Con un atto senza precedenti, di inaudita gravità, in marzo il governo della Repubblica Popolare Cinese ha decretato il divieto di ingresso e di ogni rapporto con il territorio nazionale (inclusi Hong Kong e Macao) nei confronti di dieci persone (e dei loro congiunti) e di quattro organismi europei, rei di essersi occupati di “temi sensibili” quali le violazioni dei diritti umani ai danni degli uiguri nel Xinjiang. Fra loro vi sono cinque parlamentari europei – Reinhard Butikofer (Verdi), Michael Gahler e Miriam Lexmann (Ppe), Raphael Glucksmann (Socialisti e Democratici), Ilhan Kyuchyuk (Renew Europe) – un esponente politico olandese, Sjoerd Wiemer Sjoerdsma, un deputato del parlamento belga, Samuel Cogolati, una di quello lituano, Dovile Sakaliene, e due studiosi, il tedesco Adrian Zenz e lo svedese Bjorn Jerden, a cui si aggiunge la britannica Jo Smith Finley (Reader in Chinese Studies alla Newcastle University, UK). Le istituzioni sanzionate sono, oltre a quest’ultimo, il Comitato politico e di sicurezza del Consiglio Europeo (CPS) e la sottocommissione per i Diritti Umani del Parlamento comunitario, e inoltre il Mercator Institute for China Studies (MERICS) di Berlino, e lo Swedish National China Centre dello Swedish Institute of International Affairs. L’accusa nei loro confronti è di «aver seriamente danneggiato la sovranità e gli interessi della Cina e volontariamente diffuso menzogne e disinformazione».

Media nazionali che sembrano ormai totalmente proni alla Grande Narrazione del governo della RPC hanno presentato queste sanzioni come una “reazione”, eguale e simmetrica, rispetto alle (caute, moderate e simboliche) sanzioni irrogate dalla UE (che sembra essersi ora destata da un lungo torpore più che trentennale: le sue precedenti sanzioni nei confronti del governo di Pechino risalgono all’89 di Tian’anmen) verso quattro funzionari statali cinesi, ritenuti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Xinjiang. Insomma, secondo questa favoletta mistificante e narcotizzante, si tratterebbe di una banale partita di ping pong. Va invece detto, con la massima chiarezza, che la reazione cinese non è né proporzionata né simmetrica: essa anzi si caratterizza per un’ostentata e deliberata dismisura, in quanto colpisce parlamentari eletti democraticamente, libere istituzioni, liberi ricercatori; è un’ostentazione di potenza (e di prepotenza, e di onnipotenza) ben lontana dalla morigerata prudenza confuciana che ha generalmente caratterizzato la diplomazia cinese, prima dell’avvento di Xi Jinping.

È un greve atto intimidatorio che ha una valenza deterrente, non solo nei confronti della presente libertà di indagine, ma anche nei confronti di quella futura, e che va respinto con grande fermezza, non certo in nome di nuove guerre fredde, e di retoriche virulente, e di sciovinismi e nazionalismi aggressivi, ma proprio per opporsi a tutto ciò, in nome di quel dovere di rimostranza che nella Cina antica si è sempre praticato nei confronti della tracotanza del potere, in nome di quel senso di umanità e giustizia (renyi) che i Classici della civiltà cinese preconizzavano come ideale da realizzare per l’umana ecumene, e che è l’unica base possibile per la fraternità di tutti nel tianxia, «sotto il cielo». E in questo senso, l’Europa, il cui dialogo con la Cina ha una lunga e fertile storia, avrebbe un ruolo importante da svolgere, se si decidesse a diventare a pieno titolo soggetto politico di un mondo che si volesse autenticamente plurale e multipolare.

La comunità accademica internazionale appare oggi conscia dell’importanza della posta in gioco: ne va della libertà di ricerca, attuale e futura, che non è un privilegio corporativo, ma lo spazio delle garanzie di tutte/tutti e di ciascuna/o, la precondizione ineludibile per costruire un mondo in cui non sia sempre la volontà di potenza ad avere l’ultima parola, e non sia sempre la voce dei lupi a prevaricare su quella degli agnelli.

Una Dichiarazione di solidarietà con i ricercatori sanzionati, “Solidarity statement on behalf of scholars sanctioned for their work on China”, sta raccogliendo centinaia di firme nelle università e nei centri di ricerca di tutto il mondo. Invitiamo i nostri lettori a diffonderla e a sottoscriverla.

Questo il link a cui si trova:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSfVfAIPteAVw45newLwTxaWGEaZydE6GPgO_ZyKh0F8-ZrbsQ/viewform?fbclid=IwAR3ZO6ANFfZGBbhsfEI7Li-ZHolTdLUwnslXQQnB4km2tD9sRhpEznl59MM

Eccone la traduzione.

SOLIDARIETÀ AGLI STUDIOSI SANZIONATI PER LE LORO RICERCHE SULLA CINA

Nel marzo 2021, il governo cinese ha annunciato l’imposizione di sanzioni a studiosi dell’Unione Europea e del Regno Unito e alle loro famiglie, includenti divieto di ingresso, blocco dei beni, divieto per cittadini ed enti cinesi di intrattenere rapporti con loro. Si tratta di Björn Jerdén (Direttore dello Swedish National China Center presso lo Swedish Institute of International Affairs), Jo Smith Finley (Reader in Chinese Studies presso la Newcastle University, UK), Adrian Zenz (Senior Fellow in China Studies presso la Victims of Communism Memorial Foundation, USA) e del Mercator Institute for China Studies (MERICS) con sede a Berlino. Queste misure, per le quali il governo cinese non ha fornito alcuna giustificazione giuridica, sono state adottate come ritorsione per ricerche sulla Cina, includenti le violazioni dei diritti umani nella regione autonoma uigura dello Xinjiang. Le sanzioni sono estese alle «istituzioni associate».

Le sanzioni costituiscono l’ultima tappa di un’escalation nel processo di limitazione del dibattito intellettuale che si è verificato negli ultimi decenni, e che ha incluso tentativi di diffamare studiosi non cinesi sui media cinesi controllati dal Partito-Stato, o di negare loro l’ingresso in Cina, così come la persecuzione di ricercatori e la chiusura di spazi di libera ricerca a Hong Kong. Le vittime più vulnerabili di tale persecuzione sono stati gli studiosi cinesi le cui critiche al governo li hanno esposti in alcuni casi a misure estremamente gravi, tra cui azioni disciplinari, licenziamenti, sanzioni penali, detenzione in condizioni inumane. Ne hanno fatto esperienza colleghi che ora vivono in esilio forzato, ma anche intellettuali che sono rimasti in Cina, come il compianto premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, il professor Xu Zhangrun, il professor Ilham Tohti, e molti altri.

Le attuali misure contro studiosi non cinesi prendono di mira singoli individui e istituzioni, ma in tal modo mirano a influenzare l’intera comunità accademica che opera sulla Cina e a suo contatto, nonché le controparti nel mondo accademico cinese. La soppressione del pensiero critico all’interno e all’esterno della Cina è una grave perdita in ogni rapporto con la società cinese, e sminuisce e condiziona il pluralismo dei dibattiti accademici in Cina. Ciò ben si evince dalle dichiarazioni secondo cui non devono esservi «relazioni con studiosi ed enti sanzionati, un divieto che evidentemente limita anche la libertà dei soggetti accademici cinesi».

Non v’è dubbio su chi abbia la responsabilità di questi atti di repressione della libertà accademica. Il governo cinese ha cercato di descriverli come equivalenti alle sanzioni imposte ad alcuni dei suoi funzionari per coinvolgimento in gravissime violazioni dei diritti umani, sanzioni in accordo con il Global Magnitsky Act. Si può discutere di tali misure e della normativa che le sottende, ma non vi è invece alcuna base legale o morale per la persecuzione degli studiosi semplicemente perché denunciano e criticano le violazioni dei diritti umani da parte di un governo potente. Le sanzioni per le violazioni dei diritti umani non si possono paragonare alle sanzioni irrogate a chi ha la sola colpa di esprimersi criticamente.

Detto questo, anche le università e gli istituti di ricerca nelle democrazie liberali hanno la responsabilità di rispondere alla repressione accademica transnazionale e di proteggere il pluralismo di opinioni. Se vogliamo evitare di percorrere la via della separatezza e della contrapposizione, che non gioverebbe a nessuno, è essenziale che le università mettano in atto procedure adeguate allo scopo di creare le condizioni per un impegno costruttivo. Ciò richiede un’effettiva trasparenza sugli accordi firmati con controparti in stati autocratici, conferendo priorità in tutti questi accordi alla libertà di ricerca e insegnamento, pensiero ed espressione, garantendo la significativa consultazione e partecipazione degli accademici che abbiano conoscenza di tali stati nelle decisioni da assumere, riconoscendo e compensando anche i rischi che le sanzioni comportano per gli avanzamenti di carriera del personale che vi è implicato.

Noi sottoscritti studiosi esprimiamo la nostra solidarietà a tutti i nostri colleghi perseguitati. Chiediamo al governo cinese di revocare queste sanzioni ingiustificate, e di accettare che lo studio della Cina, come lo studio di qualsiasi paese, comporti il controllo delle sue politiche, dei suoi obiettivi e delle sue azioni. Ci impegniamo inoltre a continuare a essere inclusivi nel nostro lavoro e a esserlo rispetto a tutte le opinioni accademiche, comprese quelle che il governo cinese sta cercando di emarginare. Chiediamo alle nostre università e ai nostri istituti di ricerca di dimostrare il loro impegno incondizionato per la libertà accademica, e dichiariamo che la strategia di intimidazione che si sta tentando di attuare non avrà successo. È solo promuovendo un dibattito accademico critico e pluralistico che lo studio e la ricerca possono contribuire al bene comune globale.

Originariamente pubblicato su Inchiesta Online alla pagina: http://www.inchiestaonline.it/cina-politica-lavori-diritti/amina-crisma-maurizio-scarpari-vittorio-capecchi-per-la-liberta-accademica-e-di-ricerca-solidarieta-agli-studiosi-colpiti-dalle-sanzioni-del-governo-cinese/