Fino a non molto tempo fa l’informazione internazionale sulla Cina passava attraverso le lenti piuttosto ristrette di un numero limitato di corrispondenti stranieri. Nell’ultimo decennio, tuttavia, una nuova generazione di giornalisti cinesi ha cominciato a seguire la Cina da dentro e da fuori dal paese per un pubblico internazionale. Sono giornalisti molto spesso bilingui, formati nelle migliori scuole di giornalismo mondiali. Bisogna riconoscere, però, che erano già molti anni che i giornalisti cinesi contribuivano all’informazione internazionale sulla Cina, per quanto molto spesso senza mettere la firma, visto che ai cittadini cinesi non è consentito operare come giornalisti nei media stranieri, ma al massimo come “news assistants”. Pochi corrispondenti stranieri passano in Cina più di qualche anno o imparano bene la lingua, cosicché tali assistenti diventano fondamentali. In molti casi però, come capita ai “news fixer” in giro per il mondo, questi ultimi hanno un ruolo centrale nel mettere insieme le notizie, anche se il loro contributo non viene menzionato.
Oggi però sono sempre di più le testate straniere situate fuori dalla Cina che assumono giornalisti cinesi in posizioni di rilievo. Intanto, una tendenza del tutto nuova è quella dell’informazione specializzata sulla copertura dell’“influenza cinese”. Come riferisce Axios, “parecchi organi di informazione, fra cui l’Economist e Reuters, hanno creato posizioni specificamente dedicate alla copertura della Cina nel mondo”. Nel mentre il Wall Street Journal bandisce dei posti per giornalisti che sappiano il cinese per seguire “una storia che segna i nostri tempi, quella dell’ascesa della Cina e di come il resto del mondo faccia spazio”.
In quest’epoca di forti polarizzazioni in un ambiente ultraconnesso, il mondo esterno ha un crescente bisogno di comprendere la Cina, e la Cina di comprendere il mondo esterno. Il valore delle prospettive interne è, a questo fine, cruciale. Ciononostante, Cina e Stati Uniti giocano a buttare fuori i rispettivi i corrispondenti stranieri come se fosse una partita di dama.
Per capire meglio questo nuovo scenario mediatico, ho rivolto alcune domande ad alcuni membri di un collettivo di giornalisti cinesi che lavorano nell’ambito dei media in lingua inglese, i Chinese story-tellers (CST). Si tratta di oltre 300 giornalisti, editor e documentaristi per lo più operanti negli Stati Uniti dei quali alcuni seguono la Cina mentre altri seguono gli Stati Uniti o altre questioni internazionali.
Chi sono i CST
Nati originariamente come gruppo Whatsapp per aiutare i membri a “sopravvivere insieme nell’ambiente difficile dei media in lingua inglese”, nel 2019 i CST entrano in internet cominciando a pubblicare una newsletter bimestrale e aprendo un account Twitter. “In quel momento ci sembrava che la comunità dei professionisti cinesi nei media internazionali fosse in crescita, e volevamo allestire una casa in cui gente come noi potesse sostenersi a vicenda. Il nostro obiettivo è sostenere e promuovere i professionisti cinesi nell’industria globale dell’informazione”, dice Muyi Xiao, una fondatrice del gruppo che ci tiene a precisare che il collettivo non è un organizzazione ufficiale ma una comunità e uno spazio comune per i propri membri.
Segue un’intervista a Muxi Yao, Gufeng Ren (Henry Ren), Jin Ding e Zhaoyin Feng (dei quali il lettore troverà una bio in coda all’intervista). Le visioni qui espresse sono quelle personali degli intervistati e non riflettono necessariamente quelle delle organizzazioni per cui lavorano o degli altri membri del gruppo.1)I quattro membri di CST intervistati in questo articolo hanno tutti come base gli Stati Uniti, e non costituiscono perciò un campione esaustivo dei Chinese Story-tellers, molti dei quali operano in altre zone del mondo da Nairobi al Kirghizistan o si occupano di Cina lavorando per media in lingua inglese entro i confini della Cina. Il gruppo tende a comprendere oggi anche sino-americani, sino-malesi e membri di altra origine.
1. Siete un gruppo di giornalisti accomunati dal fatto di cercare, in modi diversi, di creare un ponte fra la Cina e il mondo occidentale. In che modi colmate questa distanza?
Zhaoyin Feng: Io penso spesso al pubblico in senso globale. Quando scrivo di Cina e Stati Uniti, per esempio, devo avere in mente i lettori di entrambi i paesi e del resto del mondo, così provo a mettermi nei loro panni. Ho descritto certe persone in modo equo? Sono riuscito a presentare tutti punti di vista?
Jin Ding: I giornalisti e i documentaristi di questo gruppo sono naturalmente avvantaggiati nel raccontare storie sulla Cina in quanto insider dotati di un’esperienza molto ampia di entrambe le società.
2. Negli ultimi anni un certo numero di giornalisti cinesi di talento ha cominciato a ricoprire posizioni importanti nei media stranieri, soprattutto negli Stati Uniti. Gli stessi CST sono un riflesso di questa tendenza. Puoi parlare di questa tendenza?
Zhaoyin feng: Nei media internazionali ci sono sempre stati alcuni giornalisti cinesi di talento, ma il numero negli ultimi anni è sensibilmente aumentato. Alcuni dei membri dei CST lavorano per Reuters, BBC, New York Times, Al Jazeera e Bloomberg. È una conseguenza della globalizzazione; molti di noi hanno studiato all’estero e sanno parlare bene l’inglese e altre lingue straniere. La nostra è una posizione privilegiata per spiegare la Cina al resto del mondo, e viceversa. È anche la censura mediatica della Cina che spinge questi giornalisti di talento fuori dal paese, alla ricerca di maggiore libertà per le loro attività.
Zhaoyin feng: Anche se nei media internazionali ci sono sempre più story-teller cinesi, rimaniamo comunque un gruppo sottorappresentato. Molte redazioni internazionali non hanno persone che conoscono la lingua e la cultura cinese in grado di raccontare storie sulla Cina che sono, oramai, delle storie globali.
Jin Ding: Siamo ancora distanti da dove vorrei che fossimo. Negli ultimi dieci anni gli studenti cinesi sono diventati probabilmente il più ampio gruppo di studenti stranieri nelle scuole di giornalismo americane, inglesi e australiane. Come mantenere questo slancio dopo lo studio? Come evitare di perdere questi talenti in erba a causa delle restrizioni nei visti? Come approfittare delle attuali tendenze all’inclusione nell’industria dei media? Mi piacerebbe far parte di un cambiamento più ampio, creando dei canali e dei percorsi per far entrare gli studenti cinesi di giornalismo nei media, per aiutarci a vicenda a fare meglio, per arrivare a occupare un giorno posizioni di leadership più visibili nei media in lingua inglese.
Muyi Xiao: Data la crescente interazione fra la Cina e il resto del mondo, il fatto che sempre più cittadini cinesi lavorino presso organismi stranieri non si limita all’industria giornalistica. In realtà, è possibile che ci siano nell’industria americana dei media molti meno professionisti cinesi di quanti non ce ne siano in settori come finanza e tecnologia, date le difficoltà per ottenere i visti. I giornalisti cinesi che lavorano nelle organizzazioni mediatiche internazionali sono in realtà ancora pochi. Per quanto in crescita, il loro numero è ancora abbastanza irrisorio.
Le narrazioni delle storie cinesi
3. Sia in Cina che in occidente ci sono spesso potenti narrazioni stereotipate/preconfezionate sulla Cina e sul suo posto nel mondo. Quali ti sembrano essere i problemi più evidenti in queste narrazioni?
Jin Ding: La narrazione che fonde stato, partito e popolo cinese impedisce ai lettori di guardare in modo empatico ai cinesi, che sono a loro volta vittime del sistema. Mentre capiamo chiaramente che la Casa Bianca non rappresenta l’intera popolazione americana, spesso i media occidentali parlano di “Pechino” per stabilire come certe questioni sono viste dalla Cina. Ma la Cina è un paese variegato e ciò non è sufficientemente compreso.
Muyi Xiao: Il problema più evidente probabilmente è la disumanizzazione degli abitanti della Cina, anche se la colpa non è soltanto dei media occidentali. Anche il governo cinese rende sempre più difficile ai giornalisti che lavorano per i media stranieri comunicare con le persone e raccontare le loro storie.
Zhaoyin Feng: Molte narrazioni dipingono il mondo come un gioco a somma zero, in cui occidente e Cina sono contrapposti. Per quanto ciò sia vero in alcuni casi, c’è bisogno di maggiori sfumature, per esempio per quanto riguarda gli aspetti della nostra comune umanità.
Zhaoyin Feng: La Cina per il pubblico internazionale mainstream tende spesso a essere rappresentata come l’“altro”, un remoto paese comunista in cui le persone sono o nazionalisti indottrinati o ribelli che sfidano l’autorità. Quanto agli Stati Uniti, invece, i personaggi che vediamo nei media cinesi sono spesso quegli americani “tipici” che soddisfano gli stereotipi: guerrieri dei diritti umani piuttosto che conservatori integralisti armati di pistola.2)Questa risposta e la seguente sono prese da una newsletter dei CST sulla diversità nei media firmata da Xinyan Yu.
Zhaoyin Feng: Quando lavoravo per i media internazionali in Cina a volte contestavo la mancanza di sfumature e di contesto. Se è vero che la censura e le restrizioni di accesso in Cina rendono difficile verificare molti dettagli, c’è da dire che alcuni media internazionali tendono a preferire alle sfumature e al contesto il racconto di storie esagerate. Dopo che mi sono trasferito negli Stati Uniti e ho cominciato a trattare di cronaca interna come giornalista non americano mi sono però reso conto che le mie apprensioni non riguardavano solo la Cina. Anche se negli Stati Uniti non dobbiamo preoccuparci della censura, l’enorme competizione per trovare argomenti originali in un settore altamente congestionato porta spesso i media a presentare personaggi poco tipici che non rappresentano tendenze generali.
Henry Ren: I media cinesi mainstream tendono selettivamente a enfatizzare i casi peggiori che descrivono l’America come un paese caotico e incompetente. Un esempio recente è un articolo del Global Times che parlava di gente negli Stati Uniti che durante il picco del COVID, la scorsa estate, comprava armi, accompagnato da foto inquietanti che in realtà provenivano da un evento completamente diverso avvenuto anni prima.
Henry Ren: In generale direi che i media stranieri lavorano meglio, ma ci sono comunque dei problemi. Senza parlare in termini assoluti, mi sembra che i media stranieri mainstream tendano a legare in modo eccessivo gli eventi che riguardano la Cina al suo governo. Prendi per esempio le misure di contenimento della pandemia: se torniamo indietro allo scorso febbraio, i media parlavano di quanto fossero estreme le misure e di quanto limitassero le libertà personali dei cittadini, legandole alla natura politica del PCC. Poi un mese dopo vediamo che le stesse misure sono prese dai paesi europei.
Un’altra narrazione mainstream, mi pare, è quella dell’“ascesa della Cina”, considerata il maggior rivale degli Stati Uniti. Quando si tratta di economia ne scaturisce una narrazione di competizione, vedi il caso della Huawei o le espulsioni dei giornalisti. Una narrazione molto importante è quella della competizione. Viceversa, la maggiore narrazione sull’Occidente in Cina è che i paesi occidentali stanno bloccando l’ascesa cinese. In questa narrazione c’è del vero ma ci sono anche esagerazioni. E però molti lettori cinesi prendono queste storie alla lettera, come quando i media cinesi affermano che gli Stati Uniti stanno condizionando ciò che Xi Jinping chiama “la nostra grande ripresa”.
4. Che cosa fai per correggere queste eventuali distorsioni?
Muyi Xiao: Il mio principio è attenermi ai fatti accertandomi di contestualizzarli in modo accurato; è importante non creare sproporzioni nella descrizioni dei fenomeni, e rimanere trasparenti nel modo in cui si rivelano i fatti e si raggiungono le conclusioni.
Henry Ren: Io mi occupo di economia statunitense per un pubblico internazionale. Nonostante ciò, come giornalista sento la responsabilità di comunicare con il pubblico cinese mettendo in luce fatti e contesti. Al momento fra Cina e Stati Uniti c’è un rapporto teso e su Wechat circola tanta disinformazione. Su Wechat ho un profilo abbastanza vario dove però recentemente ho pubblicato alcuni pezzi di chiarimento e di fact-checking. L’estate scorsa il Quotidiano del popolo ha pubblicato un articolo intitolato qualcosa come “10 questioni su cui gli Stati Uniti devono rispondere riguardo la pandemia da Covid-19”, contenente delle opinioni infondate sulle quali ho fatto fact-checking. Ho anche scritto un explainer sul funzionamento dei collegi elettorali e sui risultati delle elezioni, dato che molti (in Cina) ritenevano che Trump fosse in vantaggio negli scrutini. Anche se i miei followers sono solo poche migliaia, posso anche far circolare i miei post attraverso il giornale della mia ex università (Tsinghua University) che ha un pubblico di 80-90.000 persone. Il mio blog è completamente distinto dal mio lavoro quotidiano ma per me è importante.
5. Quali temi importanti dalla Cina secondo te sono trascurati dai media? Che tipo di storie andrebbero trattate di più e meglio?
Zhaoyin Feng: A me interessa l’influenza globale della Cina, una tendenza centrale che plasmerà il futuro del pianeta nei prossimi decenni, di cui voglio osservare e registrare sia i conflitti che le collaborazioni. Al momento queste sono questioni scarsamente toccate, molte redazioni pensano che l’informazione sulla Cina sia quella che proviene direttamente dalla Cina. Invece no, oggi le storie sulla Cina vengono da ogni parte del mondo, Italia, Stati Uniti, Kenya e via dicendo, perfino dalle isole Galapagos. Dobbiamo allargare il nostro sguardo per comprendere meglio l’influenza globale della Cina.
6. Oggi la propaganda nazionalista, sia in Cina che negli Stati Uniti, sembra minare la possibilità di produrre una comprensione reciproca accurata e articolata. In che modo il tuo lavoro come CST affronta queste questioni?
Jin Ding: La comunità che stiamo costruendo con il nostro network è uno spazio di dialogo onesto e sicuro e di formazione discreta. Prepariamo la prossima generazione di reporter e documentaristi cinesi su vari aspetti, dalla sicurezza digitale alla ricerca del lavoro alla creazione di storie sfaccettate. Il modo migliore per proteggerci è condividere abilità, network e conoscenze. Sostenendoci a vicenda riusciamo a liberare il nostro potere di raccontare, da cinesi, più storie che non siano propaganda.
Muyi Xiao: Il mio attuale lavoro di giornalista investigativa con un approccio forense alle indagini permette di conquistare la fiducia dei lettori producendo prove materiali piuttosto che testimonianze. Perciò cerco di raccogliere quanti più fatti possibile e di contestualizzarli in modo accurato. Altri membri del gruppo invece hanno altri tagli e altri stili con i quali si possono focalizzare sulla dimensione umana delle storie.
Henry Ren: È importante ricordare che nella cultura cinese c’è la visione fortemente radicata che l’informazione è una cosa positiva e che è al servizio della propaganda. Tale cultura nasce nel 1949 con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, in cui i media hanno sempre avuto lo scopo di riportare i progressi del Partito evitando le questioni negative.
Henry Ren: Dato che i media di stato sono legatissimi alla propaganda e si concentrano solo sugli aspetti positivi non sembra possibile, almeno nel prossimo futuro, che questi diventino più accurati o equilibrati. Per contro, i media stranieri incoraggiano il cittadino americano medio a vedere la Cina come il suo più grande rivale. È un peccato. Sarebbe utile tirare fuori altri fatti come per esempio quello che i due paesi collaborano fra di loro, visto che poi questo è quanto avviene in molti modi, come per esempio nell’agricoltura, dato che la Cina è uno dei più importanti destinatari dell’export statunitense. La collaborazione fra i due paesi però non viene messa in luce molto spesso.
7. Quali sono i problemi strutturali più critici nei media internazionali maistream per quanto riguarda la Cina? Quali sono gli aspetti che vengono più frequentemente fraintesi? In che modi si può servire meglio il pubblico internazionale?
Jin Ding: A questo punto finora non ho pensato molto. Di sicuro però un problema strutturale importante è quello della gestione del personale; in Cina negli uffici di corrispondenza c’è una gerarchia estrema, frutto del rigido controllo sull’impiego dei cittadini cinesi nei media stranieri da parte del governo cinese. Aggiungerei anche che le organizzazioni mediatiche dovrebbero capire che, se vogliono coprire un paese come la Cina, dare ai giornalisti cinesi i visti per soggiornare negli Stati Uniti o in un altro paese è estremamente importante. Rinunciare a un candidato cinese per risparmiare i 5.000 dollari che servono per rilasciare un visto significa perdere l’opportunità di offrire cronache più sfaccettate, umane ed esclusive.
Muyi Xiao: Il fatto che questi media hanno pochi giornalisti radicati in Cina, mentre al contrario molti giornalisti ben radicati hanno più difficoltà degli altri a fare carriera.
Henry Ren: Innanzitutto devo dire che in Cina ci sono molti corrispondenti stranieri brillanti ed è davvero scandaloso che tanti siano stati colpiti dal peggioramento delle relazioni fra Cina e Stati Uniti. Però mi pare che anche i media stranieri siano spesso manchevoli nei loro servizi dalla Cina. Le storie sulla gente comune con un risvolto umano sono importantissime, eppure sono trattate piuttosto di rado.
Henry Ren: Un fraintendimento è che essendoci molte storie sulle città costiere e sulla vita agiata se non lussuosa dei cinesi tanti credono che la Cina sia un paese ricco. Poi ci sono tutte quelle mega-aziende come Alibaba e Tencent. Il rischio è che non si capisca bene che ci sono ancora molte parti della Cina sottosviluppate in cui c’è gente che vive in condizioni di poco sopra la soglia di povertà. Queste non sono storie che si possono raccontare con i numeri perché, se guardiamo i dati del PIL cinese, questi risultano comparabili a quelli statunitensi. Senza dubbio un grande risultato, ma bisogna ricordare che la Cina ha una popolazione quattro volte superiore a quella degli Stati Uniti, il che vuol dire che il reddito pro capite dei cinesi è in media un quarto di quello statunitense. Questi temi non sono trattati molto bene né nei media occidentali né in quelli cinesi.
Henry Ren: Problemi sono emersi anche nel modo in cui nel 2019 è stata trattata la ricorrenza della repressione di Tian’anmen del 4 giugno 1989, quando ci sono stati numerosi casi di giornalisti stranieri che sono andati in strada a intervistare dei cinesi sulle loro opinioni di quegli eventi.3)Il 4 giugno 2019 giornalisti della BBC, CBS, ABC (Australian Broadcasting Corporation) e Deutsche Welle hanno fermato dei cittadini cinesi per strada mostrando loro la celebre foto dell’uomo che blocca il carro armato, ricavandone reazioni mute o imbarazzate interpretate dagli stessi giornalisti come ignoranza dei fatti o rifiuto a parlare degli eventi. Tuttavia, come membri del CST hanno osservato su Twitter e in un articolo pubblicato sul Columbia Journalism Review, è più probabile che gli intervistati fossero più che altro preoccupati per le punizioni che avrebbero potuto ricevere parlando di un simile argomento davanti alle telecamere straniere. È un esempio chiaro di come molti corrispondenti stranieri abbiano bisogno di capire quanto certe tematiche siano sensibili. Alcuni hanno addirittura filmato dal vivo i volti delle persone, incuranti dei poliziotti in borghese che si intravvedevano sullo sfondo. Non puoi proprio pensare di avvicinare le persone per strada in Cina come faresti negli Stati Uniti.
8. Cosa pensi dell’obiettivo di Xi Jinping di “raccontare bene le storie della Cina”? Qual è secondo te lo scopo di questo progetto nazionale, e che impatto ti sembra possa avere sull’informazione cinese mainstream ora come ora? Infine in che modo ti confronti tu stesso con lo slogan? In quale modo è possibile raccontare bene le storie della Cina?
Zhaoyin Feng: Nel contesto cinese “raccontare bene le storie della Cina” equivale a “raccontare storie positive della Cina”. Personalmente io mi confronto con lo slogan semplicemente nel senso che mi sforzo spesso di raccontare storie che hanno a che fare con la Cina, e cerco di farlo bene. Queste storie però non sono sempre positive. In questo senso sarei anche favorevole allo slogan, ma il significato che gli attribuisco è diverso, mi sa, da quello che Pechino cerca di imporre agli organi mediatici o ai giornalisti.
Muyi Xiao: “Raccontare bene le storie della Cina” vuol dire raccontare solo un certo tipo di storie. Noi giornalisti, però, non possiamo scegliere di raccontare solo le storie che ci piacciono, il nostro lavoro è quello di raccontare storie importanti in modo autentico.
Jin Ding: Cosa significa “bene”? Ognuno ha metri diversi ma chi è che decide questi metri? Io con lo slogan non mi confronto affatto perché abbiamo valori diversi. Quando il governo cinese permetterà le critiche, smetterà di limitare le possibilità di lavorare nei media stranieri per i cinesi e si impegnerà a proteggere la libertà di stampa, avremo una copertura giornalistica della Cina più omnicomprensiva.
Henry Ren: Se davvero vuoi raccontare storie credibili al pubblico straniero devi essere critico piuttosto che perseguire obiettivi di propaganda. Devi basarti sui fatti piuttosto che sulle opinioni. Ma esseri critici in Cina è la cosa difficile, no? Per questo non credo che i media di stato cinesi possano fare un buon lavoro in fatto di raccontare bene le storie della Cina. Detto questo, penso che ci siano modi di raccontare le storie della Cina anche al di là dei media di stato, per esempio con i social media. Prendi per esempio Chef Wang, un cuoco molto popolare in internet che con i suoi v-logs diffonde una certa comprensione dei modi di vivere della Cina rurale senza fare propaganda. Il punto è che i media cinesi di stato, secondo me, non sono in grado di fare questo tipo di lavoro, mentre un cuoco su internet ci riesce. Un’altra questione è che il pubblico straniero ha ben piantato nella testa che organi come il Quotidiano del Popolo eccetera sono parte del governo cinese o lo rappresentano. Così se anche il Quotidiano del Popolo da domani cominciasse a essere critico, avrebbe comunque bisogno di tempo per guadagnare credibilità.
Lovell, Chinese Story-tellers PDF
Immagine: Logo di CST
Sharron Lovell è fotogiornalista/videomaker e attualmente dirige un programma di Master in giornalismo multimediale accreditato presso un università del Regno Unito e svolto a Pechino. I suoi lavori sono stati pubblicati da National Geographic, Newsweek, The Guardian, ChinaFile, Foreign Policy, PBS, Politiken, The Wall Street Journal, The Economist, The Irish Times, The Independent, Le Monde, The Financial Times, oltre che UNICEF e UNHCR UK. @sharronlovell | www.sharron-visuals.com
Muyi Xiao lavora come giornalista e video producer presso il Visual Investigations Team del New York Times. Nel 2020 un video sui trasferimenti di manodopera nel Xinjiang a cui ha preso parte è stato finalista del premio Pulitzer. Fra i membri fondatori di CST, in passato ha lavorato per ChinaFile, Tencent e Reuters, seguendo la Cina da dentro e da fuori i suoi confini. Nel 2021 presiederà la giuria del Word Press Photo Digital Storytelling Contest. Fra i suoi lavori:
- Secret Video Offers Rare Look Inside Chinese Labor Program
- How China Is Reshaping the Coronavirus Narrative
- China Is Censoring Coronavirus Stories. These Citizens Are Fighting Back
Zhaoyin Feng lavora come reporter da Washington, D.C. per BBC World News, dove si occupa soprattutto di relazioni USA-Cina. In precedenza è stata corrispondente negli USA per Initium Media dopo avere svolto giornalismo investigativo a Hong Kong, specializzandosi in indagini transfrontaliere o casi di corruzione. Fra i suoi lavori:
- US election 2020: How US and China’s break-up could affect the world
- Chinese ‘democracy tourists’ see Iowa up close
Gufeng Ren (Henry Ren) è nato a Shanghai e attualmente lavora negli Stati Uniti, dove si occupa di economia presso Bloomberg News US, specializzandosi in approfondimenti sugli affari. I suoi lavori recenti si possono trovare su Bloomberg.
Jin Ding è program manager presso International Women’s Media Foundation, nonché co-fondatrice di CST. Fra i suoi lavori:
- A guide to navigating Chinese media
- An attack on Chinese journalists is an attack on press freedom
↑1 | I quattro membri di CST intervistati in questo articolo hanno tutti come base gli Stati Uniti, e non costituiscono perciò un campione esaustivo dei Chinese Story-tellers, molti dei quali operano in altre zone del mondo da Nairobi al Kirghizistan o si occupano di Cina lavorando per media in lingua inglese entro i confini della Cina. Il gruppo tende a comprendere oggi anche sino-americani, sino-malesi e membri di altra origine. |
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↑2 | Questa risposta e la seguente sono prese da una newsletter dei CST sulla diversità nei media firmata da Xinyan Yu. |
↑3 | Il 4 giugno 2019 giornalisti della BBC, CBS, ABC (Australian Broadcasting Corporation) e Deutsche Welle hanno fermato dei cittadini cinesi per strada mostrando loro la celebre foto dell’uomo che blocca il carro armato, ricavandone reazioni mute o imbarazzate interpretate dagli stessi giornalisti come ignoranza dei fatti o rifiuto a parlare degli eventi. Tuttavia, come membri del CST hanno osservato su Twitter e in un articolo pubblicato sul Columbia Journalism Review, è più probabile che gli intervistati fossero più che altro preoccupati per le punizioni che avrebbero potuto ricevere parlando di un simile argomento davanti alle telecamere straniere. |