“Chiunque parli della Cina parla di sé stesso”. Mentre stavo scrivendo questo intervento, sollecitato da Marco Fumian e dal dibattito che ha lanciato su Sinosfere, ho incrociato questa frase di Simon Leys. Inutile dire che, come spesso accade dopo la lettura di Leys, ho buttato tutto quanto avevo scritto fino a quel momento. Se è vero, se può essere vero, quanto afferma Leys, in questo contesto nel quale si discute di sinologia e del suo ruolo all’interno della generale comprensione della Cina contemporanea, da giornalista devo compiere uno sforzo non da poco per allontanarmi momentaneamente dalla realtà, dal fatto cioè di essere un giornalista e di sentirmi dunque tirato in ballo rispetto all’argomento in discussione nella sua declinazione più compromettente: quella di chi partecipa a un’informazione che viene data per scontato in quanto carente, difficoltosa, problematica, ecc.

Liquiderei questo tema invitando a un esercizio che la sinologia spesso richiede a chi si occupa di Cina: la Cina, si dice giustamente, non è monolitica. Ne esistono tante. Ne esistono di piacevoli e di temibili, di lampanti e di nascoste. Lo sforzo è cercare questa complessità e trovarne altra, altra ancora. È l’esercizio che solitamente si attribuisce alle relazioni sentimentali, del resto. Analogamente invito i sinologi a fare questo esercizio: il giornalismo sulla Cina non è monolitico. Ne esistono tanti. Ne esistono di piacevoli e di temibili, di lampanti e nascosti. Lo sforzo è esattamente lo stesso richiesto sul tema “Cina”: basta cercarli e si trovano (lo conferma il fatto che tra chi interviene sul sito sinosfere c’è anche chi ha collaborato con alcuni quotidiani italiani). Bisogna dare per scontato un tema, però: giornalisti e sinologi fanno due lavori diversi.

Aggiungo un ulteriore elemento: la balestra spaziale di un giornalista, spesso, è limitata dalla carta (è vero che esiste anche il web, ma non possiamo dimenticare che per quanto riguarda i decision maker, politici o economici, la carta ancora costituisce un fulcro informativo da non sottovalutare) e dai suoi spazi. L’invito, che faccio in primo luogo a me, è il seguente: scrivere nel modo più semplice in modo da rendere fruibile il contenuto a chiunque, senza provocare suicidi di massa di sinologi. Cercando cioè di essere rigoroso. Non sempre riesce questo equilibrismo ma questa è la bussola: semplice, rigoroso e in grado di offrire un contesto a quello di cui si scrive. Contesto che come vedremo non è solo cinese.

Dopodiché – infatti – c’è da valutare qualcosa che a mio avviso è imprescindibile, per uscire fuori dalla semplificazione tout court mainstream, ovvero la “lettura politica” di quanto accade, di quanto si scrive. Perché altrimenti – dal mio punto di vista – al giornalismo manca un pezzo, manca una capacità di modificare l’esistente o quanto meno contribuire a farlo.

E arriviamo al punto del mio intervento che trascende la Cina e anzi, proprio perché la Cina è inserita nel contesto globale (capitalismo, capitalismo di sorveglianza, l’affermarsi di populismi e sovranismi quando non direttamente nuove forme di fascismo o di governo “post-democratiche”) bisogna parlare anche di contesto generale del giornalismo italiano. Ovvero: si può fare informazione su un paese come la Cina uscendo dal binario del nemico-amico, tifoso-avversario, bianco e nero? La difficoltà di avere giornalismo di alto livello sugli esteri dipende ormai da quello che sembra un atteggiamento di interpretazione a due dimensioni. Più o meno da quando iniziò il conflitto siriano questa tendenza è aumentata: da allora, da una guerra per procura che offriva uno schema ghiotto per letture binarie (Usa e Ue da una parte, Russia e Cina dall’altra), tutto è finito per rientrare all’interno di questa pericolosa cornice. Cosa accade dunque? Che un articolo critico nei confronti della Cina è immediatamente accusato di essere stato dettato dalla Cia. Che un articolo positivo sulla Cina è immediatamente accusato di essere stato dettato dai terribili burocrati di Pechino. Non se ne esce. È anche difficile, in tempi fatti di informazioni raccolte in video di 10 secondi, tenere traccia del percorso di un giornalista.

Se si avesse il modo, ad esempio, ci si accorgerebbe che molti giornalisti hanno in mente – almeno così spero – in primo luogo il lettore e poi un proprio percorso di analisi e studio di un tema, sviscerato attraverso più articoli. Ma questo non toglie che – da giornalista – la cosa più complicata sia riuscire a stare fuori da questa lettura binaria.

Per uscire c’è solo un modo: inserire la Cina all’interno del contesto globale e – brutalmente – scriverne come se si scrivesse, ad esempio, di Stati Uniti. Quello che accade in Cina, ormai, ci riguarda perché parliamo di un paese i cui movimenti, interni ed esterni, condizionano o sono condizionati dal mondo nel quale il paese è inserito.

Spiegare i meccanismi che provocano alcune decisioni in Cina, provare a raccontare le tante Cine (un tema che ha poco appeal nelle redazioni, naturalmente) collegandole al sentimento del nostro tempo permette di uscire da letture e visioni binarie restituendo un senso politico agli accadimenti. Come ricordava Fabio Lanza, quanto succede ai migranti in Cina non è diverso da quanto accade nel Mediterraneo; i dispositivi di disuguaglianza cinesi non sono diversi da quelli di altri paesi occidentali. Di recente sul manifesto abbiamo pubblicato un articolo sulle condizioni dei riders cinesi, dal quale si evince come le contemporanee forme di sfruttamento, anche quelle determinate dagli algoritmi, siano molto simili. Perfino il populismo di alcuni leader occidentali non è così distante dal “populismo con caratteristiche cinesi” di Xi Jinping.

L’alchimia è riconoscere un contesto specifico cinese, senza che diventi giustificatorio, sempre più influente e influenzato dal contesto globale. Prendiamo il tema tecnologico di cui mi sono occupato di recente. Quanto accade in Cina ci permette di osservare sia la Cina sia noi. Ci permette di evidenziare peculiarità del sistema cinese, all’interno del più generale ombrello del capitalismo della sorveglianza. Ci permette dunque di scorgere all’interno del mondo capitalistico contemporaneo tendenze in atto che hanno ricadute politiche gigantesche: quegli stessi strumenti di potenziale dominio, in realtà tengono insieme i lavoratori precari – i riders dell’AI – europei, americani e cinesi. Il caso dei lavoratori del settore tecnologico (la 996 generation), la cui protesta ha visto la solidarietà degli omologhi occidentali, lo dimostra.

Ma non solo: nel suo ultimo libro, Cultura della sorveglianza (Luiss university press, 2020), David Lyon racconta come da controllati stiamo diventando tutti controllori (attraverso app, wearable objects, smart city, ecc). E non parla di Cina, non ne parla mai. Parla di noi, dell’Occidente.

Si dice che il compito dell’informazione sia quello di costruire ponti. Proviamo a ribaltare: questi ponti vanno costruiti con la dinamite all’interno, per fare detonare la realtà che pare impossibile da cambiare (come Mark Fisher racconta in modo potentissimo in Realismo Capitalista). Scrivere di Cina oggi, allora, è scrivere di sé, è un modo come un altro per scorgere movimenti, soggettività, capaci di scorgere similitudini, di riconoscersi ed esplorare nuovi terreni di conflitto: affinità in grado di fare saltare i ponti della diseguaglianza, del populismo, del dominio attraverso i nostri dati e il nostro lavoro.

È in questo contesto che la sinologia deve inserirsi, provare a dialogare con i media più ricettivi, per suggerire collegamenti, possibilità, immaginazione (anche) offrendo spunti di ricerca e metodi per collegare sempre di più due mondi che ruotano intorno allo stesso sistema economico. Se questo approccio continuerà a divenire minoritario, non c’è nessun problema. L’importante è che si possa trovare.

Immagine: foto di Håkan Dahlström