Presentiamo qui il terzo articolo della serie sul Xinjiang, pubblicato il 24 agosto 2020 su Made in China Journal con il titolo “The Spatial Cleansing of Xinjiang: Mazar Desecration in Context” e tradotto in italiano da GioGo.
In un momento compreso fra il 10 e il 17 marzo 2018 è sparito un monumento storico assai amato, situato su un’alta duna di sabbia a 75 km dalla città di Niya (Kuo 2019). Per almeno 450 anni esso aveva attratto pellegrini da tutto il bacino del Tarim (in uiguro: Altishahr), la parte meridionale del quale è oggi nota sotto i nomi di Turkestan Orientale e Sinkiang (Dūghlāt 1996 [1543], 190). Lì, i pellegrini si trovavano al cospetto della tomba dell’imam Je’firi Sadiq, padre fondatore ed eroe, defunto mille anni or sono mentre predicava l’Islam nella madrepatria. Essi piangevano e pregavano ai suoi piedi, venendo benedetti dalla prossimità con il monumento.
La tomba imbiancata era a forma di lapide, ma gigantesca, alta sei metri, posta su una piattaforma di quindici metri quadrati. I pellegrini incidevano i loro messaggi su una cappella di legno nelle vicinanze a forma di scatola, costruita sulla sabbia, lasciando traccia della loro presenza al cospetto del santo proprio nel punto dove s’era avviata la loro società e la loro storia. All’intorno, fra bandiere e strisce di tessuto colorato schioccanti nel vento, migliaia di offerte attaccate ai vari edifici religiosi testimoniavano che folle di fedeli uiguri vi convenivano di anno in anno a venerare la culla delle loro origini e la sua connessione con il divino. I pellegrini vi s’affollavano specialmente ai primi d’autunno, cucinavano i pasti comuni in enormi pignatte e si coricavano nelle vicinanze. A metà marzo del 2018 è sparito tutto, e non resta che una duna spoglia.1)La descrizione si basa sulla visita dell’autore durante la sagra del pellegrinaggio del 2007. Le altre descrizioni di templi dell’articolo si basano sui lavori sul campo dell’autore del 2003, 2004-5, 2007-8, 2010, 2013, 2015 e 2017.
Nei due anni seguenti, lo Stato cinese ha distrutto e profanato luoghi sacri e storici per gli uiguri su scala inaudita nella storia del Turkestan Orientale (Altishahr, Sinkiang), regione sotto il suo controllo. Le demolizioni hanno riguardato le moschee, attirando l’attenzione di buona parte dei media internazionali, ma anche un altro tipo di luogo sacro, meno visibile per gli ignari, ha costituito un punto cruciale della profanazione. Intendiamo il mazar, uno snodo del paesaggio di senso arcano, segno della presenza del divino, ancora più sacro della moschea.
Per molti uiguri inurbati, i mazar sono periferici, irrilevanti, del tutto trascurabili. Ma la maggioranza degli uiguri vive in contesti rurali, dove i mazar rappresentano solitamente una risorsa per la comunità, un archivio della sua storia, un’arena per le diatribe, un attore sociale a sé stante. Al mazar si prega per avere figli o essere risanati. Il pellegrino vi impara la storia dei santi seppelliti sotto l’altare e al contempo quella della sua terra. Le personalità religiose locali vi predicano la loro visione della retta condotta in polemica con le altre. E l’altare prende parte alla vita quotidiana delle comunità, per esempio promettendo la pioggia.
I mazar sono quasi sempre segnalati da una costruzione, che può essere un’alta cupola con le tegole verdi smaltate ma anche nient’altro che un grappolo di bandiere inalberate su ramoscelli ricurvi (Dawut 2001). In maggioranza sono tombe, che si sostiene contengano i resti di persone che in vita conseguirono fama di studiosi, eroi o taumaturghi, guadagnandosi un’immortalità in contiguità con Dio che può però essere condivisa con i viventi. I mazar possono offrire anche altri punti di contatto con il trascendente: alberi o sorgenti sacre, impronte di piedi o luoghi di sosta di santi, punti dove sono scomparse figure religiose importanti. Questi luoghi che non sono sepolture rappresentano un’esigua minoranza fra i mazar, ma testimoniano dell’ampiezza del termine e della potenzialità per certi snodi del paesaggio di diventare sacri in una molteplicità di modi. Indipendentemente dalla forma fisica o narrativa, in pratica il ‘mazar’ denota la più immediata e tangibile manifestazione del sacro in forma materiale e geografica.
Il potere di cui dispone il mazar si manifesta nell’atteggiamento dei pellegrini. Talvolta, le donne che cercano di rimanere incinte raspano nelle fessure del muro o nei buchi sul pavimento del mazar, afferrano la prima cosa che trovano, un grumo di sporco o un pezzo d’intonaco, e l’ingoiano. Questa fede nei poteri della materia fisica del mazar suscitò la riprovazione dei mussulmani riformatori della regione, come il critico Abdu Vali Akhon, vissuto agli inizi del ventesimo secolo, che deprecò i “comuni” pellegrini che “sfregano la faccia e gli occhi sui fianchi degli altari” (Abdu Vali Akhon 1905, 162). Anche un altro riformatore dell’epoca, in visita a Kashgar proveniente dalle terre degli Ottomani, si lamentò di quelli che “sfregano la faccia sulle corna di capra e le code di mucca conservate nei luoghi sacri” (Kemal 1925, 94). I pellegrini più devoti, come uno che incontrai nel 2007 presso una tomba a Yarkand, possono anche dormire dentro il mazar, nella speranza di ricevere l’ispirazione divina mentre sognano.
Sono prerogative queste dei mazar che contrastano in una certa misura con l’atteggiamento verso le moschee. Non sono riuscito a documentare una simile interazione con la struttura materiale di nessuna moschea, neanche quando alla moschea sia connesso un mazar. Qui non si vuole dire che le moschee non siano sacre. Esse forniscono uno spazio di purezza dove i fedeli possono fare le loro devozioni a dio e compiere atti collettivi di devozione che possono anche avere effetti miracolosi. A Kashgar, negli anni dieci di questo secolo, le donne s’allineavano alle uscite della moschea di Id Kah e porgevano il cibo ai fedeli in partenza alitandoci sopra per acquisirne le proprietà curative. Ma qui il potere curativo era generato dalle attività e caratteristiche personali dei fedeli, non dalla sostanza materiale della moschea.
Natura e obiettivi della profanazione
Le autorità del Sinkiang sono evidentemente consce del potere del mazar. Le circostanze in cui si svolse la demolizione dell’Imam Je’firi Sadiq mostrano che fu proprio il mazar ad attirare l’attenzione delle autorità, non già il valore economico della terra sulla quale poggiava. Le dune lontane e desolate sulle quali si trovava il mazar non potevano avere alcuna altra utilità. Altrove, per certi aspetti l’assalto cinese agli spazi sacri ha avuto un incentivo economico. I cento sepolcri distrutti nel Sinkiang nell’ultimo triennio hanno in alcuni casi liberato terreni a vantaggio degli immobiliaristi o dello Stato (Xiao and Yiu 2019; Rivers 2020). Ma la demolizione del Je’firi Sadiq non ha aperto la strada a niente. Essa è stata premio a se stessa, non un sacrificio per il raggiungimento di qualche scopo economicamente redditizio.
Le grandi sagre (seyla) tenute presso certi mazar hanno innervosito le autorità per decine di anni. In tutta la Cina i funzionari hanno sospettato del potenziale dei raduni indipendenti di creare fonti alternative di potere politico o evolvere in protesta. Per decadi, tuttavia, lo Stato ha dimostrato che la demolizione totale di un mazar non è necessaria per prevenire i raduni. Per oltre un ventennio le autorità hanno prevenuto i pellegrinaggi di massa verso l’unico sito più riverito del mazar Je’firi Sadiq, ovvero il mazar Ordam Padishah, situato nel deserto fuori Yengisar. Occasionalmente, qualcuno più fortunato o con le conoscenze giuste è sgusciato di tanto in tanto fra le maglie della polizia (io quando ci ho provato sono stato arrestato), ma si riuscì a impedire che si tenessero le famose sagre dell’Ordam Padishah, con decine di migliaia di partecipanti (Harris and Dawut 2002). In base alle mie stesse visite, posso confermare che successe lo stesso ai mazar Chūje Padishahim (vicino Yengisar), Ujme (vicino Khotan) e, più di recente, Imam Asim (sempre vicino a Khotan). Perfino lo Je’firi Sadiq è stato chiuso al pellegrinaggio in un qualche momento dopo che ero riuscito a visitarlo nel 2007, e fui rimandato indietro quando vi feci ritorno nel 2015. Le demolizioni non sono essenziali per prevenire i pellegrinaggi; esse sembrano essere fine a se stesse.
Il mazar esercita il suo potere anche da dietro gli sbarramenti di polizia e nonostante frotte di spie. Esso entra nei sogni della gente e la guida. Gli si possono chiedere grazie a distanza o mandargli preghiere personali (du’a), come fece sotto i miei occhi uno che era stato rimandato indietro dal mazar Imam Je’firi Sadiq nel 2015. Basta vedere come i mazar spuntino fra le oasi abitate dagli uiguri per capire il legame con la storia e la terra delle comunità. Ho incontrato una delle poche uigure fortunate, che riuscì ad arrivare fino all’Ordam Padishah molto dopo che era stato chiuso; m’ha detto quello che successe quando lei accennò alla sua fortuna, in piedi fuori la moschea del villaggio, settimane dopo: l’uomo col quale stava parlando scoppiò a piangere e l’implorò di dargli un po’ della polvere del mazar che aveva ancora sulla giacca. A giudicare dalle immagini satellitari disponibili, anche l’Ordam Padishah è ormai scomparso (Google Earth 2020, 38.9144°, 76.6567°).
Dopo la parziale distruzione della cattedrale di Notre Dame a Parigi nell’aprile 2019, il governo francese ha stanziato somme enormi per il recupero e continua nelle sovvenzioni. Le pietre precipitate al suolo sono passate al laser. Documenti prima inaccessibili sono ora esaminati alla ricerca di indizi che possano far più luce sulla storia del monumento. Gli scienziati analizzano il piombo della guglia precipitata e ne misurano l’impatto sulle acque della Senna e i dintorni. E squadre di antropologi studiano il trauma subìto dai parigini e i visitatori da tutto il mondo (Lesté-Lasserre 2020).
I molti uiguri il cui rapporto con l’Ordam Padishah non era molto diverso da quello dei parigini e del mondo intero con Notre Dame gradirebbero senz’altro interventi analoghi. Le macerie dell’Ordam contengono molti dati sulla sua storia. Gli archeologi potrebbero datarle con le stesse procedure dendrocronologiche applicate alle assi di legno cadute da Notre Dame. I rifiuti antichi e le offerte lasciate dai pellegrini potrebbero rivelare i cambi nelle procedure di venerazione nei secoli. Dato che molti dei templi nel deserto del Sinkiang giacciono vicino a siti buddisti più antichi, la demolizione dell’Ordam potrebbe aver rivelato tracce di monumenti sacri anche più antichi. È probabile che molti uiguri del Sinkiang non sappiano ancora della demolizione dell’Ordam Padishah; quando l’apprenderanno, il trauma non sarà meno acuto di quello parigino dopo l’incendio dalla cattedrale.
Naturalmente, nel caso dell’Ordam Padishah, la devastazione culturale non è stata accidentale. La distanza più breve fra l’Ordam Padishah e le terre coltivate è di 14 chilometri di sabbia soffice e alte dune. La spesa e lo sforzo richiesti per portare nel deserto l’attrezzatura necessaria a cancellare dalla faccia della terra il complesso di monumenti, moschee, foresterie e tumuli dell’Ordam devono essere stati poderosi. Il recente paradigma degli interventi governativi suggerisce che nel Sinkiang ulteriori abbattimenti e profanazioni siano assai più probabili di restauri, recuperi e riparazioni a cura dello Stato, come invece ci si potrebbe aspettare in un contesto come quello parigino. A Je’firi Sadiq, i terreni attorno l’Ordam Padishah sono restati spogli e inaccessibii, né l’altare è stato rimpiazzato con alcunché; lo scopo sembra essere stato proprio la demolizione di uno dei siti più sacri agli uiguri, come parte di un più vasto progetto statale di ridefinizione e controllo della cultura materiale e della storia uigure.
L’obliterazione totale, sul modello di quella patita dal Je’firi Sadiq e dall’Ordam Padishah, non è il solo pericolo che minacci i luoghi sacri degli uiguri. Essa è stata preceduta dall’ondata di chiusure di mazar dell’ultimo trentennio, un’altra forma di distruzione. I mazar sono costantemente creati e ricreati dal pellegrinaggio. Sono strutture che attirano masse di pellegrini recanti aste di bandiere, strisce di tessuto, corna di ovini, lampade a olio, pelli animali e altre offerte deperibili. Le offerte s’ammucchiano e le aste di bandiere possono talvolta svettare nel cielo a un’altezza di dieci metri. Il lento deterioramento del legno, della stoffa, delle pelli testimonia dell’antichità e della continuità dei pellegrinaggi. Il costante rimbocco di bandiere e pelli manifesta il costante potere del mazar sui devoti e rammenta al pellegrino che le sue devozioni lo collocano entro una più vasta e meno conoscibile comunità che non le cerchie del villaggio natio. La chiusura dei tempi interrompe la produzione costante dei luoghi sacri.
Al mazar dell’imam Asim, vicino Khotan, sembra quasi che le autorità locali condividano la credenza nella reiterazione delle incarnazioni tramite il pellegrinaggio. Foto recenti mostrano che la struttura di adobe della tomba era rimasta intatta fino al 2018 (Marcel Traveller, 2018). Ma ora il sito è irriconoscibile. La moschea che vi era connessa è stata demolita. Il mazar è stato privato delle bandiere, delle offerte, delle ringhiere lignee. La pietra tombale, posta su una piccola costruzione di adobe, che rimaneva in precedenza celata dietro la foresta di bandiere piantate dai pellegrini e di aste legate alle ringhiere di legno sul tetto dell’edificio, ora giace nuda, immobile, scialba, incolore, privata della vivacità delle offerte sacre. Le autorità si sono arrestate a un passo dall’obliterazione totale, ma hanno varcato il recinto di legno che chiude la zona vietata anche ai pellegrini più pii e profanato il mazar strappandogli di dosso l’apparato decorativo fornito dalla venerazione della comunità.
Per i funzionari che ci si sono trovati a stretto contatto prima della chiusura, le attività del mazar e le celebrazioni dei pellegrini avevano rese visibili criticità altrimenti ignote.In particolare al tempo dei pellegrinaggi di massa, i templi si rivelarono una fonte alternativa di legittimazione e autenticità fuori del controllo di Stato. Le folle di pellegrini e i gruppi di preghiera dimostravano – non solo agli osservatori, ma agli stessi pellegrini – il potere suggestivo dell’azione collettiva. La mistura di devoti da regioni distanti aggirava l’onnipresente controllo di Stato sulle comunicazioni a lunga distanza. Anche oltre i grandi raduni dei pellegrini, le devozioni quotidiane, su piccola scala, rivelarono la scarsa presa dello Stato sui rituali della vita quotidiana, la produzione di conoscenza, le cure mediche. Più in generale, le qualità architettoniche, sonore ed estetiche dei templi chiarivano bene che esisteva tutto un mondo alieno dal modernismo autocosciente, dalla società “armoniosa” e totalitaria perseguita dallo Stato cinese.
Storia e fini della profanazione
Le estreme profanazioni e demolizioni sopra descritte dovrebbero essere iniziate nel 2018, ma molte nazioni si erano già interessate ai mazar uiguri, in quanto centri di potere economico e politico. Quando Qianlong, imperatore dei Qing dal 1711 al 1799 conquistò nel 1759 il Turkestan Orientale e l’incorporò nell’impero come una ripartizione amministrativa ad hoc, il “Sinkiang”,2)Ovvero “Nuovo Territorio” (N.d.T.) ordinò che i mazar della regione fossero protetti e, se del caso, restaurati. Tuttavia, nei centocinquant’anni successivi, l’impero Qing procedette spesso a confische delle terre sull’onda delle ribellioni, colpendo in particolare i mazar associati con le fazioni ribelli (Zhang 2016, 130-31). Ciò nondimeno, a parte questi espropri occasionali dei mazar, i Qing non fecero molto per ostacolare i pellegrinaggi e le strutture materiali. Al contrario, i loro sistemi di governo delegato diedero modo alle élite locali di perpetuarsi, e in alcuni casi, anche di promuovere i mazar (Brophy and Thum 2015). Diventarono talvolta mazar anche le tombe degli amministratori legati ai Qing da rapporti di clientelaggio.
Gli amministratori cinesi misero fine al governo delegato alla fine del sec. XIX e avviarono politiche di assimilazione, ma anche allora i mazar sembrano essere ampiamente sfuggiti al loro sguardo. Il primo tentativo di controllo sistematico dei luoghi sacri può essere individuato negli sforzi di Sheng Shicai, il signore della gerra che governò dal 1933 al 1944, di burocratizzare le proprietà fondiarie dei mazar, che egli confiscò integralmente a metà degli anni Trenta (Sugawara 2016, 155; Zhang 2016, 132). Furono di nuovo le proprietà fondiarie che attirarono sui mazar l’attenzione dello Stato negli anni cinquanta, allorché il Partito Comunista Cinese, appena giunto al potere, confiscò le terre e fece del clero un ceto di impiegati statali (Wang n.d.). Il personale fu via via ridotto, finché, durante la Rivoluzione Culturale, i mazar di tutto il Sinkiang vennero completamente chiusi.
Con l’attenuazione delle restrizioni delle attività culturali e religiose negli anni Ottanta, i mazar tornarono alla vita in due modi. Alcuni, come Ordam Padishah, ebbero un revival spontaneo di sagre e pellegrinaggi popolari. Altri, di cui l’esempio più famoso è Afaq Khoja a Kashgar, furono musealizzati e convertiti dallo Stato in attrazioni turistiche. In questa musealizzazione consistette la prima ondata ostile ai mazar nella Cina dell’età delle riforme.
La museificazione di Afaq Khoja, un tempo luogo di grandi raduni, ridusse il pellegrinaggio a un rigagnolo. I pochi contadini che potevano permettersi il biglietto d’ingresso, piuttosto caro, del mazar, si trovavano in un luogo sacro senza autorità religiosa, un ambiente secolarizzato privo di offerte in mostra, un santuario zeppo di turisti cinesi han, venditori di souvenir e guide. I raduni dei pellegrini e le attività notturne furono totalmente bandite. Il cimitero di Altunluq (“dorato”) a Yarkand, il mazar del sultano Sutuq Bughrakhan a Artush e quello di Yusup Khas Hajip a Kashgar non riscossero lo stesso favore fra i turisti, ma i pellegrinaggi diminuirono lo stesso. L’importante mazar di Eshabulkehf, vicino a Turpan, ha continuato a ricevere un po’ più pellegrini (ma senza grandi raduni), forse per una politica dei biglietti d’ingresso meno severa e più accessibile, con esenzioni in certi casi per la gente del luogo.
Alla fine degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, dato che i pellegrinaggi s’erano intensificati nei mazar che avevano evitato la museificazione, le autorità cominciarono a imporre restrizioni. Misero il biglietto d’ingresso allo Imam Asim (2 yuan) e allo Imam Je’firi Sadiq (50 yuan) e vararono in quest’ultimo rigorose misure di registrazione dell’identità personale. La chiusura nel 1997 dell’Ordam Padishah è la prima documentata dell’era delle riforme, ma ne seguirono altre. Intorno al 2008 le autorità chiusero i templi of Ujme (a Khotan) e di Chūje Padishahim (a Yengisar), che ospitavano vasti raduni. Intorno al 2015, i grandi raduni di pellegrini cessarono completamente in tutto il Sinkiang.
Le demolizioni e le profanazioni iniziate nel 2018 hanno lasciato finora indenne la maggior parte dei mazar minori. Centinaia o forse migliaia di mazar piccoli punteggiano ancora la geografia sacra del Sinkiang. Essi forniscono parte delle stesse funzioni devozionali e miracolose dei mazar più famosi, senza promuovere grandi raduni né costruire comunità attorno a sé. Le foto satellitari suggeriscono che anche una manciata di mazar storicamente più significativi, con cupole imponenti, sono stati risparmiati, in particolare i due famosi luoghi sacri di Yarkand, Chilten e Muhemmed Sherip. Agli inizi di questo secolo, Chilten attirava nei giorni di mercato e durante le festività un flusso regolare di pellegrini, ma senza mai ospitare grandi raduni del tipo di quelli che portarono alla chiusura di altri mazar. Tuttavia, in una fase di criminalizzazione di gran parte delle attività religiose, le restrizioni o le chiusure de facto colpiscono tutti i mazar.
Finora, a essere stati rasi al suolo e profanati erano stati i mazar che attiravano grandi folle, godevano di fama regionale e non erano museificati. Le mie ricerche sul campo fra i pellegrini condotte fra il 2003 e il 2017, insieme alla documentazione storica, suggeriscono che di tutte le centinaia o migliaia di mazar uiguri, cinque godevano di fama eccezionale e storicamente radicata di santità (tav. 1). La demolizione dell’Imam Jafiri Sadiq e dell’Ordam Padishah ha cancellato dalla carta geografica due di questi veneratissimi mazar. I restanti tre sono sopravvissuti materialmente come destinazioni musealizzate per i cinesi han e i turisti stranieri. Di questi cinque siti, l’Ordam Padishah, demolito di recente, era spesso definito, sia dai pellegrini viventi sia dalle fonti storiche, il luogo più santo del Turkestan Orientale (Jarring 1935).
Le autorità da un lato distruggono i monumenti storici uiguri, dall’altro promuovono strutture pseudoreligiose loro proprie, erette a partire dagli anni Ottanta ma che di regola pretendono di essere antiche.Per esempio, nel 1994 fu eretto a Kashgar il Parco Memoriale di Ban Chao (Ban Chao Jinian Gongyuan 班超纪念公园), che poi s’ampliò divenendo negli anni Dieci di questo secolo l’Area Paesaggistica della Città di Pantuo (Pantuocheng jingqu 盘橐城景区), un parco con statue, rilievi e modelli a grandezza naturale (presunta) di antiche fortificazioni cinesi. Il parco commemora la conquista e l’effimero controllo della regione da parte della dinastia degli Han Orientali nel periodo dal 73 al 102 d.C., a opera del generale cinese Ban Chao (Millward 2009, 24). Il memoriale e il parco pretendono di coprire l’area delle fortificazioni originali di Ban Chao. I turisti cinesi da tutto il paese sono incoraggiati a visitare il Centro d’Educazione Patriottica (Aiguo Zhuyi Jiaoyu Jidi 爱国主义教育基地), dove apprendono la concezione statale della comunità nazionale a predominanza han, in un modo che ricorda quando i pellegrini uiguri imparavano la storia della loro comunità al mazar Ordam Padishah. Riconoscendo che il biglietto d’ingresso nuoceva alla qualifica di sito da pellegrinaggi, le autorità hanno di recente reso gratuito l’accesso (Xu 2018).
Il contesto contemporaneo
La profanazione dei mazar fa parte di un più ampio dispositivo politico mirante a radere al suolo l’ambiente edificato uiguro, riconfigurarne la geografia e sradicare gli agganci spaziali della cultura uigura. Qui non è possibile dare l’enumerazione completa delle politiche cinesi di riconfigurazione spaziale, semplicemente perché sono troppe; qualche esempio basterà lo stesso a dimostrare l’incredibile scala degli sforzi statali per rimpiazzare l’ambiente edificato uiguro e svellere dalla geografia le espressioni di cultura uigura che vi sono comprese. Come mostreranno gli esempi, quasi nessun aspetto della vita uigura è rimasto indenne, lasciando capire che gli attacchi dello Stato contro i punti culturali nodali, quali tipicamente i mazar, sono parte di un più ampio sforzo per sconnettere esperienze e identità uigure dal paesaggio.
La recente ondata di abbattimenti e profanazioni di moschee importanti, comprese quelle importantissime di Karghalik e Keriya, ha fatto seguito a un’ampia campagna di “rettifica” iniziatasi alla fine del 2016, durante la quale, secondo Wang Jingfu, presidente del Comitato per gli Affari Etnici e Religiosi di Kashgar, fu demolito circa il 70% delle moschee di Kashgar, insieme con un numero ignoto in altre parti del Sinkiang (Hoshur 2016). L’abbattimento delle moschee è seguita da presso dall’introduzione del divieto di pregare in pubblico, che ha lasciato le case e le moschee gli unici spazi consentiti rimasti per le pratiche religiose. Ciò significa che l’abbattimento delle moschee ha rappresentato una contrazione degli spazi religiosi anche peggiore di quella che ci sarebbe stata in condizioni normali.
Di fatto, anche le case e le moschee sono diventate insicure per gli oranti, a causa del combinato di sorveglianza e detenzione arbitraria messo in atto. Il programma è detto fang-hui-ju (访惠聚), abbreviazione di fang minqing (访民情), hui minsheng (惠民生) e ju minxin (聚民心), ovvero “verificare3)Il testo inglese reca “inspect”, ma il verbo cinese fang significa “far visita” (N.d.T.). le condizioni di vita del popolo, interessarsi al benessere del popolo e raccogliere il sentimento popolare”, ha inviato un milione di funzionari governativi cinesi han nelle case degli uiguri, consentendo il monitoraggio delle attività religiose uigure domestiche (Byler 2018; Dipartimento per gli Interventi del Fronte Unito del Sinkiang 2017b). Nelle moschee, le telecamere di sorveglianza hanno ulteriormente stretto il cappio al collo degli oranti. Le autorità usano l’assiduità alla preghiera come un indicatore di inaffidabilità e finiscono per mandare gli oranti più assidui nei campi di detenzione e indottrinamento. Un documento trapelato clandestinamente mostra che il solo fatto di avere membri della propria famiglia coinvolti in troppe attività religiose può portare alla detenzione (Zenz 2020).
Anche le case vengono trasformate fisicamente. Gli organi di stampa statali cinesi hanno spesso pubblicato rapporti ufficiali sui tentativi di cambiare l’arredamento delle case uigure. Di solito si prende esplicitamente di mira il supa (il tukang 土炕4)Il kang, diffuso nella Cina rurale nordorientale, è una specie di stube, ovvero un forno inserito in un muro di mattoni, sopra al quale ci si siede e ci si sdraia. cinese), una piattaforma rialzata, di regola riscaldata dal basso, sulla quale gli uiguri pranzano e dormono. Tuttavia, in molti rapporti sono menzionati altri tipi di mobili per tutta la casa e la completa trasformazione dell’arredamento casalingo, come parte della campagna per un “bel cortile di casa” (meili tingyuan 美丽庭院). I supa fanno spesso parte della struttura delle case e la loro rimozione è complessa. Essi servono come grandi letti comuni, condivisi da vari membri della famiglia, e sono usatiper una gamma d’attività che vanno dal ricevimento degli ospiti ai compiti di scuola. Il passaggio ai letti di tipo occidentale limitati al sonno da solo o con un solo contubernale muta profondamente le interazioni in seno alla famiglia. Le autorità ne sono consapevoli, facendo notare che adulti e bambini devono dormire separati (Xinjiang Minsheng Net, 2018) e sollecitando gli uiguri a “cambiare le loro brutte abitudini, p. es. giacere sul tappeto, mangiare e dormire sul supa, farci i compiti” (Zero Distance Awat, 2019).
Sono svariati i gruppi etnici nelle aree rurali della Cina settentrionale, inclusi gli han, che usano i supa, e anche la regione del Gansu ha avuto la sua campagna per la “riforma del supa” (tukang gaizao 土炕改造). Le diverse modalità con cui i funzionari attuano e rappresentano la “riforma del supa” nel Gansu e nel Sinkiang fa capire come quelli del Sinkiang adottino e riformulino politiche governative generali in modo da farne strumenti per la trasformazione della cultura uigura. Nel Gansu, la riforma del supa è attuata come una politica per la protezione ambientale, e mira a ridurre le emissioni dei fuochi di carbone che riscaldano i supa (Zheng 2017). Nella maggioranza dei casi, lo scopo è passare dai supa riscaldati a carbone a supa elettrici, spesso con la concessione di sussidi (Gansu Daily Net, 2019).
Invece nel Sinkiang non si ricorre alla giustificazione ambientale e i supa vengono rimossi piuttosto che convertiti. Al suo posto, come ha mostrato Timothy Grose (2020) analizzando gli articoli della stampa ufficiale, i funzionari hanno messo una narrazione di incivilimento che definisce arretrato e incivile l’arredamento delle case uigure.Il funzionario uiguro più alto in grado del Sinkiang, Shohret Zakir, ha esposto quest’atteggiamento in un suo commento sui media di Stato con queste parole:
“solo quando i contadini, specialmente quelli delle aree più povere del Sinkiang meridionale [dove vive la maggioranza degli uiguri, N.d.A.], avranno sperimentato di persona i benefici dello stile di vita moderno, potremo far sì che la vita incivilita penetri a fondo nelle loro anime … i dirigenti e i quadri di base … inducano i contadini ad abbandonare un po’ per volta le abitudini arretrate e a vivere modernamente” (Xinjiang Daily, 2018).
Nel frattempo, in un paradigma simile a quello della museificazione dei mazar, lo Stato distrugge i villaggi uiguri col sistema di trasformarli in attrazioni turistiche. I supa, rifatti e irriconoscibili, stanno adesso per strada, nel set cinematografico a uso turistico che ha preso il posto della città vecchia di Kashgar. Prima della demolizione del centro urbano uiguro di Kashgar, avvenuta fra il 2001 e il 2017, le case tradizionali avevano perlopiù facciate anonime, con finestrelle e avari elementi decorativi. Per contrasto, gli interni erano cortili verdeggianti, con elaborati lavori d’ebanisteria, colonne e saloni interni dove s’aprivano nicchie intricate che esponevano ceramiche. La nuova Kashgar ha rivoltato la casa uigura come un calzino. Lungo una delle nuove strade i supa sono diventati appoggi per giare e teiere. Un’antica colonna, probabilmente di spoglio da un cortile interno distrutto, troneggia ora davanti a una porta d’ingresso. I presunti “costumi arretrati”, sempre più fuori portata per gli stessi uiguri, rallegrano ora la vista dei turisti han che sono condotti nella nuova “città vecchia” su auto elettriche.
Fra il 2000 e il 2016, Kashgar è stato l’unico centro storico urbano uiguro a essere completamente abbattuto e ricostruito. In altre città, uno sviluppo immobiliare più frammentario ha piuttosto trasformato ed eroso a poco a poco l’ambiente urbano uiguro (Kobi 2016), e non ci sono molte prove di una campagna statale di demolizioni dei quartieri storici uiguri nella scala di Kashgar. Nondimeno, le immagini satellitari mostrano che negli anni seguenti il 2016, le autorità hanno sovrinteso alla distruzione, totale o parziale, delle città vecchie di Khotan, Yarkand, Kargalik, e Keriya (Google Earth, 37.1133°, 79.9369° [Khotan]; 38.4218°, 77.2654° [Yarkand]; 37.8805°, 77.4153° [Karghalik]; and 36.8501°, 81.6706° [Keriya]). La tipologia costruttiva più comunemente usata nel rimpiazzo è quella dei complessi residenziali a più piani.
L’esempio di Kashgar, che è stato studiato in dettaglio altrove, rende l’idea di che cosa comporti la sostituzione dei quartieri uiguri (mahalla) con i complessi residenziali. Molti residenti non hanno altra scelta che quella di trasferirsi nei complessi residenziali fuori città, il che comporta la scomparsa di un ampio spettro di fenomeni sociali, che include i passaggi ereditari, i rituali (funerali, sposalizi ecc.), la cura degli anziani, la solidarietà fra vicini (mahalla darchiliq), il dormire, la coabitazione e la rete degli scambi reciproci (Pawan e Niyazi, 2016; Liu e Yuan, 2019). In breve, il trasferimento dalle mahalla ai complessi residenziali rappresenta l’adozione di un modo di vita totalmente nuovo. Non sono ancora disponibili informazioni precise sulle demolizioni e ricostruzioni di altre vecchie città dal 2016 in poi, e la ricerca sul posto è resa quasi impossibile agli estranei. Tuttavia, la dislocazione e la cesura culturale che i residenti della città vecchia di Kashgar hanno vissuto rende probabilmente l’idea dei cambiamenti che i residenti dei quartieri abbattuti a Khotan, Yarkand, Karghalik e Keriya devono fronteggiare.
Vista nel quadro della ristrutturazione totale degli spazi degli uiguri, la demolizione dei mazar reppresenta l’estremo di uno spettro. Da un lato si trovano gli spazi del quotidiano, molto localizzati, e talvolta l’interazione quotidiana con l’ambiente edificato, per esempio l’arredamento, la piantina di casa, la fisionomia delle strade. Dall’altro, famosi mazar sono siti frequentati solo in rare occasioni da una comunità transregionale, transtemporale e trascendentale. Per coloro che compiono il pellegrinaggio personalmente, il perdono, il merito (sawab), la guarigione e il mescolarsi con gli estranei legano questi sensi intrinsecamente comunitari alle proprie vite personali. Su coloro che sono impossibilitati a compiere il pellegrinaggio i mazar esercitano il loro potere a distanza. Gli interventi dello Stato cinese lungo tutta l’estensione dell’ambiente edificato sono una minaccia per i modi di vita uiguri e i significati che stanno a cavallo fra il simbolico e il pratico, il sacro e il mondano e trasformano la geografia e lo spazio mentre intercettano prassi, discorsi e conoscenze.
Cimiteri
Nei cimiteri, l’ampio repulisti statale degli spazi dell’intimità, denso di significato individuale e locale, intercetta il potere politico e simbolico dei mazar. Questi ultimi essendo di regola tombe, un confine permeabile li separa dalle tombe ordinarie. La linea di confine è ulteriormente confusa dal diffuso desiderio di essere sepolti nelle vicinanze di un mazar. Le tombe dei santi, famosi e locali, sono spesso circondate da quelle delle persone sufficientemente di rilievo nelle rispettive comunità da avere accesso alla terra più sacra per il loro riposo eterno. Il rilievo di questi personaggi e quello dei santi accanto ai quali giacciono, fa spesso sì che le loro tombe siano trattate come parti del mazar stesso. Una tomba con una lapide sufficientemente grande, accanto a quella di un santo, riceverà anch’essa la sua parte di offerte, anche da parte di pellegrini che ignorano totalmente a chi appartenga. Succede anche l’inverso, cioé che le tombe più imponenti di un cimitero siano di regola trattate come mazar e quindi diventino tali, probabilmente a causa della generale associazione di mazar e cimiteri.
Come già discusso in precedenza, i mazar più famosi sembrano attirarsi la sorte di essere demoliti in misura spropositata. Tuttavia, un ampio numero di mazar minori sono stati demoliti non perché erano mazar, ma perché si trovavano in uno dei 100 cimiteri uiguri che lo Stato cinese ha distrutto a partire dal 2017. Molti uiguri hanno così assistito, nel medesimo atto distruttivo, alla profanazione delle tombe dei propri familiari e simultaneamente alla demolizione dei propri mazar locali, siti che, pur non attraendo grandi numeri di pellegrini provenienti da lontano, intrattenevano gli stessi rapporti con il divino e la storia comunitaria a livello locale.
Finora io ho avuto accesso unicamente alle reazioni degli uiguri in esilio, ma le profanazioni sembrano aver avuto, come prevedibile, effetti devastanti sulle comunità locali. Alcuni di essi sono documentati dalle interviste dei giornalisti e da Bayram Sintash (Rivers 2020; Sintash 2019). Il fenomeno è molto diffuso. L’AFP ha documentato la distruzione di 45 cimiteri, la CNN di oltre 100 (Agence France-Presse 2019; Rivers 2020).
Le ragioni addotte per demolire i cimiteri variano. Il cimitero centrale uiguro di Khotan fu distrutto a causa dello “sviluppo urbanistico” e per creare “spazi aperti” (Amministrazione di Khotan, 2019). Nella regione dello Yili le autorità menzionarono il bisogno di una nuova caserma dei vigili del fuoco per distruggere un altro cimitero (Zero Distance Yining 2019). A somiglianza del caso della riforma del supa, le distruzioni dei cimiteri sono in linea con i piani nazionali, in questo caso la “riforma dei cimiteri” (binzang zhengzhi 殡葬整治) (Ministero dei Lavori Pubblici, 2018; Dipartimento degli affari Civili del Sinkiang, 2018). Fuori del Sinkiang, la campagna è rivolta contro le sepolture individuali non autorizzate nelle foreste, la costruzione di tombe di “lusso” e l’apertura senza autorizzazione di nuovi cimiteri. Si presenta spesso come una campagna in favore dell’ambiente (She County People’s Government 2020). Nel complesso, la campagna nazionale mira innanzitutto a controllare gli ampliamenti e le aperture di cimiteri, piuttosto che a distruggere quelli di vecchia data, che sono spesso storicamente significativi, com’è successo nel caso uiguro.
Le ramificazioni politiche e simboliche di questo sradicamento dalla terra di salme e di storia uigure s’intreccia con gli sforzi di una coscienza storica uigura oggi ampiamente condivisa. In un’oasi del sud, un giovane uiguro, urbanizzatosi nel contesto delle città-oasi, intorno ai trent’anni, mi ha raccontato questa storia, illuminante del senso della morte e della sepoltura, oltre che della connessione che si attua tramite loro con la terra e la comunità.
Egli mi ha raccontato una storia proveniente, a suo dire, da un libro. Non l’ho né trascritta né registrata, pensando che dovesse essere una storia nota, facilmente rintracciabile con un po’ di calma. Gli ho chiesto dove l’avesse letta, ma quando l’ho cercata nei libri che mi aveva nominato non ce l’ho trovata. I termini che ha usato potrebbero far pensare a un brano del celebre racconto del 1996 di Memtimin Hoshur, Qum Basqan Shahr (“La città sotto la sabbia”), che descrive la caduta di una città uigura per mano di un re conquistatore, ma non ce l’ho trovata. La parafraso qui a memoria, nella speranza che le imprecisioni siano controbilanciate dal valore esplicativo del sua narrazone. Se è mai stata scritta, spero che qualche lettore me lo faccia sapere.
Il Re Sole bramava la nostra terra e ci mandò il suo visir. Il visir non ordì alcuna macchinazione politica e mise invece su casa, si prese una moglie e visse modestamente. Il popolo lo accolse bene, trattandolo come un ospite. Quando morì, fu sepolto nella nostra terra. Era precisamente quello in cui sperava il Re Sole. La tomba del visir divenne una testa di ponte per il re, una pretesa sulla terra. Di lì a poco ecco giungere l’esercito reale e la nostra terra divenne parte dell’impero del Re Sole. Egli ci aveva preso la terra mandando uno a morire da noi.
Il racconto lumeggia non solo il significato politico delle tombe, ma anche la consapevolezza del loro potere di legare il popolo alla terra. I soldati del Re Sole avrebbero potuto conquistare la terra anche senza la tomba. Ma il fondamento della proprietà reale precedette la conquista e avvenne collegando la morte al paesaggio. Il racconto uiguro sottolinea il primato che hanno le tombe nel connettere comunità e il potere politico alla geografia.
Simboli diversi, stessa grammatica
Il radicamento delle comunità uigure nell’ambiente naturale ed edificato non è certo un caso unico. Alcuni dei fenomeni particolari fin qui descritti possono essere peculiari degli uiguri e devono essere spiegati ai non addetti ai lavori, ma le geografie uigure non sono davvero espressioni esotiche del rapporto umano con lo spazio e la terra. Rapporti simili si ritrovano in tutto il mondo. Perfino lo Stato cinese condivide con gli uiguri alcune concezioni dello spazio e del luogo. Per quanto il regime coloniale d’insediamento cinese definisca arretrata la relazione uiguri-terra, anch’esso attiva sepolture simili a quelle uigure per suo conto. Le tombe alla maniera uigura sono sostituite da tombe “moderne” che recano il marchio del controllo statale e della monumentalizzazione, come nel caso del Parco Memoriale di Ban Chao a Kashgar. È un messaggio degno del Re Sole. I simboli sono diversi, ma la grammatica suona famigliare. Le iniziative dello Stato cinese suggeriscono che le mazar sono appunto significative quanto lo ritengono i pellegrini uiguri.
Più lo Stato cinese lavora allo smantellamento e alla cooptazione delle geografie uigure, più si contamina con la storia mondiale dei regimi d’insediamento coloniale. La profanazione dei templi, il riordino forzato degli spazi domestici, l’abbattimento delle città in nome della modernità, della civiltà e dello sviluppo sono state sempre le tattiche usuali degli imperi conquistatori, in particolare dei regimi d’insediamento coloniale nel mondo. All’elenco si potrebbe aggiungere il trasferimento forzato degli uiguri nelle fabbriche fuori del Turkestan Orientale. Non potrebbe esserci un esempio più calzante per quanto sostengono Tuck and Yang, che “che nelle società d’insediamento coloniale tutto tende verso la distruzione o l’assimilazione dei nativi, onde liberare le terre dalla loro presenza” (Tuck and Yang 2012, 9).5)L’autore ringrazia Darren Byler per la segnalazione.
Il programma statale cinese di detenzioni arbitrarie, che ha inghiottito almeno un milione di uiguri, ha senza dubbio facilitato il repulisti delle geografie e dei luoghi sacri uiguri. Dato che gli uiguri possono venir chiusi nei campi di concentramento per atti quali il rifiuto di guardare la televisione di Stato, l’uso di app straniere, la relazione con qualcuno che vuole trasferirsi all’estero, diventa inconcepibile protestare per la demolizione di un mazar. Molti dei frequentatori dei mazar erano probabilmente già stati vittima del programma di detenzione, perché le attività collegate con i mazar sono etichettate come “attività religiose illegali o “sintomi di potenziale estremismo”, qualche volta retroattivamente (Xinjiang United Front, 2017a). E la più celebre studiosa uigura di mazar, Rahile Dawut, è scomparsa alla fine del 2017. Gli uiguri non possono neanche documentare le demolizioni, figurarsi resistere ad esse.
Una presa di posizione storica del pensiero uiguro sui luoghi sacri fa intravedere un possibile futuro per i mazar abbattuti e sconsacrati. Nei tazkiras, testi manoscritti esegetici e liturgici adottati nei mazar più famosi, il mazar è spesso prefigurato come un grumo fisso di senso nel paesaggio, indipendente dai manufatti umani. Si può anche inferire che la sacralità di questi luoghi preceda l’arrivo in loco di un qualche santo (Thum 2014, 126ff.). Ciò aumenta la possibilità per le future generazioni di uiguri, che forse vivranno in una realtà postcoloniale o almeno meno repressiva, di un ritorno sulle dune dell’Imam Je’firi Sadiq e dell’Ordam Padishah, a edificare nuovi monumenti commemorativi, dove i pellegrini rinnovino le loro visite, ammucchiando nuovi cumuli di offerte. In questo futuro possibile, i mazar, non meno sacri di quando subivano gli attacchi dello Stato cinese, conserveranno il potere di fungere da snodi per una geografia uigura che leghi il passato, il presente e il futuro delle terre uigure. Ciò detto, questo è solo uno dei futuri possibili. Per giunta lontano dalla presente realtà di demolizioni. In un’intervista del 2012, al cospetto delle demolizioni dei templi e prima della sua stessa scomparsa, Rahile Dawut spiegò qual era la cancellatura di cui eravamo testimoni:
Se si rimuovono questi manufatti materiali e questi altari, il popolo uiguro potrebbe perdere il contatto con la terra. Non avrebbe più una storia personale, culturale, spirituale. In pochi anni non ricorderemo più perché viviamo qui, a che cosa apparteniamo (Manzi 2013)
Nell’intervista, Dawut ricordò anche le parole di un mendicante uiguro che aveva incontrato una volta: “Quando il mazar è in pace, il popolo è in pace; quando il popolo è in pace, i governi dormono sonni tranquilli”.
Traduzione di GioGo
Riam Thum è Senior Research Fellow presso l’Università di Nottingham.
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↑1 | La descrizione si basa sulla visita dell’autore durante la sagra del pellegrinaggio del 2007. Le altre descrizioni di templi dell’articolo si basano sui lavori sul campo dell’autore del 2003, 2004-5, 2007-8, 2010, 2013, 2015 e 2017. |
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↑2 | Ovvero “Nuovo Territorio” (N.d.T. |
↑3 | Il testo inglese reca “inspect”, ma il verbo cinese fang significa “far visita” (N.d.T.). |
↑4 | Il kang, diffuso nella Cina rurale nordorientale, è una specie di stube, ovvero un forno inserito in un muro di mattoni, sopra al quale ci si siede e ci si sdraia. |
↑5 | L’autore ringrazia Darren Byler per la segnalazione. |