Presentiamo qui il secondo articolo della serie sul Xinjiang, pubblicato originariamente il 9 luglio 2019 su Made in China Journal con il titolo “Good and Bad Muslims in Xinjiang” e quindi pubblicato in italiano su Dinamopress lo scorso 11 gennaio per la traduzione di GioGo.
Una vasta rete di campi d’internamento pronti per chi abbia dato il minimo segno di “estremismo”, dove, stando ad alcuni ex-detenuti, i mussulmani sono spinti ad abiurare. Chiusura e demolizione di moschee e occhiuta sorveglianza di quelle ancora aperte. Restrizioni severe all’osservanza del ramadan, sufficienti a dissuadere i fedeli più tiepidi. Sono alcuni dei capi d’accusa rivolti contro il repulisti antislamico della Repubblica Popolare di Cina, che secondo alcuni attivisti costituirebbe una vera e propria messa al bando della religione islamica. Le autorità si sono indignate e si sono stupite, rispondendo che stanno solo applicando le norme internazionali per la repressione del terrorismo e della radicalizzazione. I portavoce governativi si riferiscono al consenso, condiviso nel mondo, sulla necessità di combattere la radicalizzazione con misure preventive, miranti a identificare, isolare e recuperare i potenziali estremisti. Di recente, un film di propaganda trasmesso dalla televisione di Stato cinese ha sostenuto che la Cina, nella sua azione nel Xinjiang, si sarebbe ispirata ai centres de déradicalisation francesi e ai deradicalisation centres britannici (China Central Television, 2019). Gli esperti cinesi spiegano così la differenza di scala: le politiche occidentali di contrasto dell’estremismo si focalizzano solo su alcuni individui ben identificati e non fanno abbastanza per prevenire gli atti di terrorismo (Doyon, 2019). L’approccio più risoluto della Cina non è solo giustificato, ma è la logica estensione dei metodi occidentali.
Sarà questo presumibilmente il terreno di scontro sui nomi da dare alla questione del Xinjiang nel prossimo futuro, e vale la pena di soffermarsi sull’interpretazione da darne. È imbarazzante ammetterlo, ma la posizione cinese non è priva di logica. Certo, la scala con la quale la Cina attua la rimodulazione della vita religiosa islamica potrebbe addirittura portare pregiudizio agli stessi fondamenti del credo. Ma sono sempre politiche che condividono molto dell’idea che bisogna rimettere in linea l’Islam con le regole e le attese delle società “moderne”. Lo disse Barack Obama nel 2016 che “alcune correnti dell’Islam non sono passate per una riforma che avrebbe aiutato i credenti a rendere il loro credo compatibile con la modernità” (Goldberg 2016). La visione del PCC di un Islam sinizzato compatibile con la modernità socialista riecheggia l’appello di Obama a un ideale cammino cristiano verso l’evoluzione religiosa.
Il regime Stato-partito cinese ritiene desiderabile che il consenso dell’élite si estenda fino a diventare di massa, mentre le democrazie liberali occidentali sono parzialmente, anche se non abbastanza, impacciate dalle libertà civili e dalle possibilità di resistenza. Naturalmente può far piacere che impacci del genere esistano ancora, ma la critica alle politiche cinesi non dovrebbe poggiare troppo su queste differenze sistemiche. Per chi si trova fuori della Cina, una critica radicale delle posizioni cinesi, che possa anche fornire uno spunto per una risposta efficace, deve includere i presupposti filosofici che queste posizioni condividono con il contrasto occidentale al terrorismo. Il rischio, a non farlo, è notevole. Dopotutto, la scarsa propensione occidentale a confrontarsi con le cause politiche della violenza terroristica potrebbe finire per confermare il principale argomento invocato dalla Cina: che la più contenuta strategia di antiradicalizzazione dell’Occidente non riuscirà mai a por fine al terrorismo. In assenza di una critica più decisa che coinvolga i termini del dibattito, i critici della Cina nel mondo potrebbero finire per essere confutati.
Come gli uiguri sono diventati mussulmani
Occorre un nuovo approccio, più qualificato, sull’Islam quando si discute di Xinjiang, mentre finora ci si è perlopiù limitati a sottolineare l’identità mussulmana degli uiguri e a denunciare semplicisticamente l’oppressione cinese dei mussulmani. Questo resta valido, ma ci si deve anche rendere conto degli altri fattori che compongono il quadro. Fuori della Cina, la libertà di religione è uno dei diritti umani più ampiamente riconosciuti, uno dei punti più accettati dalle lobby internazionali. Come ha notato Elizabeth Shakman Hurd (2015), dall’Undici Settembre l’istituzionalizzazione di questo discorso ha favorito l’interpretazione in chiave religiosa di molti dei conflitti globali. Inoltre, l’enfasi sull’identità “mussulmana” delle vittime maltrattate dalla Cina fornisce agli attori occidentali una buona scusa per tentare di persuadere le nazioni a maggioranza mussulmana ad assumere posizioni anticinesi. Parimenti, l’identità religiosa degli uiguri ha fornito agli Stati Uniti l’occasione per recuperare in parte la credibilità traballante come difensore degli interessi mussulmani. Come ha scritto Benny Avni (2018) sul The New York Post, gli uiguri sono “una comunità modello di mussulmani filoamericani”.
Fra gli uiguri, alcuni sono infastiditi da questa enfasi e controbattono sostenendo che la questione non sia religiosa, bensì nazionale. In parte, questa risposta riecheggia la sottovalutazione, fra gli intellettuali uiguri, del ruolo dell’Islam nell’identità uigura, e considera la loro difficile condizione come il prodotto della richiesta conflittuale nazionale del territorio. In concomitanza, un orientamento politico generalmente anticomunista ha spesso condotto gli uiguri a dissociarsi dalle cause che schierano i mussulmani fra i nemici dell’imperialismo americano, com’è il caso della Palestina. È interessante notare che sono sentimenti persistenti perfino fra gli uiguri arruolati nelle milizie jihadiste in Siria. Come ha ricordato Gerry Shih (2017), i combattenti uiguri si sono detti ammirati da Israele per “come gli ebrei hanno edificato la propria nazione”. Ma, a parte le considerazioni di questo genere, i critici uiguri sembrano avere un buon argomento: se la Cina conducesse una politica antimussulmana, non dovremmo aspettarci che si sbarazzerebbe anche degli hui, i mussulmani di lingua ed etnia cinese del Xinjiang? Dunque gli uiguri finirebbero nei campi d’internamento non tanto perché mussulmani, quanto perché uiguri.
L’obiezione si può rintuzzare facendo riferimento alle esperienze in Occidente. Diciott’anni dopo il lancio della guerra contro il terrorismo, l’idea della “etnicizzazione” dei mussulmani è diventata familiare. Questo ha consentito alla polizia e alla politica di sostenere l’esistenza di una faciesmussulmana, e ha provocato attacchi perfino contro i sikh, che per via del turbante sono stati scambiati per mussulmani dagli assalitori islamofobici. All’opposto dell’associazione d’identità religiosa con caratteristiche identificabili a vista è stata l’ “islamizzazione” dell’identità nazionale. Sulla scia dell’Undici Settembre, è avvenuta dapprima l’identificazione come mussulmani, e solo secondariamente come membri di una data nazione. Le attribuzioni operate dagli interessati non contano molto, al confronto con la capacità degli Stati e dei media di costruire gruppi sociali.
I convertiti all’Islam australiani o statunitensi chiari di carnagione (ma dipende anche da come si vestono) possono sfuggire alla stigmatizzazione e alla discriminazione che invece colpirà i correligionari che confermano lo stereotipo del mussulmano scuro di pelle. Semplicemente, non saranno razzializzati come mussulmani. Allo stesso modo, possiamo supporre che gli uiguri del Xinjiang siano diventati mussulmani razzializzati in modi che non toccano gli hui sinofoni. Le loro fattezze centrasiatiche aggiungono un significato a ‘mussulmano’ e, più di quanto non faccia la categoria ‘uiguri’, fa dimenticare il suo significato di “livello amministrativo”, e i diritti da minoranza nazionale (o etnica) promessi dalla Cina e scritti nella Costituzione si perdono per strada. Naturalmente le cose cambiano nell’entroterra cinese, più omogeneo. Qui, nonostante il loro alto livello d’acculturazione, la vita comunitaria che conducono gli hui li isola, ne fa dei diversi, e si può vedere che il clima di islamofobia intorno a loro cresce. La distanza razziale e culturale non è cosa che si misuri oggettivamente. I segni visibili o le usanze assumono un significato solo in contesti politici specifici.
Figurarsi gli uiguri come mussulmani razzializzati corrobora sì le analisi che insistono sull’esistenza di una divisione fra etnie che va approfondendosi nel Xinjiang (cfr. p. es. Hunerven 2019), ma permette anche un confronto diretto con come la Cina giustifica la sua politica negli stessi termini cinesi. Queste giustificazioni s’imperniano non già sulla razza o etnia, ma sull’estremismo e sul terrorismo – i due princìpi guida dell’ultimo “Libro Bianco sul Xinjiang” del Consiglio di Stato (State Council Information Office 2019). È evidente che la figura del “terrorista” svolge un ruolo essenziale nel descrivere gli uiguri come mussulmani razzializzati. Ora, l’ufficialità cinese vede un terrorista in ogni singolo uiguro coinvolto in un’azione violenta. Durante la sommossa di Ürümqi del 2009, sostiene il “Libro Bianco”, “i terroristi assalirono a migliaia i civili, gli uffici del governo e della PS, i poliziotti”. Durante la repressione avviata dal 2014, la Cina si vantò d’aver “arrestato 12.995 terroristi”. Il “Libro Bianco” profitta del clima globale, in cui il terrorista archetipo è il mussulmano scuro di pelle, per sussumere tutte le violenze uigure nel Xinjiang nella categoria terrorismo, imprimendo sugli uiguri lo stigma del mussulmano.
In superficie, la Cina sembra fare esattamente il contrario di quanto si sostiene in quest’articolo. In effetti, il “Libro Bianco” del 2019 fa del suo meglio per deprimere l’identità islamica degli uiguri: “L’Islam non è né il credo autoctono degli uiguri e di altre etnie, né l’unico che coltivino gli uiguri. Oggi nel Xinjiang in tanti non credono in nessuna religione o credono in altre religioni, non nell’Islam”. Ovviamente, questo desiderio di ribadire l’occasionalità della preminenza islamica nel Xinjiang è di per sé il riflesso della preoccupazione suscitata nello Stato dall’identità mussulmana degli uiguri. L’insistenza sulla data recente e l’incompletezza dell’islamizzazione degli uiguri ha, storicamente, l’effetto paradossale, di accentuare la retorica dell’islamizzazione degli uiguri al giorno d’oggi.
L’islamofobia progressista della Cina
È dunque possibile per un clima islamofobico prendere piede e influire sulle decisioni politiche, anche se nel contempo il clima stesso subisce mutamenti e ha effetti diversi su gruppi diversi di mussulmani. Possiamo e dobbiamo, di conseguenza, collocare la nostra discussione sulla repressione inflitta alle minoranze di lingua turca del Xinjiang all’interno di un’analisi dell’islamofobia. Non che questo sia l’unico contesto possibile per la nostra discussione, ovviamente, ma sarà il cuore di questo articolo.
Nonostante sia in linea con quelle dei razzismi in corso, è importante prendere in considerazione le dinamiche dell’islamofobia in sé. L’islamofobia non s’esprime sempre nella forma di un’ostilità a tutto campo contro i mussulmani. In The Muslims Are Coming!, Arun Kundnani descrive come, sull’onda della guerra al terrore, le ansie occidentali causate dall’Islam abbiano preso due forme. La prima è stata quella di un discorso reazionario, che ipotizza un’assoluta incompatibilità fra Islam e Occidente, in cui l’Islam è strutturalmente arretrato e i mussulmani inclinano alla violenza a causa della loro religione. Il secondo è un discorso progressista, che distingue fra un Islam “buono”, col quale una riconciliazione con l’Occidente è fattibile, e un Islam “cattivo”, che propugna il distacco dall’Occidente e gli è ostile. L’Islam cattivo può essere un catalizzatore di radicalizzazione, quello buono un alleato contro il primo. Pur essendo evidentemente più illuminato, Kundnani mostra quanto il discorso progressista abbia sdoganato interventi statali contro la religione e la vita sociale islamica altrettanto se non più estesi del discorso reazionario.
In vari momenti della storia cinese si è pensato che gli usi e costumi e il credo islamici fossero profondamente incompatibili con la cultura cinese. Nel XVIII secolo, il funzionariato imperiale suggerì di tanto in tanto all’imperatore di bandire tale credo. Solitamente la Corte rigettò questi inviti, anche se comunque sia attivò una certa discriminazione contro i mussulmani sinofoni, considerati particolarmente inclini alla violenza. Purtuttavia, anche in momenti conflittuali, raramente il funzionariato addossò le violenze contro l’impero o contro i cinesi a una qualche tara del credo islamico. Pur essendo di regola sprezzante verso le religioni non cinesi, la tradizione intellettuale dell’impero non indulse a nessun discorso “orientalista” come invece ha fatto l’Occidente, che spiega le violenze anticoloniali dei mussulmani in termini di “fanatismo” congenito. Oggi come oggi, le analisi cinesi tendono ad attribuire i picchi della resistenza nel Xinjiang pre-comunista non all’effervescenza religiosa ma alle ingerenze dell’imperialismo. In un recente saggio sulle frontiere occidentali della Cina, per esempio, Wang Hui (2017) ha ripreso la tesi che la ribellione Sufi negli anni Venti dell’Ottocento fosse parte di un complotto imperialista britannico. Il “Libro Bianco” cinese del marzo 2019 trasmette un messaggio simile quando definisce il panislamismo dei tempi della Repubblica cinese (1911-1949) un’invenzione del “vecchio colonialismo”.
Chi oggi si connette coi social cinesi, s’imbatterà con tutta probabilità in sedicenti “sprezzatori dell’Islam” [muhei 穆黑, da mu(slim) ha(ters)], che sviluppano il discorso definito reazionario da Kundnani, cioé che l’Islam è irrecuperabile e non trova posto nelle società moderne. Gran parte di quest’odio cinese prospera in tandem con l’islamofobia occidentale in rete. Analisti come James Leibold rilevano che se nell’ambiente cinese, sottoposto a severa censura, idee del genere circolano con relativa facilità, si deve forse a una certa connivenza dello Stato (Leibold 2016). Ufficialmente, tuttavia, non è facile trovare affermazioni cinesi paragonabili alla veemenza della retorica antislamica reazionaria occidentale. Come candidati al senato australiano, per esempio, Pauline Hanson ha detto di recente che “l’Islam è una malattia contro la quale ci dobbiamo vaccinare”, mentre Fraser Anning ha invocato una “soluzione finale” al ‘problema dell’immigrazione mussulmana” (Remeikis 2017; Karp 2018).
Il discorso ufficiale cinese sui mussulmani invece è quasi esclusivamente progressista, e pone una dicotomia fra accettabile e inaccettabile, fra mussulmani “buoni” e “cattivi”. Gli esperti dell’antiterrorismo cinese parlano lo stesso linguaggio delle loro controparti occidentali: mettono in guardia contro l’islamofobia, sottolineano la necessità di dissociare “estremismo” e religione, esortano a evitare di sussumere le misure antiestremismo al discorso dell’antiterrorismo (Wang 2018). L’intenzione del PCC di “sinizzare” l’Islam implica che nella religione com’è praticata attualmente vi siano parecchi difetti, ma si nasconde dietro un tono ottimistico, fiduciosa nei rimedi e in un luminoso futuro per una versione più sana, più “alla cinese”, del credo. Uno dei modi in cui si manifesta questa dicotomia buono/cattivo nel Xinjiang di oggi è la distinzione fra le etnie di minoranza di lingua turca e gli hui sinofoni. Questo associare i mussulmani del Xinjiang a influenze straniere potenzialmente sovversive, in contrasto con i più mansueti hui, ha precedenti storici, ma è da notare che la linea fra buoni e cattivi mussulmani non fu sempre tracciata in questo modo. Cent’anni fa, a Yang Zengxin, viceré del Xinjiang, sembrò che fosse piuttosto la religiosità degli hui a essere deviata e indesiderabile. Egli vide un contrasto fra la devozione clanica degli hui agli sceicchi stranieri e la religiosità degli uiguri, più focalizzata su Maometto (“i credenti più devoti all’insegnamento del Profeta”)(Brophy 2013). Yang, che scriveva sul finire dell’impero Qing, operò in un momento precedente a quando il nazionalismo cinese cominciò a misurare la sincerità della cittadinanza in termini di prossimità alla cultura cinese. E scriveva quando la prima delle due insurrezioni indipendentiste del periodo repubblicano, che portarono a vedere negli uiguri, e non nei hui, la peggiore minaccia alla presa di Pechino sul Xinjiang, non era ancora scoppiata. Questa doppia percezione di differenza culturale e propensione alla militanza oggi fa sì che gli unici mussulmani cattivi del Xinjiang siano gli uiguri.
Tuttavia, significativamente, la distinzione vale anche in seno alle comunità uigure (o cosacche, chirghise ecc.). La premessa della visione progressista è che, quando l’ “estremismo” penetra nelle comunità mussulmane, ne sospinge alcuni membri, ma non tutti, sulla strada della radicalizzazione. Le descrizioni di questo tragitto variano a seconda che si dia più importanza alle deviazioni teologiche o alle psicologie individuali, due cose di norma difficili da districare. Su queste premesse s’è avviato un discorso elaborato, che ambisce alla scientificità e che consente agli organi della sicurezza d’identificare individui a rischio e prendere misure per rieducarli. Com’è stato notato (p. es. Jamshidi 2019), l’elenco cinese dei segnali d’allarme della radicalizzazione (farsi crescere la barba, vestirsi da prete, o perfino smettere di fumare) richiede all’istante di allertare gli addetti al Contrasto dell’Estremismo Violento (Countering Violent Extremism, CVE) dappertutto: il programma britannico Channel è un esempio classico, così come la sorveglianza delle comunità islamiche di New York condotta dal Dipartimento di Polizia.
Per la Cina, tutto ciò sfocia in una contraddizione. Da una parte, la teoria progressista della controradicalizzazione inclina a ritenere che gli estremisti travisino il vero significato dell’Islam, cosa che induce nell’esperto di terrorismo un certo fondamentalismo suo proprio, né la Cina fa eccezione. Il compito della deradicalizzazione, secondo uno studioso cinese di Kashgar (Liu 2018), è quello di “recuperare il vero messaggio degli insegnamenti religiosi” (cin. huanyuan zongjiao jiaoyi benshen de zhuzhi 还原宗教教义本身的主旨). Dall’altra, parlare di “sinizzazione” sembra implicare che l’Islam cambiato, una volta entrato in Cina, e sia divenuto parte della comune cultura cinese (cin. Zhonghua wenhua 中华文化). Vale a dire, l’Islam in Cina ha assunto caratteristiche che lo differenziano dall’Islam nella sua concezione originaria, e da com’è praticato altrove (Zhang 2017). La ginnastica intellettuale richiesta per riconciliare questi due orientamenti contraddittori terrà probabilmente molto occupati gli specialisti cinesi di Islam, ma sono specificità che non devono far dimenticare la missione che essi hanno in comune con i colleghi della Guerra al Terrore d’Occidente. La “guerra riformista al terrore”, come la descrive Kundnani, è “quella in cui i governi dicono ai fedeli che cosa dice veramente la loro religione, e lo sostengono con il potere di criminalizzare le alternative” (2014, 107).
Commenti occidentali sull’Islam in Cina
Dato che il discorso del PCC è così invischiato in quello occidentale, i commenti stranieri sulla relazione dello Stato cinese con l’Islam scoprono di trovarsi in imbarazzo. Si sforzano di essere critici verso le politiche cinesi, ma finiscono per riprenderne certi assunti di quelle politiche. Per dirla brutalmente, i commenti comprano a scatola chiusa gli elementi chiave della narrazione cinese. Anche se la collaborazione fra Cina e Occidente è receduta dal picco dell’Undici Settembre, si è lasciata dietro una nozione residua di basso livello, che più o meno sostiene la pretesa cinese di stare combattendo un pericoloso nemico terroristico interno. Per esempio, un articolo pubblicato dall’Hoover Institute nel 2018, che pure era critico nei confronti della repressione cinese, definiva il Movimento Islamico del Turkmenistan Orientale (East Turkmenistan Islamic Movement, ETIM) il “più grande gruppo estremistico locale della Cina”, e ripeteva a pappagallo le accuse cinesi non provate rivolte all’organizzazione di aver scagliato più di 200 attacchi (Auslin 2018). Secondo l’autore, le “tensioni irriconciliabili” fanno presagire una lotta mortale di lungo periodo fra la Cina e il terrorismo uiguro organizzato.
Gran parte degli autori in questo periodo sono più scettici nei confronti di questa previsione, e critici dell’acquiescenza con cui l’amministrazione Bush ha ritenuto il fumoso ETIM un’organizzazione terroristica. L’istinto fa criticare aspramente a questi commentatori gli sforzi cinesi per esagerare la scala della minaccia terroristica nel Xinjiang, ma, nello stesso tempo, i termini del discorso antiestremistico cinese suonano così familiari, così simili al modo proprio dell’Occidente di tenere sotto controllo la propria popolazione mussulmana, che trovano difficile svicolare. Le critiche meglio intenzionate possono facilmente cadere nel loro opposto
Si prenda, per esempio, un recente articolo di The Economist sui mussulmani hui della regione sudoccidentale dello Yunnan, che critica “lo smaccato tentativo cinese di sinizzare la fede” perché controproducente (Chaguan 2019). Facendo l’esempio dei politici cinesi mussulmani patriottici dell’inizio del XX secolo, l’autore biasima i funzionari cinesi di oggi per la loro ignoranza di questo Islam sinizzato già esistente. Ma poi l’autore s’imbatte in mussulmani hui che non si conformano all’immagine che egli ha di loro. Questi sono hui che rifiutano il precetto che “l’amore per la patria è parte della fede” (hubb al-watan min al-iman), distanziandosi così dall’Islam sinizzato e patriottico che sta a cuore all’autore. Per questo sono giudicati “ignoranti di storia”. Quella che era cominciata come una critica della sinizzazione cinese dell’Islam finisce per rafforzare uno dei principali assunti della campagna: che esiste un Islam cinese storico e patriottico e che i mussulmani che la pensano diversamente capiscono male la propria religione.
[…]
Verso una difesa della libertà di religione
Il pessimismo è giustificato di fronte alla situazione attuale nel Xinjiang. Fortunatamente però la narrazione di Johnson non ci fornisce tutto il quadro. Se da una parte l’impero Qing fu spietato contro i suoi nemici nell’élite religiosa del Xinjiang (soprattutto i Sufi, che si proclamavano discendenti di Maometto), si può ugualmente parlare del XVIII secolo come di un periodo di convivenza con la popolazione mussulmana della regione. Naturalmente, si può discutere se il regno di Qianlong dei Qing fornisca o no un modello utile per la RPC di oggi. Qui si vuole solo dire che la storia è tutt’altro che univoca, e che non si deve permettere che essa imponga questa o quella visione del presente.
Quando prese il controllo di Kashgar nel 1759, Qianlong ordinò subito la riapertura del principale tempio Sufi della città. Anche se sospettoso dell’influenza che le sopravvissute famiglie dell’élite religiosa del Xinjiang avrebbero potuto esercitare, il suo sistema fu di ospitarle nel lusso a Pechino, da dove mantenere i contatti con la società mussulmana del Bacino del Tarim. Johnson è nel giusto quando scrive che non esistevano moschee nella Città Proibita di Pechino – che per lui era il segno che era esclusa dal “regime religioso” dei Qing. Ma c’era una moschea proprio di fronte, un ben fornito quartiere costruito per ospitare la comunità di Mussulmani del Xinjiang, e sappiamo che l’imperatore vi si recava in visita annualmente. Pur essendo probabilmente molto più informato del, e interessato al, buddismo tibetano, Qianlong esaminava ugualmente con scrupolo che cosa i mussulmani del Xinjiang avessero da offrire alla dinastia in materia spirituale, e assoldò fra loro sacerdoti in grado di eseguire le cerimonie propiziatorie della pioggia nei dintorni della capitale. Quando un’emanazione della confraternita dei mistici Sufi, la Naqshbandyya, legata ai nemici della dinastia, fu scoperta nel Xinjiang alla fine del XVIII secolo, Qianlong non promosse alcuna cruenta inquisizione, bensì disperse la rete nominando i suoi membri funzionari di basso rango. Fu non prima degli anni Venti del XIX secolo, a sessant’anni dalla conquista Qing, che l’élite dissidente religiosa poté mobilitare una resistenza seria contro i Qing, uno sforzo peraltro tutt’altro che unanimemente apprezzato dalla popolazione locale.
Dal punto di vista di Pechino, naturalmente, tutto ciò è d’importanza secondaria. Nella retorica ufficiale fu l’arrivo del panturchismo e del panislamismo, all’inizio del XX secolo, a gettare le fondamenta delle attuali violenze estremiste. Ma la storia scompiglia il quadro anche qui. Queste ideologie del ventesimo secolo non significarono automaticamente la condanna del controllo cinese del Xinjiang, anzi espressero più volte l’auspicio di poter instaurare un’alleanza antimperialista con la Cina. Il “Libro Bianco” del 2019 cita Mas’ud Sabri and Muhämmämd Imin Bughra come i rappresentanti di queste tendenze radicali, ma entrambi quegli uomini passarono buona parte della loro vita operando a fianco dei nazionalisti del Kuomintang, non proprio il curriculum che ci si aspetterebbe da un paio di estremisti duri e puri. Un terzo esecratissimo personaggio del periodo fu Sabit Damulla, primo ministro della caduca Repubblica del Turchestan Orientale nel 1933-34. Tuttavia, anche se ovviamente ispirato dalla teologia salafista, niente nei suoi scritti indica che egli si sentì obbligato dalla religione a attivare una resistenza anticinese. Durante un viaggio nel Vicino oriente nei primi anni trenta, Sabit Damulla redasse articoli secondo i quali i mussulmani del Xinjiang godevano di una quasi completa libertà religiosa, e indirizzò i sui strali piuttosto contro i missionari europei. Erano vedute in sintonia con quelle dei più importanti teorici arabi dell’Islam politico quali Rashid Rida, secondo il quale anche se la Cina era situata fuori del mondo islamico e dunque tecnicamente era Dar al-Harb (la Dimora della Guerra), ciò non obbligava i mussulmani a opporsi al regime cinese (Halevy 2019). Secondo lui, la linea di condotta migliore sarebbe stata il proselitismo.
Ciò che si può dedurre da quanto precede è che non si può tracciare alcuna linea retta fra assiomi teologici e proposte politiche. Il Sufismo non fu necessariamente pluralista e pacifista, né il richiamo ai testi fondanti dell’Islam, come il Corano e gli Apologhi (Hadith), implicò una rigida militanza anticinese. Nelle mutate condizioni politiche che incontrò tornando nel Xinjiang, Sabit Damulla spalleggiò la ribellione estesa in tutta la regione che sfociò nella fondazione della Repubblica del Turkestan Orientale e giustificò in termini religiosi l’afflato per l’indipendenza. Tuttavia la sua partecipazione a quest’atto di resistenza non fu in funzione della sua interpretazione dell’Islam. La genealogia intellettuale che la Cina cerca d’imporre nella sua campagna contro le “ideologie estremiste” non può svolgere il compito che le è stato assegnato.
Questa necessità di scindere l’analisi della violenza politica dalle tipologie dell’Islam vale oggi come valeva in passato. Che siano confezionate in termini di devianza religiosa oppure d’alienazione psicologica o crisi identitaria, le spiegazioni basate sulla nozione di “ideologia estremista” non forniscono una diagnosi convincente delle origini della violenza terrorista né possono suggerire rimedi efficaci. Già molti esperti hanno condannato l’assunto fallace che anima le politiche del Contrasto dell’Estremismo Violento, obiettando che le ricerche empiriche sul terrorismo semplicemente non confermano le linee guida del Contrasto (Ross 2016). Al massimo sono teorie che stabiliscono vaghe correlazioni, che poco contano in assenza di studi di controllo di gruppo più rigorosi. Quando gli è data la parola, quasi tutte le giustificazioni per la violenza terroristica appaiono fondate su rivendicazioni politiche che non sono riuscite a trovare altre forme d’espressione. Sostenere che sono i fattori politici che spronano alcuni uiguri a commettere atti di violenza non solleverebbe molte obiezioni presso l’uditorio occidentale, fin troppo propenso a riconoscere il fallimento politico della Cina. Ma un rilievo del genere fatto fuori della Cina si rivelerà probabilmente inefficace finché le stesse pratiche occidentali di confronto politico con l’Islam oscureranno le verità più palesi. Qui non ci si riferisce alle prestigiose e generosamente finanziate istituzioni che sostengono la teoria che c’è dietro le politiche occidentali e che hanno contribuito a propagare in Cina un’assai dubbia dottrina antiradicalizzazione. I critici dovrebbero perciò riformulare la loro richiesta alla Cina di adempiere alle “norme internazionali”, che, in questo caso, sono esattamente quelle che bisognerebbe mettere in forse. Invece, bisognerebbe cercare di sanare i danni che il principio di una genuina libertà religiosa ha subìto durante la guerra al terrore globale. I mussulmani di Cina hanno diritto alla libertà di pregare sui loro altari, Sufi o altro, quelli che preferiscono. Dovrebbero poter essere liberi di discutere della validità dei testi fondatori dell’Islam come vogliono. E se desiderano discutere fra loro i migliori modi di essere mussulmano, dovrebbero essere liberi di farlo, senza che lo Stato cinese, gli esperti di Cina non mussulmani, o i critici stranieri intervengano nel dibattito, sostenendo le tesi di loro preferenza e tacitando le altre perché estranee o erronee. Per riportare la discussione a questo stadio, bisogna liberarsi dei propri paradigmi di giusto e sbagliato, di Islam moderato e Islam estremista, che, anche quando sono invocati con spirito critico, finiscono per agevolare le ingerenze statali nelle comunità musulmane.
Traduzione di GioGo
David Brophy è senior lecturer di Storia moderna cinese presso l’Università di Sydney. Studia la storia sociale e politica del nord ovest cinese, in particolare della Regione autonoma uigura del Xinjiang e le sue connessioni col mondo islamico e col mondo russo/sovietico.
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