La radicalizzazione delle posizioni e dei conflitti – o almeno la attuale narrativa che tende a evidenziare soprattutto gli aspetti di radicalizzazione – corrisponde e contribuisce a generare sempre di più un atteggiamento che oppone i “filo-” agli “anti-” e questo, evidentemente, coinvolge anche le valutazioni sulla Cina e sul suo ruolo, anche se non è affatto un fenomeno che riguarda solamente le posizioni sulla Cina.

Da molte parti si chiamano i sinologi a “prendere posizione” su temi di attualità politica e spesso la cautela diventa sinonimo di codardìa, di silenziosa e colpevole compiacenza, quando non di interessata ambiguità. Io credo che uno studioso debba fare il proprio mestiere, con tutta l’onestà intellettuale della quale è capace, e che tale onestà implichi il dovere di dissentire anche laddove fosse scomodo; ma con la stessa forza credo che uno studioso non sia un influencer. Ritengo che, nell’accademia italiana, aspetti di ambiguità esistano, così come esiste una certa “timidezza” nell’affrontare il potente interlocutore cinese nella pratica della nostra vita professionale: ne ho parlato e scritto in diverse occasioni. Mi pare tuttavia di vedere serpeggiare sotto traccia anche nel mondo dell’accademia lo stesso, gravissimo rischio di divisione del campo in “filo-“ e “anti-“, che percorre la società contemporanea nella sua interezza, e che tende a promuovere una ottusa e pericolosissima semplificazione della complessità del mondo. Io non sono “filo-cinese” e non sono “anti-cinese”. Non fatico a dire che alla Cina mi legano anche elementi affettivi ed emotivi profondi, come è naturale che sia per un paese al quale ho dedicato la mia intera vita professionale e non poco spazio della mia vita personale. So che questi elementi costituiscono una parte non marginale del mio rapporto con la Cina e, pure se sono a me molto cari, sono consapevole che essi potrebbero scalfire l’approccio scientifico cui uno studioso si deve attenere. Cerco di studiare un mondo difficile, diverso, per molti aspetti anche opaco, sapendo che l’errore di valutazione e di interpretazione è dietro l’angolo e avendo la vitale necessità di un confronto con i colleghi in quanto studiosi ed esperti, non in quanto “partigiani” di una o dell’altra posizione. Ecco, la “partigianeria” mi pare un rischio che si profila all’orizzonte del nostro mondo accademico, e non mi pare un buon segno.Possiamo, dobbiamo avere opinioni diverse. Possiamo e dobbiamo difendere la legittimità di ogni posizione, purché scientificamente fondata: ovvero, possiamo dissentire sulle interpretazioni della realtà, non sulla necessità che uno studioso adotti, nell’affrontare la realtà, l’approccio scientifico che deve essergli proprio. Non siamo chiamati a esprimerci come “categoria”, sia ben chiaro; non sostengo l’ esistenza “ontologica” della sinologia, come monolite  magnetico che tutti ci deve attrarre; nel contempo, mentre interpreto la mia funzione e la mia professione anche nel senso di un impegno etico che caratterizzi il mio intervento nel tessuto sociale e al di fuori dell’ambito strettamente accademico, credo di avere, come studiosa, il dovere di sottrarmi alla partigianeria.

Per tornare a un tema al quale ho già dedicato alcune riflessioni, ma senza volere a esso dedicare troppo spazio, mi pare che la presenza degli Istituti Confucio in alcuni atenei e le valutazioni discordi sul loro operato, sulla loro funzione e sulla loro legittimità all’interno delle istituzioni accademiche italiane sia uno degli elementi alle radici di questa “partigianeria”. Chiarisco, semmai fosse necessario, che il dibattito su questo punto è sacrosanto. Sappiamo tutti che è o è stato vivace in tutto il mondo, con posizioni molto meno “monolitiche” di quanto a volte si dica anche nel mondo accademico americano (si veda l’articolo pubblicato il 20 ottobre da Edward A. McCord su Nikkei Asia, testata on line non esattamente “filo”-cinese), ma – in ogni caso – non è questo il punto. Sulla questione se gli Istituti Confucio siano un pericolosissimo strumento di soft power, preoccupazione che considero più che legittima e degna di attenzione, ho già dedicato alcune riflessioni che vanno parzialmente in una direzione diversa. Qui mi interessa una considerazione di altra natura: se la questione della presenza degli Istituti Confucio – o non importa quale altra questione – dividesse la sinologia italiana in “filo-“ e “anti-“, questa sarebbe una nostra gravissima responsabilità, NOSTRA, non dei cinesi, e uno scontro configurato secondo queste modalità sarebbe un colpo molto grave alla serietà e alla credibilità dei nostri studi. Semmai ci fosse qualcuno che davvero è interessato a una sinologia italiana “divisa”, non potrebbe che considerare una tale divisione come una propria, non trascurabile vittoria. Se ha un senso essere “severi” con la sinologia italiana attuale (e mi interessano in questo caso più le critiche interne che quelle esterne), questa severità va giocata sul terreno delle “competenze” e non su altri terreni.

In moltissimi ambiti, non solo in ambito sinologico, mi pare che si stia creando una situazione opposta a quella degli anni in cui mi affacciavo agli studi universitari: allora, in quanto sinologo, venivi interpellato su tutto. Ovvero, sinologo era colui che sapeva TUTTO sulla Cina. Presupposto pericoloso, certamente, ma che costringeva a mantenere un certo livello di competenza e di informazione anche al di fuori del proprio specifico ambito di ricerca. Oggi, assistiamo a un approfondimento delle competenze, a un indiscusso miglioramento di quelle di natura linguistica, ma, nel contempo, a una eccessiva focalizzazione sui propri specifici temi di studio, in un momento in cui l’idea che il “sinologo” debba sapere tutto sulla Cina è tutt’altro che tramontata e in cui, oggettivamente, lo spazio occupato dalla Cina sullo scenario internazionale ci chiama in causa più frequentemente di quanto non accadesse nel passato, non solo per rispondere eventualmente alle sollecitazioni dei media ma anche – e forse soprattutto – per fornire indicazioni, se non risposte, alle domande che ci pongono i nostri studenti. Ribadisco: lo studioso di Cina non è un influencer, ma oggi più che mai deve essere informato anche al di fuori del proprio particolare terreno di lavoro.L’allargamento della platea di coloro che si affacciano allo studio del cinese, con la presenza della lingua in un numero crescente di scuole medie superiori, ci pone anche un problema di “contatto costante” o, se vogliamo di “formazione permanente” rispetto ai docenti delle scuole medie superiori, di norma nostri laureati, i quali non necessariamente continueranno a fare ricerca, ma con i quali è vitale mantenere un rapporto fatto di aggiornamento, di formazione e di occasioni di incontro niente affatto unilaterali: anche la nostra didattica dovrà sempre più tenere conto che una parte dei laureati insegnerà nelle scuole. In uno scenario così complesso e in forte evoluzione è assolutamente necessario che non si facciano strada posizioni “partigiane” ed è necessario mantenere la lucidità di giudizio, anche nella legittima disparità di opinione. Dobbiamo elaborare strumenti per AVERE opinioni scientificamente fondate sulla Cina ed essere in grado di elaborare e trasmettere una metodologia di lavoro che consenta alle generazioni future di costruire su basi scientifiche una propria opinione. Su questo c’è certamente del lavoro da fare. Credo che ci sia stato un momento di grande crescita della sinologia italiana, dalla metà degli anni Ottanta fino all’inizio del nuovo millennio. Poi, la crescita di quel paese ha posto problemi nuovi e, forse, suscitato nuove paure. Di certo, ci ha chiamati a confrontarci con esigenze nuove, anche nel nostro lavoro. Di fronte a una situazione più complessa di quanto non fosse in passato, non sto chiamando a uno “Stringiamoci a coorte!”, ci mancherebbe altro. Le opinioni diverse e persino la verve polemica sono essenziali e vitali, ma non devono dare luogo a “logiche di gruppo”, vagamente tribali, che costituiscono una malattia endemica del mondo accademico, certo non solo di quello sinologico e in modo non più grave nel mondo sinologico di quanto non accada in altri settori disciplinari. La sinologia attuale, tuttavia, corre un rischio che forse altri settori in questo momento non corrono: non si tratta solo della cannibalizzazione dell’approccio scientifico da parte di posizioni ideologiche, non è solo divisione tra “scuole”, l’una contro l’altra armate, della quale fanno di solito le spese i piùgiovani. Queste deviazioni funeste sono note, e possediamo alcuni strumenti per combatterle. Per i sinologi, tuttavia, si affaccia un pericolo ulteriore ed esiziale, proprio a causa dell’importanza del paese che studiamo: allo spettacolo di sinologi tirati per la giacca da media più o meno interessati o persino dai piani bassi di qualche cancelleria credo nessuno voglia assistere, e la partigianeria a questo potrebbe condurre, privandoci di credibilità pubblica prima ancora che si sia affermata e sia maturata una nostra reale presenza nel dibattito pubblico non accademico.

Ho iniziato a studiare cinese nel 1977. Al mio primo anno eravamo una dozzina di studenti. In Cina era da poco morto Mao e si erano dissolte le parole d’ordine della Rivoluzione Culturale, all’apparenza come neve al sole. Certamente gli strumenti per conoscere il paese erano infinitamente inferiori a quelli oggi a nostra disposizione; ciò detto, anche in moltissimi ambienti universitari, la narrazione prevalente era che la Cina fosse un grande paese, impegnato in un esperimento di eguaglianza sociale da una posizione coraggiosamente “terza” rispetto alla logica dei grandi blocchi. Era una visione edulcorata, alla quale contribuiva certamente l’assenza di informazioni di prima mano, ma alla quale non era estranea una lente di lettura ideologica, figlia, se vogliamo degli echi del ’68 e dei cosiddetti gruppi “marxisti-leninisti”. A questa visione, schematizzando, si opponevano i marxisti “ortodossi”, vicini alle posizioni del P.C.I.: ricordo bene una conferenza durante la quale una notissima ed egregia studiosa di Cina di area P.C.I., per rispondere a chi, tra il pubblico presente, criticava l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam (erano gli anni del conflitto sino-vietnamita), aveva liquidato i Khmer come “un popolo di selvaggi”, suscitando l’indignata reazione dell’allora direttore della Biblioteca dell’IsMEO, presente all’incontro. Sapevo poco o nulla dei Khmer, ma l’affermazione parve forte anche a me. Non la dimenticai più, e mi tornò prepotente alla mente quando visitai le rovine di Angkor-Wat. Mi scuso per questa digressione personale: mi serve solo per chiarire, a scanso di equivoci, come il pericolo della partigianeria sia vecchio come il mondo ma come oggi più che mai – di fronte a nuovi pericoli di instabilità e di recessione economica globale – esso sia estremamente rischioso e, se vogliamo, maggiormente “colpevole”: il mondo si fa via via più complesso, ma gli strumenti per l’elaborazione critica sono oggi piuttosto abbondanti. Nel contempo, le occasioni nelle quali oggi siamo sollecitati a intervenire nel dibattito “pubblico” diventano più numerose, ma il dibattito pubblico è oggettivamente distorto, non so se da noi più che altrove, comunque, in generale distorto. Con pochissime eccezioni, la carta stampata cerca l’intervento che fomenti la polemica, i media sono a caccia di “ascolto” e i social di like. In qualità di esperti, spesso meno abili a maneggiare i media di quanto noi stessi crediamo, corriamo il rischio di diventare funzionali a interessi che non sono i nostri. Mi pare che l’inflazione di virologi in tempi di CoVid lo dimostri ampiamente. Non sto naturalmente dicendo che dobbiamo stare lontano dai mezzi di informazione generalisti o dai social. Sto dicendo che semmai cedessimo alla logica del “filo-“ e dell’”anti-“, gli esiti sarebbero assai più nefasti di quanto accadeva 30 o 40 anni fa. Perché i media non sono quelli di allora, perché l’attenzione verso la Cina non è quella di allora, perché l’importanza della Cina non è quella di allora. Io non intervengo su un quotidiano con le stesse parole che utilizzo con i colleghi. Dico sostanzialmente le stesse cose, ma con una attenzione molto diversa rispetto ai rischi di essere fraintesa o strumentalizzata, e questo credo faccia parte dei miei doveri di studiosa. Io credo che la nostra comunità di studiosi debba riconoscersi in alcuni presupposti comuni e ritengo che la comunità italiana degli studiosi di Cina una serie di presupposti in comune li possegga certamente. Mettiamo dunque insieme i presupposti condivisi e rispondiamo concretamente con iniziative puntuali anche su temi specifici; per tornare a uno dei temi che potenzialmente posseggono, a mio avviso, la possibilità di dividerci in fazioni opposte, stiliamo una Carta condivisa tra gli Atenei che indichi i principi cui debba ispirarsi la collaborazione con gli Istituti Confucio. In questo modo, semmai qualcuno intendesse operare sulla base del divide et impera, troverebbe maggiori ostacoli sul proprio cammino. E sia chiaro che una eventuale divisione “partigiana” della nostra comunità di studiosi farebbe assai più danni della presenza degli Istituti Confucio.

La questione della collaborazione con la Cina, nelle diverse forme che abbracciano l’ambito accademico ma si spingono, naturalmente, sul terreno politico ed economico è oggi più che mai all’ordine del giorno e chiama certamente i sinologi a una riflessione. Anche l’attuale emergenza pandemica evidenzia alcune questioni cruciali che non possono essere eluse con il mantra rassicurante: “In ogni caso, preferisco vivere in un paese democratico.”

Di fatto, alcune delle iniziative intraprese dall’Occidente in tempi di CoVid – ma anche in epoche precedenti, in qualche misura richiamano – mi si perdonerà la provocazione – quanto la Cina tentò di fare alla fine dell’Ottocento, quando, sconvolta dalla débâcle delle Guerre dell’Oppio, una parte della classe dirigente, costituita da intellettuali di buona volontà ma non sufficientemente preparati, coniò la parole d’ordine Zhong xue wei ti, xi xue wei yong (中学为体,西学为用, “il sapere cinese come fondamento, il sapere occidentale come strumento”); in un momento di evidente difficoltà delle democrazie, ci si sofferma poco a riflettere che cosa NON funzioni nelle nostre democrazie e molto a discutere sulle storture dei sistemi altrui e, in particolare, si evita di porre il tema assolutamente centrale della PREPARAZIONE della classe dirigente – problema assai più grave, pervasivo e comune nelle democrazie occidentali di quanto non sia in Cina. Allo stesso modo non si riflette abbastanza sulla nuova veste assunta dalla democrazia e dai meccanismi che determinano le scelte dell’elettorato, sempre più condizionato dai media e dalle reazioni d’istinto (il politico di successo è, innanzitutto, un performer, anche lui un influencer). L’assunzione di posizioni di responsabilità da parte di persone troppo spesso non abbastanza preparate indebolisce le nostre democrazie ed è evidente alla classe dirigente cinese, rafforzando la sua convinzione intorno alla propria superiorità, o almeno la narrazione condotta in questo senso dalla propaganda, che trova terreno fertile in un nazionalismo cui certo non si vuole porre correttivi. Ma, in alcuni casi, al netto dall’affermazione che ci vuole convinti sostenitori dei sistemi democratici (e personalmente lo sono, vorrei fosse chiaro) non possiamo fare finta che questo “complesso di superiorità” sia figlio solo della propaganda. I giornali ci hanno raccontato in questi giorni della decisa riluttanza di molti cinesi del nostro paese a mandare i figli a scuola, motivata in sostanza dal fatto che la Cina aveva operato in modo diverso per contenere la pandemia. Fatto salvo il sacrosanto principio che chiede a chiunque di rispettare le regole e le leggi del paese nel quale si trova, questo comportamento non può non farci riflettere. Non è la “propaganda” ad avere motivato queste famiglie, è la scarsa fiducia nel modo di operare del governo del paese nel quale si trovano, paragonato all’azione del governo del loro paese d’origine. Rispondere che i sistemi autoritari sono in certe circostanze più efficaci degli altri risponde solo in parte al problema, di certo non lo risolve, e nutre in noi una acritica convinzione della superiorità dei nostri sistemi di governo, di cui certamente continuiamo a sottoscrivere i principi, ma che sono sempre più lontani dalla perfezione e, in qualche misura, forse anche dalla democrazia. Ci siamo scandalizzati per i sistemi di controllo pervasivo attraverso i sistemi di tracciamento che la Cina certamente utilizza, ma ne abbiamo messo in campo uno scarsamente efficace senza un diffuso dibattito e una buona conoscenza della sua natura, del suo impatto, dei meccanismi che lo rendono o lo renderebbero sicuro dal punto di vista della difesa dei dati sensibili. Con quale gara pubblica è stato conferito l’incarico di elaborarlo? Chi esattamente lo possiede? Chi esattamente lo controlla? A chi si rivolge il cittadino nel caso in cui dovesse ritenere che si sia verificato un uso improprio dei suoi dati? Abbiamo guardato con legittima preoccupazione al sistema dei “crediti sociali”, in fase di ampia sperimentazione in Cina, ma, nel tempo, la stampa ci ha raccontato assai poco del Fico Score, sistema di raccolta di dati sensibili elaborato alla fine degli anni Ottanta dalla Fair Isaacs Corporation e seguito nel 2006 dal Vantage Score, frutto del lavoro congiunto di alcune delle più importanti agenzie mondiali per la gestione del credito, finalizzati a valutare la affidabilità sul piano creditizio di chi voglia accedere a un prestito bancario o a un mutuo negli Stati Uniti.1)Si vedano, tra gli altri, Mehdi Pour-Khosrow, Advanced methodologies and technologies in Media and Communications, USA, Information Science Reference, IGI Global; Yanhao Wei, Pinar Yilidrim, Christopher Van Den Bulte, Chrysanthos Dellarocas, Credit Scoring with Social Network Data, University of Pennsylvania, 2015. Né sappiamo molto del Schufa (Schutzgemeinschaft für allgemeine Kreditsicherung), un sistema nato addirittura con finalità diverse negli anni Venti del XX secolo e oggi gestito dalla SCHUFA Holding AG, azienda privata, sempre con la sostanziale finalità di attribuire una valutazione sulla attendibilità creditizia dei cittadini, attraverso un sistema a punti che ne traccia i consumi, la propensione al debito, la puntualità nei pagamenti. Non ho competenze sufficienti né ho fatto studi sufficientemente approfonditi per analizzare nel dettaglio i sistemi cui faccio qui riferimento, mi interessano una questione di metodo e un quesito di fondo: quanto è serio e privo di pregiudizi, dalle nostre parti, il dibattito sul rapporto tra tecnologie per il controllo dei big data e dei dati personali e la democrazia? Quanto ci culliamo nell’illusione che si possano estrapolare degli strumenti “utili, “comodi”, “rapidi” da un insieme di azioni potenzialmente autoritarie senza che questo non incida drammaticamente nel funzionamento delle nostre democrazie? Fino a quale livello, appunto, stiamo ripetendo l’errore di quella classe dirigente cinese insufficientemente preparata che, alla fine dell’Ottocento, aveva creduto di potere estrapolare dall’Occidente solo alcuni “strumenti”, lasciando sostanzialmente intatto l’impianto generale della società?

Diciamo, a ragione, che la libertà di espressione in Cina è fortemente limitata. Noi avremmo dei margini infinitamente superiori. Quanto li utilizziamo? Nell’ultimo numero di The China Quarterly, l’articolo “Maintaining Social Stability without Solving Problems: Emotional Repression in the Chinese Petition System” di Rui Hou mi ha offerto lo spunto per alcune riflessioni sulla nostra società. Il saggio si concentra sull’azione dei funzionari locali, alla base della piramide amministrativa, il cui compito è di accogliere le segnalazioni e i motivi di insoddisfazione della popolazione con l’obiettivo finale di demobilize social dissent. Rui Hou  sottolinea l’azione “psicologica” operata dai funzionari del “sistema delle petizioni” (信访, xinfang), in un sistema di controllo all’apparenza non coercitivo, e sostiene che si tratti di una modalità di controllo del consenso tipica dei sistemi autoritari. Modalità all’apparenza opposte mi sembra operino sempre più frequentemente nelle nostre democrazie. Ancora una volta faccio riferimento a fatti recenti. Le iniziative intraprese in questi giorni dal governo italiano per bloccare la pandemia hanno determinato la protesta pubblica di una serie di “micro-gruppi” sociali: ristoratori così come commercianti o operatori della cultura e dello spettacolo. In questi ultimi giorni, con una regolarità allarmante le piazze sono state infiltrate da professionisti della guerriglia urbana. Noi, la maggioranza, siamo rimasti in casa a guardare e a commentare. La società civile nel suo complesso potrebbe riprendersi le piazze per protestare, per manifestare inquietudine, per incalzare i governi. Non corriamo alcun rischio nel farlo. Ma nell’Europa occidentale questo accade sempre più raramente e la “corporativizzazione” dei problemi, quando non dei gruppi sociali, risulta sempre più evidente. La soluzione è demandata ad altri, più o meno all’altezza della sfida, la nostra vigilanza si accende solo se siamo direttamente toccati. Anche questo “demobilizza il dissenso sociale” e lo rende incapace di incidere. Studiare la Cina deve servirci per comprendere meglio la Cina, per comprendere noi, per comprendere il futuro prossimo. La Cina ha lanciato in questi giorni il suo nuovo piano quinquennale. L’attenzione posta sullo sviluppo delle alte tecnologie rende la questione urgente. Noi sinologi possiamo avere un ruolo: studiando, dibattendo con i nostri studenti, confrontandoci tra di noi, svolgendo un ruolo attivo nella vita pubblica, se lo riteniamo, ma senza dividerci in “fronti”.

 

References
1 Si vedano, tra gli altri, Mehdi Pour-Khosrow, Advanced methodologies and technologies in Media and Communications, USA, Information Science Reference, IGI Global; Yanhao Wei, Pinar Yilidrim, Christopher Van Den Bulte, Chrysanthos Dellarocas, Credit Scoring with Social Network Data, University of Pennsylvania, 2015.