Modelli tradotti, metabolizzati, decostruiti: fare conceptual history in Cina

Nei suoi studi sulle radici della modernità europea, lo storico tedesco Reinhart Koselleck (1923-2006) coniò con successo il termine Sattelzeit (periodo-sella) per indicare il processo di “scavallamento” intellettuale che, tra il 1750 e il 1850, trasformò l’universo concettuale continentale, creando un nuovo lessico politico in risposta alle trasformazioni sociali dell’età delle rivoluzioni.1)Reinhart Koselleck, Begriffsgeschichten (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 2006). Nelle intenzioni di Koselleck, che con le sue ricerche si inseriva nella corrente metodologica della “storia dei concetti”, divenendo l’autorità della sua declinazione tedesca (Begriffsgeschichte), l’analisi del fermento di quegli anni – in cui concetti fondamentali e al contempo complessi come “libertà”, “democrazia”, “politica”, “rivoluzione”, “religione”, venivano ridefiniti, “temporalizzati” lungo una visione lineare e progressista della storia, “popolarizzati” tramite le nuove tecnologie di diffusione mediatica e infine amalgamati in grandi costruzioni ideologiche – si poneva l’obiettivo principale di investigare in particolare le radici della Sonderweg (“via speciale”) seguita dalla nazione tedesca nell’età moderna. In altre parole, dissezionare i concetti-chiave di quei decenni tramite una analisi attenta della produzione intellettuale anche “minore” (concentrandosi non solo sulle opere dei grandi pensatori, dunque, come nella più classica delle “storie intellettuali”, ma includendo anche giornali, riviste, pamphlet, scritti legali, enciclopedie e dizionari, testi storiografici o religiosi), avrebbe permesso di definire, con uno sguardo attento sia alle componenti intellettuali che a quelle socio-economiche e politiche, le radici del totalitarismo nazista e metabolizzarne in modo ragionato la tragica esperienza storica.

Questa cornice teorica e questo impianto metodologico sono stati utilizzati, negli anni successivi, anche in contesti non tedeschi, aprendosi a spazi e interpretazioni diverse (un esempio su tutti: la scuola di Cambridge guidata da Quentin Skinner, attenta a calare i concetti nella loro dimensione linguistica e “discorsiva” più che nella longue durée delle trasformazioni della società).

Negli ultimi anni, infine, la storia dei concetti ha sperimentato – come tutti i campi di indagine umanistica – una crescente globalizzazione, estendendosi allo studio delle trasformazioni concettuali in contesti non europei e non occidentali, marcando la dimensione circolatoria dei concetti e sottolineando la fondamentale importanza del processo di traduzione degli stessi: non soltanto traduzione linguistica (in particolare, da lingue occidentali/coloniali) ma anche traduzione più ampiamente intesa come il trasferimento da un contesto di riferimenti storici e intellettuali a un altro. In questo senso, la storia dei concetti è di fatto anche la storia dello scambio e della adattazione di “modelli”, e ne riflette plasticamente le complessità, gli squilibri in termini di “potere” e le conseguenze nella evoluzione politica e sociale di un dato contesto.2)Dominic Sachsenmaier e Andrew Sartori, “The Challenge of the Global in Intellectual History”, in Global History, Globally. Research and Practice around the World, a cura di Sven Beckert and Dominic Sachsenmaier (London: Bloomsbury, 2018), 215-231.

Prendendo in prestito le parole di Hagen Schulz-Forberg, nella sua introduzione alla Global Conceptual History of Asia da lui curata: la storia dei concetti è un approccio“polycentric rather than nation-centric, Western-centric, or indeed anti-Western-centric”, è “an epistemological horizon towards which European and Asian, or indeed any agency and semantics, are related on an equal basis and with equal validity”, e soprattutto costituisce “a multilingual academic practice”.3)Hagen Schulz-Forberg (a cura di), A Global Conceptual History of Asia, 1895-1940 (London: Pickering & Chatto, 2014), 1-2.

Si sottolinea, in questo modo, il carattere circolatorio dei concetti, più che il loro semplice “trasferimento” (generalmente da Occidente a Oriente, seguendo il presunto percorso della “modernità”). E in questo senso, la metodologia racconta “surprising stories of where concepts first originated, how they travelled to new contexts, only to return to reanimate the original contexts with new cultural, political, and biological valences”, come efficacemente sottolineato da Banu Subramanian.4)Banu Subramaniam, “Like a Tumbleweed in Eden. The Diasporic Lives of Concepts”, Contributions to the History of Concepts, 14, 1, 2019, 1-16.

Non stupisce, dunque, che la storia dei concetti abbia incontrato un crescente favore anche in campo sinologico: e in effetti, il periodo che va dal tardo Ottocento agli anni Venti del ventesimo secolo si presta perfettamente a essere osservato come una Sattelzeit cinese.5)Kai Vogelsang, “Conceptual History: A Short Introduction”, Oriens Extremus, 51, 2012, 9-24.

Di fronte al collasso dell’ordine imperiale – non soltanto della sua forma istituzionale, ma soprattutto delle sue modalità di legittimazione interne ed esterne – la necessità di riscrivere i modelli culturali e politici portò in quei decenni a un inedito fermento intellettuale, con la ridefinizione di alcuni concetti classici e l’introduzione di concetti del tutto nuovi, mutuati dall’esperienza occidentale, e spesso mediati dall’incontro giapponese con la “modernità” a partire dal 1868.

Nella temperie di quegli anni, si combatté una lotta in cui diverse forze sociali e gruppi di interesse contrapposti tentarono di “guidare” la ridefinizione di concetti e modelli per affermare l’egemonia su di essi (Schulz-Forberg). In altre parole, l’universo concettuale cinese venne sconvolto dall’esigenza di ridefinirne parametri e contenuti, in un processo in cui la traduzione (non solo linguistica, ma più complessamente “concettuale”, come si è detto prima) di modelli politici stranieri gioca un ruolo di primo piano, sebbene sempre in connessione con dinamiche interne di reinterpretazione e adattamento del patrimonio intellettuale “tradizionale”.

È in questo quadro interpretativo che recenti studi hanno messo in luce le dinamiche di appropriazione, contestazione, riarticolazione cinese di concetti come “democrazia”, “nazione”, “razza”, “società”, “religione”.6)Si vedano, ad esempio: Kai Vogelsang, “Chinese ‘Society’. History of a Troublesome Concept”, Oriens Extremus, 51, 2012, 155-192; Zhang Fengyang & Sun Jiang, Yazhou jinianshi yanjiu (Beijing: Sanlian shudian, 2013); Dominic Sachsenmaier, “Chinesische Begriffe der Gesellschaft zwischen der ausgehenden Qing-Zeit und den 1920er Jahren”, Moving the social, 52, 2014, 199-221; Marc A. Matten, Imagining a Postnational World. Hegemony and Space in Modern China (Leiden: Brill, 2016); Ivo Spira, A Conceptual History of Chinese –isms: the Modernization of Ideological Discourse, 1895-1925 (Leiden: Brill, 2015). Tale percorso di ricerca è stato seguito anche in Cina, sebbene più marginalmente. Due sono gli esempi principali: il monumentale studio di Jin Guangtao e Liu Qingfeng sulle trasformazioni concettuali durante il passaggio tra epoca imperiale e repubblicana7)Jin Guantao e Liu Qingfeng, Guannianshi yanjiu (Beijing: Falü chubanshe, 2009). e il lavoro ancora in corso di traduzione in cinese delle opere di Reinhart Koselleck a opera di Sun Jiang dell’Università di Nanchino.

Tuttavia, nonostante questi studi pionieristici e nonostante il relativo successo ottenuto in Europa e America, la diffusione della storia dei concetti nella Repubblica popolare si è scontrata, e continua a scontrarsi, con difficoltà peculiari, ben sintetizzate da Kai Vogelsang nella sua introduzione al numero speciale di Oriens Extremus dedicato all’utilizzo della Begriffsgeschichte nel contesto cinese.

Innanzitutto, la visione tradizionale del linguaggio propria del Classicismo confuciano, secondo cui il cambiamento linguistico è un allontanamento dal “corretto significato” delle parole, così come racchiuso e suggerito dalla loro forma scritta. Per citare direttamente le osservazioni di Vogelsang in merito:

Beginning with the Shuowen jiezi, Chinese (and later Japanese and Korean) scholars have excelled at analyzing the characters’ structure; they have scrutinized the shades of their meaning (namely, the words they represent), documented calligraphic variants, and traced their evolution from the earliest epigraphic forms. In this field, East Asian scholarship is second to none. However, this strong philological tradition has apparently obscured the difference which is fundamental to conceptual history: that between concepts and words. A concept, generally speaking, is a generic mental image abstracted from percepts or directly intuited from thought. It is certainly not the same as the word that expresses it, much less the character that represents the word. Yet, these categories are still often confused in East Asian studies.8)Vogelsang, “Conceptual History”, 14.

Sebbene si tratti di una visione sfidata frontalmente all’inizio del ventesimo secolo dalla visione “moderna” del cambiamento (linguistico, sociale e culturale) sfociata nel Movimento per la Nuova Cultura e divenuta poi l’ossatura del pensiero rivoluzionario novecentesco – la pratica del zhengming ha fino a quel momento storico impedito una lettura dei concetti come entità fisiologicamente in movimento, favorendo invece lo sguardo sul loro aspetto “normativo” e sul modo migliore per giungere alla loro “corretta stabilizzazione” sotto forma di modelli.

Una concezione della lingua che si accompagnava a una filosofia della storia costruita sulla validità universale e atemporale dei principi morali in essa contenuti, e dunque, anche qui, terreno poco fertile per la messa in luce di mutazioni e trasformazioni come dinamiche inevitabili del processo storico.

Se questa eredità tradizionale ha reso difficile la creazione di un humus favorevole alla storia concettuale, vi sono poi problemi eminentemente contemporanei, legati non più al focus sul “cambiamento” (pienamente maturato con l’esperienza rivoluzionaria), quanto alla natura “corrosiva” della conceptual history. Essa, di fatto, relativizza le grandi costruzioni ideologiche, mettendo inevitabilmente a nudo il processo di costruzione artificiosa di ogni sistema teorico-politico e la sua transitorietà. In questo senso, il Partito Comunista Cinese non sembra comprensibilmente guardare con favore, né tantomeno incoraggiare, una metodologia dagli esiti inevitabilmente de-sacralizzanti.

Il potere, uno o diviso? Modelli di organizzazione dello Stato a confronto

Obiettivo del presente contributo è quello di guardare a tale processo di riscrittura del “modello”, o dei “modelli”, dell’ordine politico cinese, avvenuto tra la fine della dinastia Qing e l’avvio della stagione repubblicana, utilizzando come punto di osservazione un concetto specifico, o meglio una opposizione concettuale (e più concretamente politica) tra due modelli di organizzazione dello stato: “centralismo” e “federalismo”.

La tensione tra un centro di gravità primario e luoghi/agenti di potere locale o periferico è un elemento costante – quasi strutturale – di qualunque ordine politico. Anche qualora non sia teorizzata o concettualizzata in maniera limpida e articolata, tale “negoziazione” appare come un fenomeno inevitabile, laddove più attori si contendano forme simboliche e pratiche di autorità e di legittimità.9)Sabine Dabringhaus e Jeroem Duindam hanno offerto di recente una affascinante storia comparativa/globale di questo fenomeno, guardando alle dinamiche centro-periferia in diversi contesti imperiali, inclusa naturalmente la Cina: The Dynastic Centre and the Provinces. Agents and Interactions, a cura di Jeroen Duindam e Sabine Dabringhaus (Leiden: Brill, 2014).

Fin dalla prima unificazione imperiale a opera della dinastia Qin, il terreno ideologico e culturale cinese si è mostrato particolarmente fertile per teorie di chiaro stampo centralista. La visione del tianxia come universo organizzato gerarchicamente attorno a un centro di gravità culturale indiscutibile; l’associazione tra frammentazione del potere, caos interno e debolezza esterna; il netto orientamento verso politiche di standardizzazione anziché di tutela del pluralismo (a partire dal campo della lingua scritta e dell’ortodossia culturale); la costruzione di una classe politico-intellettuale al contempo radicata localmente ma culturalmente omogenea, e dunque espressione “microcosmica” del sistema imperiale.10)Youngmin Kim, A History of Chinese Political Thought (Medford, MA: Polity Press, 2018), 114-136. Tutti questi elementi non appartengono solo alla dottrina legista – certamente la più esplicita nel teorizzare la necessità di uno Stato iper-centralizzato come presupposto indispensabile per ottenere stabilità e prosperità – ma che appartengono più in generale al cosiddetto Legismo confuciano, ovvero l’impianto ideologico imperiale sopravvissuto all’alternanza dinastica, alle lunghe fasi di divisione e alle invasioni esterne. Se dal punto di vista pratico, come si è già detto, il ruolo delle province, delle reti locali e dei “corpi intermedi” nel corso della storia imperiale è tutt’altro che trascurabile (anzi, fondamentale: la Cina, di fatto, veniva governato dalla gentry provinciale, più che dalla Corte),11)Si vedano, tra i tanti studi dedicati alle élite locali cinesi, Joseph Esherick, Chinese Local Elites and Patterns of Dominance (Berkeley, CA: University of California Press, 1990); Theresa Man Ling Lee, “Local Self-Government in Late Qing: Political Discourse and Moral Reform”,  The Review of Politics, 60, 1, 1998, 31-53; Zhou Zhenhe, Zhongguo difang xingzhengdu shi (Shanghai: Shanghai renmin chubanshe, 2005). dal punto di vista teorico, e dunque del “modello” di ordine politico, le istanze periferiche e locali non trovarono mai forme ideologiche di legittimazione simbolica né strumenti istituzionali “pratici” capaci di sfidare e smontare il modello centralista, almeno fino al “risveglio provinciale” del Ventesimo secolo.

 Il modello federale in Cina: un fallimento inevitabile?

Un volume pubblicato nel 2016 a cura di Kavalski e Zolkos, Defunct Federalisms, annovera l’esperienza cinese repubblicana tra le “federal failures”, al fianco ad esempio della Federazione Jugoslava, dell’Etiopia o dell’Indonesia. Nel suo saggio dedicato alla “demonizzazione” del federalismo in Cina, Steven Phillips mostra come le condizioni inizialmente favorevoli alla delocalizzazione del potere politico cinese – una tendenza già iniziata a metà del diciannovesimo secolo, quando per sconfiggere i ribelli Taiping la corte mancese dovette di fatto “appaltare” il potere militare ai governatori delle province centro-meridionali – si siano successivamente scontrate con una serie di ostacoli, sia prettamente politici che intellettuali.12)Steven Phillips, “The Demonization of Federalism in Republican China”, in Defunct Federalisms. Critical Perspectives on Federal Failures, a cura di Emilian Kavalski and Magdalena Zolkos (Aldershot: Ashgate Publishing, 2008), 87-102. Tali difficoltà, inasprite dalle turbolenze di quel delicato tornante storico in cui la ristrutturazione del sistema politico interna andava di pari passo con l’urgenza di proteggere la Cina dalle pressioni esterne, non soltanto hanno portato il modello federale alla sconfitta, ma lo hanno anche condannato a una damnatio memoriae destinata, come si vedrà oltre, a perdurare ancora in età contemporanea.

Ma, se a posteriori è semplice identificare il federalismo cinese come destinato al fallimento, nei primi anni del Ventesimo secolo le circostanze storiche e il clima culturale sembravano suggerire il contrario. Le identità provinciali (definite efficacemente da Skinner come il “tessuto muscolare” dell’identità storica cinese, imprescindibile complemento del più visibile scheletro imperiale) si erano risvegliate e davano corpo alla resistenza sempre più accesa nei confronti del potere mancese. La riscoperta di quei pensatori – Gu Yanwu, Wang Fuzhi, Huang Zongxi – che nel turbolento Diciassettesimo secolo avevano testimoniato, con le loro opere e con le loro scelte individuali, il rifiuto della dominazione straniera in nome dell’orgoglio cinese han, venivano declinate in termini nazionalisti/etnici, sotto l’influenza delle nuove correnti di pensiero giunte dall’Europa.

Con la caduta della dinastia Qing, insomma, i tempi apparivano maturi per una revisione del modello centralista e universalista ereditato dall’ortodossia imperiale in favore di forme più decentrate di organizzazione dello Stato.

Mentre dal suo osservatorio americano Sun Yat-sen parlava esplicitamente di “Stati Uniti Cinesi”, a livello provinciale si moltiplicavano movimenti e network fortemente autonomisti, le cui proposte politiche (spesso molto vaghe dal punto di vista della elaborazione teorica) oscillavano tra indipendentismo estremo (“trasformeremo lo Hunan nella Cuba cinese”, proclamava un attivista locale nel 1910)13)Steve Platt, Provincial Patriots: The Hunanese and Modern China (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2007), 119. e forme di federalismo amministrativo più o meno accentuato, che guardavano a esperienze come la Svizzera o il Regno Unito.14)Jean Chesneaux, “The Federalist Movement in China, 1920-1923”, in Modern China’s Search for a Political Form, a cura di Jack Gray (London: Oxford University Press, 1969), 503-530.

Un interessante esempio di questa “onda federalista” degli anni Dieci e Venti del secolo scorso è fornito dal numero speciale della rivista Gaizao 改造 (titolo ufficialmente tradotto sulla copertina anche in esperanto, La Rekonstruo) pubblicato nel 1921. I quattro contributi che lo compongono mostrano la diversità di approcci nello sforzo intellettuale di inserire il modello federale all’interno discorso concettuale cinese, con un occhio alle esperienze federali straniere e l’altro alla tradizione filosofico-politica cinese.

L’intervento introduttivo di Lan Gongwu 蓝公武,15)Nom de plume di Lan Zhixian (1887-1957). Dopo aver studiato in Giappone e Germania, Lan partecipò al movimento rivoluzionario. Nel 1917 divenne caporedattore della Gazzetta Nazionale (Guomin gongbao) e direttore del Mattino (Chenbao). Nel corso degli anni Venti si avvicinò al marxismo, per poi iscriversi al Partito Comunista. dal titolo “La mia teoria federale” (我的联邦论), tenta di smontare la predominanza storica del centralismo in Cina, mettendo in luce le esperienze provinciali, localiste o anche “feudali” (come nel caso del collegamento con il sistema fengjian di epoca Zhou) che costellano la storia cinese. La colpa di questa rilettura centralista del passato cinese, sostiene Lan, risiederebbe nella influenza giapponese: il rinnovamento Meiji – esso stesso un atto di forte riaccentramento politico – avrebbe metabolizzato, e poi consegnato alla Cina, la modernità europea come inestricabilmente legata a processi di centralizzazione del potere. Nel riallacciarsi al passato imperiale e pre-imperiale (proponendone una lettura alternativa) per dar corpo alla sua teoria federale basata sull’idea di autogoverno locale provinciale, Lan dimostra una delle peculiarità dei concetti identificate da Koselleck, ovvero la loro capacità, rispetto alle semplici “parole”, di tenere insieme – proprio grazie alla loro elasticità, vaghezza e complessità – riferimenti a piani temporali diversi: è quella che viene definita la “sincronicità del non-sincrono,  che permette uno sguardo proiettato verso il futuro (per infondere al concetto una progettualità lineare, fondamentale per la costruzione di ideologie e agende politiche) e al contempo rivolto verso il passato, per allacciarlo alle esperienze pregresse condivise dalla comunità linguistica e culturale, e dunque renderlo comprensibile e fruibile dalla società.16)Reinhart Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1979).

Nell’articolo seguente, Zhang Shizhao 章士钊 (1881-1973) affronta la dicotomia centralismo/federalismo da un punto di vista eminentemente filosofico, coerentemente con il suo profilo intellettuale.17)Due saggi di Zhang dedicati al federalismo (Lianbang lune Xueli shang zhi lianbang lun) erano stati pubblicati nel 1914 e 1915, poco dopo la decisione di Yuan Shikai di smantellare le assemblee provinciali. Con richiami alla dottrina daoista del non fare, Zhang demolisce la retorica dello state building come processo di costante aumento del potere centrale, elogiando invece un percorso di distribuzione e dunque di intelligente diminuzione dello stesso. Ed è proprio “percorso” una parola chiave nella riflessione di Zhang: anche qui identificando una delle caratteristiche dei concetti secondo Koselleck, il federalismo viene “temporalizzato”. Si tratta, in altre parole, di un processo, di un modello in divenire – dalla creazione di componenti federali (bang 邦) alla loro confederazione (banglian 邦联), per poi passare a una federazione (lianbang 联邦) propedeutica a una rinnovata unificazione (tongyi 统一). Il federalismo non sarebbe dunque un assetto statico che è possibile importare e installare sulle macerie del vecchio ordine politico, e soprattutto non va inteso come antitetico alla possibilità di costruire un paese “unito”. Un punto, quest’ultimo, su cui insistono molti dei federalisti cinesi, a riprova di come la predominanza della narrazione centralista appaia chiara anche ai suoi oppositori, impegnati a smussare la conflittualità fra i due modelli.

A seguire, il giurista Zhang Weici 张尉慈, in quegli anni docente di Diritto comparato all’Università di Pechino, offre un interessante spunto che fa da complemento all’articolo di Lan Gongwu. Smontando la narrazione della modernità europea come frutto di processi centralisti, Zhang offre una dotta carrellata di esempi che informano il lettore cinese del fondamentale ruolo delle organizzazioni locali (assemblee cittadine e regionali, federazioni commerciali, associazioni religiose) nella esperienza storica occidentale.

Infine, un taglio più politico e “movimentista” appare nell’ultimo articolo a firma di Sun Jiyi 孙几伊 in cui l’appello federale si salda al lamento per la mancanza di “spirito repubblicano” nel paese, presupposto fondamentale per teorizzare un diverso assetto politico che non cada nella trappola dell’uomo forte o del centro forte.

Il numero speciale di Gaizao dimostra come all’inizio del decennio la partita tra i due modelli politici fosse ancora aperta. Nel giro di pochi anni, tuttavia, lo spiraglio per il federalismo si sarebbe rapidamente chiuso: da una parte, la conversione di Sun Yat-sen al modello del centralismo democratico sovietico; dall’altra la caotica frammentazione del periodo dei signori della guerra, la cui drammaticità non fece che rinforzare l’associazione concettuale tra divisione e debolezza. Non stupisce che il richiamo storico al sistema fengjian sarebbe in quegli stessi anni servito ai marxisti cinesi per tradurre il concetto di “feudalesimo”, dando così il colpo di grazia alla possibilità di rendere il federalismo un progetto dalla allure moderna.18)Si veda Arif Dirlik, “Social Formations in Representations of the Past: The Case of ‘Feudalism’ in Twentieth-Century Chinese Historiography”, Review (Fernand Braudel Center) 19, 3, 1996, 227-267. Nella seconda metà degli anni Venti si affievoliscono dunque le voci federaliste, con poche eccezioni di rilievo: è il caso di Chen Jiongming 陈炯明, esponente di spicco del GMD, governatore del Guangdong che si ribella contro la svolta sovietica di Sun dettata dal Comintern, viene sconfitto e costretto a rifugiarsi a Hong Kong, dove completa nel 1927 la sua Modesta proposta per l’unificazione cinese, di evidente stampo federale e “jeffersoniano”.19)Leslie Chen, Chen Jiongming and the Federalist Movement (Ann Arbor, MI: University of Michigan Press, 2000).

Conclusione: la Cina di Xi e il trionfo del Centro

Le vicende storiche successive al 1949 sembrano dimostrare la resistenza concettuale (e più praticamente “politica”) del modello centralista in Cina. Anzi, la Repubblica Popolare Cinese fu capace di realizzare una unificazione non solo territoriale e ideologica (come in età imperiale) ma anche prettamente amministrativa e istituzionale senza precedenti.

Sebbene in alcune fasi, in particolare negli anni Ottanta e Novanta del Ventesimo secolo, gli spazi lasciati alle sperimentazioni provinciali abbiano suggerito ad alcuni osservatori l’esistenza di un cripto-federalismo in Cina, la condivisione della autorità tra attori politici o amministrativi lungo “canali di legittimazione” diversi e paralleli (aspetto fondamentale del modello federale) non è mai apparsa nell’agenda del Partito comunista. E l’agenda di Xi Jinping sembra marcare una ancora maggiore riaffermazione del centro contro ogni spinta centrifuga. Che si tratti degli spazi di autonomia concessi a Hong Kong, delle attività religiose che sfuggono alla autorità diretta del partito, delle “periferie” geografiche, etniche e culturali che rischiano di ammorbidire la compattezza del paese, finanche della vita interna al partito, la tendenza alla centralizzazione appare ormai come un fil rouge della presidenza Xi.

Paradossalmente, la contrapposizione tra modello centralizzato e modello federale si propone, rovesciata, quando dalla politica interna si passa allo sguardo cinese sulla politica internazionale. In questo caso, già sotto Deng Xiaoping (ma soprattutto con Jiang Zemin e Hu Jintao), la leadership comunista si è posta come portavoce globale della multipolarizzazione del mondo. Contro il “centro americano”, da Pechino si propone un “modello federale” dell’ordine internazionale, costruito su reti, network commerciali (la via della seta), alleanze a geometrie variabili, poli di aggregazione regionale; è lo stesso Xi Jinping, oggi, a ribadire l’importanza di un sistema globale policentrico e polifonico, capace di rappresentare le istanze di tutti gli attori coinvolti, mentre all’interno dei confini nazionali persegue una politica di segno opposto. Una delle voci più interessanti tra i teorici politici cinesi contemporanei, Shi Zhan 施展 (1977-), professore di Relazioni Internazionali presso la China Foreign Affairs University, propone come modello per l’ordine politico globale del 21mo secolo una “nuova lega anseatica”, in cui la Cina non tenta di sostituirsi agli USA come nuovo centro del mondo, ma al contrario collabora per tessere attorno agli scambi commerciali internazionali una rete di regole e principi condivisi.20)Shi Zhan, Po jian: geli, xinren yu weilai 破茧: 隔离,信任与未来 (Changsha: 2020). La traduzione in inglese di una interessante intervista a Shi Zhan è disponibile al seguente link: https://www.readingthechinadream.com/shi-zhan-breaking-through-the-cocoon.html Si tratta di una proposta affascinante, ma anche di un paradosso altrettanto affascinante, che ben si presterà a essere studiata nel futuro prossimo sotto lo sguardo della conceptual history. Rafforzare il centro della nazione e decentralizzare il sistema mondiale: possono, i due modelli che la narrazione politica cinese ha voluto come contrapposti per secoli (centralismo e federalismo, unificazione e divisione, compattezza e porosità, universalismo e localismo), coesistere nell’agenda strategica della Cina del ventunesimo secolo?

Brusadelli, Federalismo vs centralismo PDF

Immagine: Hong Kong anti-extradition bill protest, Studio Incendo

Federico Brusadelli (Roma, 1983) è ricercatore presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove insegna Storia della Cina, e visiting fellow presso lo European Institute for Chinese Studies (Parigi). Dal 2017 al 2020 è stato Ricercatore in Sinologia presso l’Università Friedrich-Alexander di Erlangen (Germania). Le sue ricerche si concentrano sulla storia intellettuale della Cina tardo-imperiale e repubblicana, con una particolare attenzione all’evoluzione del pensiero politico, alla “storia dei concetti” e alla loro circolazione sul piano transnazionale e globale. È autore di una monografia sul pensiero utopistico di Kang Yowuei (“Confucian Concord”), pubblicata da Brill nel 2020. Dal 2016 è Managing Editor della rivista di studi sulla Cina tardo-imperiale “Ming Qing Yanjiu”.

 

 

References
1 Reinhart Koselleck, Begriffsgeschichten (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 2006).
2 Dominic Sachsenmaier e Andrew Sartori, “The Challenge of the Global in Intellectual History”, in Global History, Globally. Research and Practice around the World, a cura di Sven Beckert and Dominic Sachsenmaier (London: Bloomsbury, 2018), 215-231.
3 Hagen Schulz-Forberg (a cura di), A Global Conceptual History of Asia, 1895-1940 (London: Pickering & Chatto, 2014), 1-2.
4 Banu Subramaniam, “Like a Tumbleweed in Eden. The Diasporic Lives of Concepts”, Contributions to the History of Concepts, 14, 1, 2019, 1-16.
5 Kai Vogelsang, “Conceptual History: A Short Introduction”, Oriens Extremus, 51, 2012, 9-24.
6 Si vedano, ad esempio: Kai Vogelsang, “Chinese ‘Society’. History of a Troublesome Concept”, Oriens Extremus, 51, 2012, 155-192; Zhang Fengyang & Sun Jiang, Yazhou jinianshi yanjiu (Beijing: Sanlian shudian, 2013); Dominic Sachsenmaier, “Chinesische Begriffe der Gesellschaft zwischen der ausgehenden Qing-Zeit und den 1920er Jahren”, Moving the social, 52, 2014, 199-221; Marc A. Matten, Imagining a Postnational World. Hegemony and Space in Modern China (Leiden: Brill, 2016); Ivo Spira, A Conceptual History of Chinese –isms: the Modernization of Ideological Discourse, 1895-1925 (Leiden: Brill, 2015).
7 Jin Guantao e Liu Qingfeng, Guannianshi yanjiu (Beijing: Falü chubanshe, 2009).
8 Vogelsang, “Conceptual History”, 14.
9 Sabine Dabringhaus e Jeroem Duindam hanno offerto di recente una affascinante storia comparativa/globale di questo fenomeno, guardando alle dinamiche centro-periferia in diversi contesti imperiali, inclusa naturalmente la Cina: The Dynastic Centre and the Provinces. Agents and Interactions, a cura di Jeroen Duindam e Sabine Dabringhaus (Leiden: Brill, 2014).
10 Youngmin Kim, A History of Chinese Political Thought (Medford, MA: Polity Press, 2018), 114-136.
11 Si vedano, tra i tanti studi dedicati alle élite locali cinesi, Joseph Esherick, Chinese Local Elites and Patterns of Dominance (Berkeley, CA: University of California Press, 1990); Theresa Man Ling Lee, “Local Self-Government in Late Qing: Political Discourse and Moral Reform”,  The Review of Politics, 60, 1, 1998, 31-53; Zhou Zhenhe, Zhongguo difang xingzhengdu shi (Shanghai: Shanghai renmin chubanshe, 2005).
12 Steven Phillips, “The Demonization of Federalism in Republican China”, in Defunct Federalisms. Critical Perspectives on Federal Failures, a cura di Emilian Kavalski and Magdalena Zolkos (Aldershot: Ashgate Publishing, 2008), 87-102.
13 Steve Platt, Provincial Patriots: The Hunanese and Modern China (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2007), 119.
14 Jean Chesneaux, “The Federalist Movement in China, 1920-1923”, in Modern China’s Search for a Political Form, a cura di Jack Gray (London: Oxford University Press, 1969), 503-530.
15 Nom de plume di Lan Zhixian (1887-1957). Dopo aver studiato in Giappone e Germania, Lan partecipò al movimento rivoluzionario. Nel 1917 divenne caporedattore della Gazzetta Nazionale (Guomin gongbao) e direttore del Mattino (Chenbao). Nel corso degli anni Venti si avvicinò al marxismo, per poi iscriversi al Partito Comunista.
16 Reinhart Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1979).
17 Due saggi di Zhang dedicati al federalismo (Lianbang lune Xueli shang zhi lianbang lun) erano stati pubblicati nel 1914 e 1915, poco dopo la decisione di Yuan Shikai di smantellare le assemblee provinciali.
18 Si veda Arif Dirlik, “Social Formations in Representations of the Past: The Case of ‘Feudalism’ in Twentieth-Century Chinese Historiography”, Review (Fernand Braudel Center) 19, 3, 1996, 227-267.
19 Leslie Chen, Chen Jiongming and the Federalist Movement (Ann Arbor, MI: University of Michigan Press, 2000).
20 Shi Zhan, Po jian: geli, xinren yu weilai 破茧: 隔离,信任与未来 (Changsha: 2020). La traduzione in inglese di una interessante intervista a Shi Zhan è disponibile al seguente link: https://www.readingthechinadream.com/shi-zhan-breaking-through-the-cocoon.html