).
19 Angelo Ou, L’altra metà del cielo (pubblicato in proprio, www.ilmiolibrokataweb.it, 2020); Ciaj Rocchi, Matteo Demonte, Primavere e autunni (Padova: BeccoGiallo, 2015); Ciaj Rocchi, Matteo Demonte, Chinamen, Un secolo di cinesi a Milano (Oderzo: Becco Giallo, 2018); Zhang Changxiao 张长晓, Gaogui de xuezi: Women cheng zhang zai Yidali 高贵的靴子: 我们成长在意大利 [Lo stivale prezioso: Noi che siamo cresciuti in Italia] (Beijing: Chaohua chubanshe, 2018); Sean White (Zhang Changxiao), La costellazione del dragone: I segreti delle Chinatown italiane (Milano: Piemme, 2020).
20 Gao Liang 高梁, Qing chen 轻尘 [Polvere leggera] (Hangzhou: Zhejiang wenyi chubanshe, 2014); Zhai Ran 翟然, Yuan jia Ouzhou远嫁欧洲 [Matrimonio all’europea] (Beijing: Zhongguo huaqiao chubanshe, 2000); Hu Lanbo, Petali di orchidea (Siena: Barbera, 2012); Bamboo Hirst, Blu Cina (Casale Monferrato: Piemme, 2005); Long Santiao 龙三条 (alias Chen Xi), Luoma tiankong xia 罗马天空下 [Sotto il cielo di Roma] (Xi’an: Shanxi shifan daxue chubanshe, 2010).
21 Shi Yang Shi, Cuore di seta: la mia storia Made in China (Milano: Mondadori, 2017).