Del movimento di Hong Kong del 2019 sembrano svanite le tracce. Oggi sono molto più in primo piano alcuni isolotti sabbiosi del Mar cinese meridionale, oggetto di contese territoriali che suonano come sinistri segnali di intenzioni belliche. Un movimento così imponente, però, non va lasciato nell’oblio, perché quando le masse entrano sulla scena politica c’è sempre da trarne qualche lezione.
Abbiamo fatto tre viaggi di inchiesta in Cina tra il 2017 e 2019, incontrando vecchi e nuovi amici, con i quali abbiamo condiviso ragionamenti e interrogativi. Le note che seguono sono una prima sintesi di alcuni dei temi che ci hanno fatto più riflettere.
I “due sistemi”
Il governo cinese si ostina a dichiarare che la nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong è la massima realizzazione della formula “un paese, due sistemi”. Non ci sono forse tutte le evidenze che, al contrario, come dicevano alcuni slogan polemici del movimento nei mesi scorsi, essa equivalga a “un paese, un sistema”, vale a dire ad applicare a Hong Kong il sistema della RPC?
Le dichiarazioni del governo cinese non vanno però trattate solo come vuota retorica. In effetti, la Cina è già un paese con “due sistemi di autorità”, nel senso elementare del potere di conseguire obbedienza al comando. Da quattro decenni, dalle “riforme” di Deng in poi, la Cina è governata dal peculiare equilibrio tra due sistemi generali di comando: quello del capitalismo e quello del PCC. Essi si intrecciano e si alimentano reciprocamente, ma svolgono altresì due funzioni distinte. Uno prescrive, l’altro proibisce, uno impone cosa fare, l’altro cosa non fare.
L’autorità capitalistica prescrive ai subordinati modi e tempi di erogazione della forza-lavoro che essa acquista sul mercato. In Cina come ovunque, i salariati, quando vendono la loro “merce”, sono tecnicamente subordinati all’autorità incondizionata del capitale, devono fare ciò che essa impone loro. L’autorità del PCC svolge invece un ruolo essenzialmente interdittivo. Al primo punto del suo statuto, esso continua a proclamarsi “avanguardia della classe operaia”. Anche qui non è solo retorica: vuol dire che il PCC è, di fatto, la sola possibile organizzazione politica “legale” dei salariati. Questi, e per estensione tutti coloro che non sono nei posti di comando della doppia autorità, non possono, o meglio non devono, organizzarsi politicamente in modo indipendente. I salariati non devono, cioè, organizzare essi stessi il loro pensiero, le loro voci, desideri, speranze, richieste di cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro, e in definitiva la loro resistenza all’autorità capitalistica.
L’intreccio e la connivenza tra queste due forme di autorità – quella interdittiva del PCC e quella prescrittiva del capitale – sono al fondamento dell’odierna stabilità governativa in Cina. La doppia autorità è il risultato della reazione alle sperimentazioni politiche degli anni ‘60-‘70. L’autorità interdittiva esisteva anche prima, era intrinseca allo Stato socialista, ma era stata scossa alle fondamenta dalla Rivoluzione Culturale. Le “riforme” di Deng consistono nel rimettere in vigore l’autorità classica del capitale, a fianco di quella del partito comunista, che da solo non ce la faceva più a mantenere la stabilità. “Stabilità” è un termine di cui non si può sottovalutare la portata nell’ideologia e nella pratica del governo cinese. Essa è il principio chiave della “teoria di Deng Xiaoping” (parte integrante dello Statuto del PCC). “La stabilità deve prevalere su tutto”, dichiarò Deng nel febbraio 1989, e dimostrò poco dopo cosa intendeva dire.
Il PCC mira a estendere questo doppio sistema di autorità anche a Hong Kong, proprio in nome della “stabilità”. Il problema è però che lì la sua organizzazione è incomparabilmente più debole rispetto a quella di cui il partito-stato dispone nel resto della Cina (90 milioni di membri). Questo spiega anche la durezza delle iniziative del PCC su Hong Kong. Per esercitarvi la sua autorità interdittiva non è sufficiente che si proclami “avanguardia della classe operaia”. Il suo tentativo alcuni anni fa di promuovere un’“educazione patriottica” (che valorizzava il ruolo storico del PCC) era stato fallimentare. In ogni caso, a Hong Kong manca quella rete di comando strutturata e gerarchizzata con cui il partito opera in Cina.
La sola strada per assicurare la stabilità è stata dunque estendere alla Regione Amministrativa Speciale l’efficacia del suo apparato repressivo. Il PCC ha tentato, prima, di imporre la legge sull’estradizione, che è stata fermata dal grande movimento di protesta dell’anno scorso. Negli ultimi mesi, sfruttando al meglio tutte le circostanze e agendo con tempestività , è riuscito a imporre la “Legge sulla sicurezza nazionale”.
Forza e debolezza del movimento di Hong Kong
Una questione inaggirabile è: come mai un movimento di proporzioni così vaste e inattese, con un milione di persone per le strade in giugno 2019, è riuscito a bloccare la legge sull’estradizione, ma è apparso debolissimo nei confronti della nuova legge, ben più coercitiva?
Siamo stati a Hong Kong più volte, l’ultima durante le manifestazioni di dicembre scorso. Abbiamo incontrato attivisti, studiosi locali e stranieri, artisti, studenti, gruppi di volontariato, gente d’ogni tipo incrociata per strada durante le manifestazioni. Abbiamo cercato di domandare loro come pensavano quegli eventi, come vedevano le prospettive politiche in cui essi stessi si muovevano assieme a quelle altre centinaia di migliaia di persone di ogni genere, età e condizione sociale.
Quell’energia collettiva suscitava simpatia e rispetto. I problemi sollevati dal movimento, come ci dicevano gli interlocutori più riflessivi, sarebbero stati di lunga durata. Tuttavia, abbiamo ricavato più volte il senso di una sproporzione tra l’energia di quella spinta di massa e la fragilità del pensiero politico che essa riusciva a manifestare. Ci inquietava, ad esempio, non riuscire a raccogliere risposte meditate su cosa significasse “Revolution of our times”, o “Liberate Hong Kong”. Ancor più ci colpiva l’assenza di organizzazione, non perché mancassero capacità tattiche (i ragazzi usavano agilmente i social network per organizzare il “cat-and-mouse” con la polizia), ma perché lo spazio di dibattito pubblico sugli eventi era rarefatto e appariva bloccato sui temi cruciali.
L’illusione di un “noi” fondato su un’“identità etnica”, per non dire “culturale”, di Hong Kong (una sua ricchezza è semmai la compresenza di tradizioni culturali e linguistiche disparate), contrapposta a un’“identità cinese” (non meno problematica), ha funzionato come consolazione narcisistica. L’autocompiacimento della “Hongkongness” ha in definitiva ostacolato la riflessione sui dilemmi del movimento, le vie da seguire per crescere politicamente, gli ostacoli da superare, come isolare i reali bersagli e come rivolgersi ai possibili alleati.
La conseguenza più grave è che questa “identità”, palesemente immaginaria, ha oscurato il problema di quale fosse la sorgente di quella spinta di massa. Questa era talmente forte, vasta e prolungata che la sua fonte soggettiva, così come anche i suoi destini politici, non potevano essere localizzati nella sola Hong Kong. Anzi, coinvolgevano l’intera situazione cinese. La contrapposizione di Hong Kong e Cina ha impedito al movimento di interrogarsi sulla propria singolarità soggettiva e, al tempo stesso, di distinguere amici e nemici. Ha perfino spinto a trattare come antagonistiche le contraddizioni in seno al popolo, anzitutto tra le masse di Hong Kong e quelle del resto della Cina.
Un’ipotesi che abbiamo cercato di discutere con varie persone incontrate a Hong Kong, visto che spesso ci chiedevano che cosa pensavamo della situazione, e in fondo perché ci interessava tanto, era che quel movimento facesse apparire il sintomo di un “disagio civile” che tocca l’intero popolo cinese. Quella spinta si manifestava così tumultuosamente a Hong Kong, perché lì era più debole l’autorità interdittiva. Il fenomeno è paragonabile al “ritorno del rimosso” teorizzato da Freud. Ciò che viene “rimosso” (in nome della stabilità) “ritorna” nelle condizioni in cui quell’autorità non riesce ad esercitare il suo comando. La fonte del movimento di Hong Kong va cercata nell’angoscia rispetto alla pressione della duplice autorità, capillarmente diffusa in tutto il paese. Essa si è potuta manifestare a Hong Kong, dove la censura era allentata, mentre nel resto del paese ogni sintomo di quel tipo viene drasticamente soppresso.
Soppresso, ma inevitabilmente mai del tutto cancellato. Negli ultimi anni abbiamo fatto tre lunghi viaggi in Cina. Molti degli interlocutori che abbiamo incontrato (studenti, operai, insegnanti, funzionari di livello medio-basso e piccoli imprenditori) manifestavano apertamente un notevole grado di insofferenza nei confronti della stretta coercitiva in atto. La nomina di Xi Jinping nel 2012 viene considerata l’inizio di politiche di disciplinamento, divenute sempre più rigide ed estese, specialmente negli ultimi tre anni.
Tra gli episodi, all’apparenza circoscritti, ma emblematici della stretta repressiva, il più noto in Cina e all’estero è l’“incidente della Jasic”, una fabbrica di Shenzhen, dove nel 2018 viene arrestato un minuscolo gruppo di operai che vuole organizzare un sindacato indipendente, visto che quello ufficiale prende regolarmente le parti dell’azienda. Si tenga conto che in Cina lo sciopero è illegale. L’autorità interdittiva, che scatta quasi subito, riguarda proprio l’auto-organizzazione politica. Lo conferma anche l’arresto, nelle settimane successive, di oltre cinquanta studenti delle migliori università cinesi. Erano partecipanti a vari gruppi di studio marxisti e maoisti, andati a portare la loro solidarietà a quegli operai. La soppressione del piccolo movimento della Jasic si estende ad altri fenomeni di sindacalismo autonomo della regione. Nella stessa logica, l’arresto degli studenti viene seguito dalla chiusura d’ufficio di tutti i gruppi di studio politico autogestiti nelle università.
Questi specifici episodi, e molti altri, erano ben noti alla gente di Hong Kong, che ha contatti costanti col resto del paese (Shenzhen, peraltro, è a pochi chilometri) ed è dunque al corrente dell’irrigidimento disciplinare degli ultimi anni. Questa situazione ha marcato profondamente l’orizzonte soggettivo del movimento di Hong Kong, anche se all’apparenza non c’erano legami diretti.
La resistenza di massa alla legge sull’estradizione è stata certamente accesa dall’indignazione per il colpo di mano con cui il governo di Hong Kong ha cercato di estendere l’autorità giudiziaria del PCC sulla città. Eppure, l’energia, per così dire, tettonica del cataclisma con epicentro Hong Kong proveniva da strati geologici ben più estesi e profondi. Vale a dire, dall’insofferenza latente tra la gente in Cina per l’estensione dell’autorità interdittiva. Insofferenza che si fa riconoscere, anche quando è rivestita di fatalismo e persino di rassegnazione.
Il problema di questa fonte soggettiva, disseminata nell’intera Cina, è rimasto però fuori dall’orizzonte dell’opinione media del movimento di Hong Kong. È mancato così il passo fondamentale di offrire e chiedere solidarietà alle grandi masse cinesi, in quanto sottoposte alla stessa oppressione. In breve, il movimento ha mancato di rivolgersi ai suoi principali possibili alleati. Anzi, si è manifestato perfino un antagonismo insensato nei confronti dei “cinesi”, alimentato essenzialmente da un “narcisismo delle piccole differenze”, tanto immaginario quanto distruttivo.
Viceversa, si sono fatti spazio nel movimento, fino a proclamarsene “portavoce”, alcuni gruppi – loro sì, assai ben organizzati – i quali agitavano la bandiera dell’“indipendenza” e invocavano a gran voce l’intervento americano e britannico contro la Cina “in difesa della democrazia e dei diritti umani”. Da quel che abbiamo visto, nelle manifestazioni il gruppetto dei portabandiera USA e GB erano una ristretta minoranza, poche centinaia di persone che marciavano compatte in mezzo a centinaia di migliaia di altre.
Su questo punto, l’assenza di uno spazio di dibattito pubblico ha avuto conseguenze letali, perché ha soffocato un pensiero indipendente capace di prendere le distanze da ogni politica di potenza. Si poteva perfino sentire, tra le gente più varia, l’argomento che gli atti ostili degli USA verso la Cina avrebbero potuto portare vantaggi al movimento. Queste furbizie da piccoli politicanti trovavano purtroppo ascolto e non venivano messe in discussione, anche per il presupposto che non bisognasse criticare componenti del movimento per non minarne la compattezza. Dal canto suo, il governo cinese ha avuto buon gioco a presentare queste posizioni come l’essenza del movimento di Hong Kong, e dunque a screditarlo nell’opinione pubblica della RPC.
Altrettanto negativi sono stati gli effetti dell’assenza di un dibattito all’interno del movimento sull’immaginario insurrezionalista che animava l’attivismo di molti giovani. Nonostante la loro generosità, inquietava il loro eroismo guerriero e perfino la vocazione al martirio, come nel mortifero slogan che recitava “If we burn, you burn with us”. Così, in novembre, centinaia di studenti si sono lasciati intrappolare dalla polizia asserragliandosi a “difendere il Politecnico”. Anche su questo problema però, era diffusa l’opinione che non bisognasse minare l’unità del movimento criticando dei giovani “valorosi”. Essi venivano considerati come militanti in prima fila a difendere le masse pacifiche di manifestanti dalla polizia, la cui brutalità peraltro era ben visibile ad ogni momento.
Ci si può domandare se l’approvazione della Legge sulla sicurezza non abbia chiuso definitivamente il movimento di massa iniziato nel giugno 2019. È difficile fare previsioni, tranne su un punto. Quella spinta collettiva riprenderà ad esistere solo quando sarà in grado di fare un bilancio approfondito della sua stessa energia, dei suoi limiti interni e dei suoi reali obbiettivi. Affinché questo bilancio venga fatto occorre lo sforzo collettivo di molte voci e un vasto spazio di organizzazione intellettuale indipendente. Non se ne vedono i segni. Si può solo sperare che delle nuove idee covino sotto la cenere e vengano fuori in modo inatteso.
È possibile comunque trarre una lezione generale. Più è grande un movimento di massa, in termini di partecipazione, durata e intensità, più è urgente l’elaborazione di un pensiero politico originale. Col corollario che, se questo pensiero non si costituisce, non solo il movimento è destinato a disperdersi, ma l’autorità di governo è pronta a prendere misure ancora più drastiche per prevenire che il fenomeno possa apparire di nuovo. Negli scorsi anni abbiamo visto nel mondo movimenti di massa anche di grandi dimensioni disperdersi quasi di colpo, lasciando che la scena venisse occupata da governi ancora più repressivi. Il movimento di Hong Kong finora ne è una conferma.
In ogni fenomeno, diceva quel sottile dialettico che era Mao, sono le “cause interne” che decidono lo svolgimento dei processi. Le “cause esterne” possono agire solo attraverso quelle interne. La sconfitta e la dispersione del movimento di Hong Kong sono state sì decretate dalla capacità del PCC di intervenire tempestivamente con le restrizioni sulla pandemia e subito dopo con la Legge sulla sicurezza, ma queste non avrebbero potuto operare senza far leva sulle debolezze del movimento, sulle sue cause interne.
Una guerra incombente?
A intricare la matassa del movimento di Hong Kong, c’è stata la serie di ostilità del governo americano nei confronti di quello cinese. L’illusione di trarre vantaggi dalle sanzioni USA ha appiattito la situazione di Hong Kong a pedina nel contrasto tra due superpotenze. Abbiamo domandato a varie persone incontrate nel dicembre scorso che cosa poteva accadere per il movimento se il contrasto USA-Cina fosse sfociato in un conflitto militare. La maggioranza delle risposte era fatalista, ma non sembrava neppure che il problema fosse per loro essenziale.
Abbiamo sentito anche risposte più inquietanti, come quella di un’attivista, peraltro con una certa esperienza di movimenti di protesta a Hong Kong fin dagli anni precedenti, la quale ci ha detto che non sarebbe cambiato nulla, perché “tanto siamo già in guerra”. Abbiamo cercato di replicare che una guerra militare sarebbe un disastro per Hong Kong e per i popoli di tutto il mondo, e che inoltre si tratta di capire bene la natura di questa guerra. Controreplica: “la guerra è sempre la guerra”. Quasi impossibile argomentare ulteriormente con lei.
Certo, ci sono le avvisaglie di una guerra incombente. Da commerciale e tecnologica, può evolvere in una guerra militare, ma, qualunque ne sia l’estensione, non può essere “sempre la stessa guerra”. Anzi, per la natura dei contendenti, è una guerra inedita, diversa tanto dalle due guerre mondiali, quanto dalla Guerra Fredda, alla quale è stata erroneamente apparentata.
Xi Jinping sostiene che la Cina mira a stabilire relazioni “win-win” nel mercato mondiale. Il governo cinese propugna il “multilateralismo” pacifico, con cui i capitalisti di tutto il mondo (ovviamente dice: i popoli di tutto il mondo) si avvantaggiano reciprocamente e superano ogni divergenza in nome del progresso storico, dell’umanità, della pace, ecc.
Trump sostiene invece che il governo cinese mira a conseguire i propri profitti a danno degli altri potentati capitalistici, in particolare di quello americano. Benché la Cina abbia ottenuto, dice Trump, di entrare nel WTO come paese in via di sviluppo, in realtà non solo è un paese sviluppato, ma fa concorrenza alle altre economie capitalistiche. E lo fa in modo “sleale”, perché il governo interviene strategicamente nell’economia, mantiene e rafforza il ruolo delle imprese statali, ha sottratto posti di lavoro all’economia americana e vuole farsi strada nel mercato mondiale con un preteso multilateralismo, che in realtà mira a una supremazia nei confronti dell’America. Con le sanzioni commerciali Trump dice di voler riprendere quello che la Cina avrebbe astutamente sottratto agli USA.
I dettagli dei trattati del WTO sono probabilmente esposti a interpretazioni diverse, ma non è lì che si gioca la partita. Trump, nonostante lo stile da avventuriero senza scrupoli, è meno sprovveduto di quanto sembri e le sue mosse non sono casuali. Anzitutto, fanno venire alla luce un principio di realtà forte: il capitalismo comporta perennemente la competizione tra potentati capitalistici. I rapporti tra questi non possono essere pacifici, perché sono guidati dall’ideale supremo dell’illimitata valorizzazione del capitale. Il che si fonda sull’appropriazione della quantità massima di plusvalore, e dunque sull’esercizio del comando su masse sempre più ampie di salariati.
In realtà, questa valorizzazione non può essere illimitata, anzi è costantemente contrastata da altri capitali concorrenti, i quali ambiscono a valorizzarsi al massimo. Questi contrasti non possono risolversi con una reciproca soddisfazione tra concorrenti. Non può esservi un “godimento” pienamente condiviso, un “win-win”, perché il capitale obbedisce all’imperativo del “plus-godere”, come diceva Lacan. Ovvero, “dopo ‘l pasto ha più fame che pria”. Dante aveva colto nel segno l’etica del capitalismo.
I conflitti sono dunque intrinseci ai potentati capitalistici, e quando si acutizzano tendono a prendere la forma di ostilità tra governi nazionali. La situazione odierna è però inedita perché uno dei contendenti non è soltanto capitalistico, ma esercita una “doppia autorità”. L’evoluzione di questa singolare governance negli ultimi quattro decenni ha determinato la posizione del capitalismo cinese nel mercato mondiale.
Trump dal canto suo, alimenta deliberatamente l’ostilità con la Cina con una guerra di propaganda che travisa elementi essenziali della situazione. Le accuse al governo cinese di aver ricavato dal mercato mondiale più vantaggi di quanti ne abbia portati, e di avere per di più sottratto posti di lavoro agli USA e all’Europa, sono assai controvertibili. Da Deng in poi, il governo cinese ha dato un grande sostegno, non solo economico, ma anche altamente ideologico al capitalismo mondiale.
Ha offerto un’immensa riserva di manodopera a buon mercato, oltre che ogni tipo di facilitazioni (infrastrutturali, finanziarie, logistiche ecc.) al capitale di tutto il mondo. Il PCC organizza i flussi della forza-lavoro sul territorio, dispone e regola gli spostamenti di masse di salariati, specie dei più precari, come le centinaia di milioni di migranti interni, esercitando su di loro efficacemente la sua autorità interdittiva. È per questi motivi che la delocalizzazione delle aziende in Cina è stata perseguita dagli imprenditori stranieri con grande entusiasmo e con enormi profitti.
Altrettanto essenziale è stato il sostegno ideologico che le “riforme economiche” cinesi hanno portato alla stabilità “globale” del capitalismo. Il loro significato più profondo è la chiusura di un’epoca di sperimentazioni egualitarie che miravano al di là del capitalismo. E siccome in Cina quelle sperimentazioni erano state le più appassionate e controverse, e avevano esercitato perciò un’influenza politica mondiale nei lunghi anni Sessanta, il fatto che dagli anni Ottanta proprio in Cina venissero “integralmente negate” confermava che “There is no alternative”.
Non va dimenticato che l’efficacia con cui il governo cinese pratica il principio “La stabilità deve prevalere su tutto” ha suscitato a lungo vasta ammirazione tra i governanti di tutto il mondo. Anche dopo il disastro di Piazza Tian’anmen del 1989, il capitale internazionale ha intensificato gli affari in Cina, pur tra flebili lamentele sul mancato “rispetto dei diritti umani”.
L’ingresso nel WTO nel 2001 ha sancito l’accoglienza nel club capitalistico mondiale di quella specifica “doppia autorità”, che d’altra parte il governo cinese ha sempre vantato sul mercato mondiale come “valore aggiunto”, cioè come esempio di disciplinamento del lavoro salariato. Un quindicennio dopo, però, questo credito appare esaurito, anzi la governance cinese è oggetto di aperte ostilità.
I motivi per cui dal 2017 Trump attacca la Cina in modo sempre più aggressivo non sono tutti autoevidenti. All’orizzonte, ci sono le conseguenze di lungo periodo della crisi finanziaria del 2008, la quale indebolisce molto più il capitalismo americano, che l’aveva provocata, mentre quello cinese ne viene rafforzato. Verso il 2015, la “Belt and Road Initiative” si presenta come un progetto economico e diplomatico di largo respiro, soprattutto verso l’Europa e l’Africa.
Trump, che fin dalla sua prima campagna elettorale aveva fatto del “nemico cinese” un punto forte del suo consenso, reagisce innescando una serie di ostilità in difesa degli interessi economici americani. Mediante una guerra commerciale e tecnologica volta a mettere in scacco il governo cinese, promette ai salariati di far tornare posti di lavoro negli USA, e ai potentati capitalistici di offrire le migliori condizioni per la valorizzazione del capitale. Promesse, peraltro basate su un calcolo avventurista che prevede perfino l’opzione militare.
D’altronde, Trump è stato abile nel cogliere tempestivamente i punti deboli dell’avversario. L’aumento del controllo disciplinare dell’epoca di Xi Jinping ha rivelato infatti in controluce un’erosione dell’autorità interdittiva, altrimenti non sarebbe stato necessario integrarla con nuove coercizioni. L’amministrazione americana non può non aver tenuto conto di questo indebolimento quando si è lanciata, negli ultimi tre anni, in un’escalation contro la Cina: imposizione dei dazi, presa in ostaggio di Meng Wanzhou, “Hong Kong Human Rights and Democracy Act” e perfino sanzioni rivolte a singoli esponenti governativi cinesi.
Il governo cinese, dopo essere stato per alcuni mesi alquanto sulle difensive, ha riaffermato la sua potenza, imponendo la Legge sulla sicurezza nazionale. Avrà certamente valutato i vantaggi che gliene vengono su più piani. Anzitutto, almeno per il momento, ha conseguito la “stabilità” di Hong Kong. Inoltre, ha inviato un duro segnale nei confronti degli USA. Ma ha anche inviato un preciso segnale a uso interno, proclamando con quella Legge che intende rafforzare la sua autorità interdittiva, per garantire su tutto il territorio nazionale che “la stabilità prevalga su tutto”.
Queste mosse e contromosse, intrecciate alla situazione di Hong Kong, aumentano le possibilità di un conflitto militare? Se si sommano ad altri focolai di crisi (Taiwan, Mar cinese meridionale, Vietnam, Filippine, India), tutto va in questa direzione. Soprattutto non si vedono all’orizzonte fattori di limitazione di questa deriva bellicista.
Il paragone con la Guerra Fredda è fuorviante. I “due blocchi” non si confrontavano solo sul terreno delle minacce militari. Non fu il reciproco “ricatto nucleare” a impedire lo scontro. USA e URSS erano impegnati anche in una competizione ideologica su quale dei due costituisse lo Stato più giusto, capace perfino di ridurre più efficacemente le disuguaglianze sociali. Il socialismo si proclamava l’alternativa al capitalismo, e il “welfare state” era la risposta capitalistica all’esistenza degli stati socialisti. Fatta la tara della retorica da entrambe le parti, quella contrapposizione sul terreno ideologico – in realtà sull’immensa questione politica di come limitare le disuguaglianze sociali – fu il principale fattore di moderazione delle tendenze allo scontro militare.
Oggi invece, i due contendenti sono impegnati in esibizioni di potenza che si rispecchiano vicendevolmente. Il “Sogno cinese” mira a rinnovare i fasti di una gloria plurimillenaria, ma si modella sulla formula dell’“American Dream”. Quanto a Trump, tutto ciò che ha realizzato per “make America great again” è stato finora di fare della Cina “America’s greatest threat”.
Una parte rilevante dell’élite economica e governativa americana spinge verso la guerra per controbilanciare la propria debolezza interna. L’epidemia in corso ha fatto emergere la gravità delle disuguaglianze, oltre che il razzismo strutturale della società americana. È tragicomico vedere che il governo Trump, nell’incapacità di fronteggiare la situazione, continua a puntare il dito contro il “virus di Wuhan”.
Non sappiamo quali potrebbero essere le forme tecnico-militari di una guerra USA-Cina, certo più distruttive che in passato. Ciò che soprattutto non sappiamo è quali possano essere oggi i fattori di moderazione dell’ostilità militare. Se il capitalismo è intrinsecamente portatore di guerra, solo l’esistenza di eccezioni al capitalismo potrebbe limitare questa tendenza. Oggi il capitalismo è la regola del mondo senza eccezioni.
Non è sempre stato così. La Guerra Fredda era stata una guerra “raffreddata” dalla prospettiva di un al di là del capitalismo. L’URSS, pur tra mille ambiguità, si voleva tale. Negli anni Sessanta, il dissidio sino-sovietico fu un ulteriore fondamentale elemento di moderazione della potenziale deriva bellicista. Il PCC si sottraeva alla logica del confronto tra i “due blocchi” (aveva cercato di farlo fin dagli anni Cinquanta con la diplomazia dei “non allineati”) e perseguiva una strada ancora più radicale di alternativa al capitalismo.
Ciononostante, proprio al culmine del radicalismo sperimentale, nel 1970, Mao sostenne fortemente un’iniziativa diplomatica che chiuse venticinque anni di ostilità tra USA e Cina. La normalizzazione delle relazioni sino-americane non risale affatto al 1979 e alle riforme di Deng, ma comincia in piena Rivoluzione Culturale (la “diplomazia del ping-pong”). Nel momento in cui il PCC cercava una strada politicamente così diversa dal capitalismo poteva negoziare pacificamente con il massimo impero capitalistico mondiale; mentre oggi che è avvinghiato al capitalismo rischia di entrare in guerra con gli Stati Uniti. Il paradosso è apparente. Solo sperimentando un al di là del capitale si può frenare la deriva bellicista.
È chiaro che oggi l’eccezione al capitalismo non può più essere in alcun modo il socialismo statale del Novecento, e neppure la sperimentazione, a sua volta eccezionale, della Cina dei lunghi anni Sessanta. Quell’epoca si è conclusa. Si è ristabilita la regola capitalistica (rafforzata in Cina dai “due sistemi”). Nuove eccezioni potranno venire solo a condizione che appaiano grandi invenzioni collettive capaci di concepire un nuovo pensiero della politica. E altresì capaci di riesaminare senza mezzi termini e senza pregiudizi quell’epoca conclusa di sperimentazioni extra-capitalistiche. Ripensarne le poste in gioco, i loro reali punti di novità, le intrinseche ambiguità, le impasse e gli errori reiterati. Solo in queste condizioni potranno sorgere nuove eccezioni capaci di aprire un varco nella nebbia della guerra incombente.
Immagine: Hong Kong protests 2019, foto di Jonathan van Smith
Claudia Pozzana ha insegnato lingua e letteratura cinese all’università di Bologna. Ha compiuto lunghi periodi di studio, di ricerca e insegnamento in Cina e negli Stati Uniti. Ha fatto ricerche sulle origini del pensiero politico cinese moderno e sulla poesia cinese oggi. Ha pubblicato La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea (Quodlibet) e ha curato le edizioni italiane di Li Dazhao, Bei Dao, e Yang Lian. Assieme ad Alessandro Russo ha curato antologie di poesia cinese contemporanea, l’ultima delle quali è la raccolta di Meng Lang, Sull’educazione. Diario poetico di Tian’anmen (Damocle).
Alessandro Russo ha insegnato Sociologia all’università di Bologna. Ha studiato e insegnato in Cina e negli Stati Uniti. Ha fatto ricerche sulla storia dell’educazione in Cina e in Europa e sulla politica cinese moderna. Ha condotto assieme a Claudia Pozzana ricerche e inchieste sulla poesia cinese contemporanea e sulla situazione degli operai e delle fabbriche cinesi. Il suo volume Cultural Revolution and Revolutionary Culture è in corso di pubblicazione presso Duke University Press.