Lo scorso 1 luglio 2020, a poche ore dall’entrata in vigore della nuova legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino sulla città di Hong Kong, scrivevo che siamo entrati in un nuovo territorio, sconosciuto e pieno di insidie. Ho evocato la condizione di “nepantla”, una parola azteca che ho imparato in Messico, che significa “stare nel mezzo”. Io, residente permanente a Hong Kong dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, come molti altri residenti di Hong Kong, mi sento in mezzo a qualcosa di non familiare, e non so in che direzione muovermi.

Ho letto che i politici più scaltri non si lasciano perdere l’opportunità offerta da una crisi. E la pandemia del coronavirus è stata l’occasione che Pechino ha abilmente utilizzato per introdurre una pesantissima legge circa la sicurezza nazionale su Hong Kong. Le ambizioni democratiche e libertarie della gente della città, per quanto avallate da solenni promesse, sono state spazzate via. La formula “un paese, due sistemi”, che reggeva Hong Kong dal 1997, è finita con 27 anni di anticipo.

Una generazione di ragazze e ragazzi di Hong Kong hanno cercato di prendere in mano il loro destino umano e politico. Hong Kong fa parte della Cina e loro si sentono cinesi, ma con l’importante specificazione di essere di Hong Kong, ovvero una città in cui si vive in libertà e si aspira alla democrazia. Una città postmoderna, un centro finanziario di importanza strategica, un territorio con il singolare destino di raccogliere in sé diverse civiltà politiche, giuridiche e sociali.

La vicenda dei ragazzi di Hong Kong, che il mondo ha conosciuto attraverso il “movimento degli ombrelli’” del 2014 e le manifestazioni iniziate il 9 giugno 2019, non può essere giudicata a partire dalle categorie del colonialismo o del post-colonialismo, di cui loro niente hanno sperimentato. Il tema fondamentale non è neanche la guerra fredda tra Cina e Stati Uniti. I giovani hanno voluto responsabilizzarsi circa le loro vite e destino politico. I loro ideali erano la responsabilità personale verso il bene comune, il protagonismo dei cittadini nella vita pubblica, la democrazia come forma di governo del popolo, la libertà come requisito fondamentale per l’affermazione della dignità umana. Le richieste dei giovani di Hong Kong sono considerate in Cina capricci di ragazzi indisciplinati. In realtà la situazione e le prospettive dei ragazzi di Hong Kong sono meno idilliache di quanto si pensi. Le autorità locali e centrali sono state del tutto disinteressate ad ascoltarle. Uno degli aspetti più tristi, e potenzialmente più preoccupanti di questa vicenda, è la distanza siderale tra il sentimento dei giovani e la politica che governa la città.

La gente di Hong Kong ha supportato i propri giovani. Non intendiamo dire che tutta la società di Hong Kong ha sostenuto il movimento. Non è così. Ma è certo che una grande porzione della gente ha sostenuto, a suo rischio e sopportando gravi disagi, le richieste del movimento. E credo che siano la maggioranza della popolazione. L’adesione alle manifestazioni è stata massiccia e continua, fino a due milioni di presenze. Un’altra conferma viene dalla grande partecipazione popolare  – tre milioni di cittadini in fila davanti ai seggi – alle elezioni distrettuali dello scorso 24 novembre. Ancora più significativo, a causa del drammatico cambiamento politico e legislativo, è stato il grande afflusso – 600mila elettori – alle “primarie” dello scorso 12 luglio per la scelta dei candidati dei partiti democratici alle elezioni del prossimo 6 settembre (Pechino ha ritenuto le “primarie” democratiche una provocazione). Mi sembra che sia manifestamente evidente il consistente sostegno popolare al movimento democratico. Ora c’è in vista un altro appuntamento fondamentale: le elezioni parlamentari del 6 settembre, appena menzionate. In linea con i plebiscitari risultati dello scorso novembre, c’è da attendersi una vittoria dei partiti democratici. Ma come si svolgeranno queste elezioni? Sarà impedito ad alcuni candidati di presentarsi? Le elezioni saranno senza intimidazioni?

La stagione delle proteste di Hong Kong non è stata priva di errori. Il più grave sono stati gli incidenti, le violenze, gli scontri e il vandalismo. Chi, come me, è cresciuto nella lezione della non violenza di don Lorenzo Milani, di Martin Luther King e di Mahatma Gandhi, e ha tradotto classici della non violenza in cinese, non è disposto a giustificare in nessun modo quegli episodi, i quali nondimeno hanno riguardato solo una frangia dei manifestanti. Essi hanno offerto alle autorità centrali una giustificazione per intervenire. La violenza è stata conveniente agli avversari della democrazia, e non ha portato niente di buono alle buone aspirazioni della gente. Invocare, da parte di pochi, l’idea di una separazione di Hong Kong dalla Cina è politicamente inaccettabile e inattuabile. Anche questa è comodamente servita agli avversari della democrazia. Rivolgersi – come hanno fatto alcuni sconsiderati – al presidente americano Donald Trump, un uomo che non merita in nessun modo di essere insignito della dignità di amico della democrazia e dei valori di convivenza, è stata una mossa infelice e controproducente.

Al netto di queste considerazioni e delle ambiguità che si trovano in qualsiasi fenomeno complesso, di grande impatto popolare, di sensibili implicazioni storiche e di gravi conseguenze per il futuro, dai giovani e dalla gente di Hong Kong è provenuto un segnale di grande significato e speranza. Che vale anche ora, mentre Hong Kong sta facendo i conti con una temporanea sconfitta e sta reiventando se stessa.

È stato scritto tanto nelle ultime due settimane circa la nuova legge. Io stesso, profondamente amareggiato, ho avuto bisogno di tempo per ritrovare una certa calma interiore. La legge, ora, è abbastanza conosciuta. È molto pesante. Non la trovo affatto vaga, tuttavia la gravità della situazione che si presenta davanti a noi varierà a seconda di come questa legge verrà interpretata e applicata. E questo spetta in forma esclusiva a Pechino.

Hong Kong non ha avuto alcun ruolo nella compilazione della legge, ora inserita come allegato alla Legge Base, la mini costituzione che governa la città dopo il ritorno alla sovranità cinese del 1 luglio 1997. La legge è composta di 66 articoli, che colpiscono i reati di secessione, di sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere. Sono reati certamente gravi, che sono inclusi nei codici penali di tutte le nazioni. Purtroppo in Cina questi reati colpiscono ogni forma di dissenso o di critica. Succederà anche a Hong Kong? C’è da temerlo. Le condanne previste sono molto gravi, fino all’ergastolo.

L’interpretazione della legge spetta a Pechino, e in caso di conflitto tra legge locale e quella nazionale, prevale la seconda. Anche in caso di difficoltà linguistica, prevale l’originale cinese rispetto alla versione in inglese. I casi più complicati possono essere giudicati a porte chiuse, o persino estradati e giudicati in Cina. Un aspetto particolarmente grave è la costituzione di un’agenzia di sicurezza politica inviata da Pechino, completamente autonoma dalle legge locali, con il potere di implementare questa legge. A capo è stato messo un funzionario politico che si è già distinto in Cina per la sua inflessibilità e vicinanza al presidente.

Il clima politico di Hong Kong è sempre più simile a quello del resto della Cina. Molta gente ha cancellato dai propri social cose scritte nel recente passato. Giornalisti, avvocati, ricercatori, e altre categorie di professionisti si chiedono se possono continuare a fare il loro lavoro come prima. Molte organizzazioni sociali o politiche si sono sciolte, incluse il partito Demosisto fondato da Joshua Wong. Anson Chan, per molti anni popolare numero due di Hong Kong, e ritiratosi nelle settimane scorse a vita privata, viene presa di mira dalla stampa cinese, accusata di essere un esponente della “banda dei quattro”, ovvero di un gruppo di “grandi vecchi” che avrebbero sostenuto politicamente il movimento democratico del 2019. Gli altri “colpevoli” sono Jimmy Lai, fondatore di Apple Daily (a cui è stato revocato il diritto di espatriare), il leader politico Albert Ho e il noto avvocato Martin Lee (fondatore del Partito democratico).

In questi ultimi giorni, disgraziatamente, aumentano i casi di coronavirus a Hong Kong. E aumenta l’ansia della popolazione.  Niente a Hong Kong è come prima.

Immagine: Central Hong Kong, foto di Rutger Van Der Maar

Gianni Criveller ha vissuto per 26 anni nella Grande Cina dove ha studiato, scritto e insegnato su Cina, culture, religioni e diritti. È studioso circa il rapporto tra cristianesimo e Cina, in particolare di Matteo Ricci, delle strategie missionarie e della controversia dei Riti cinesi. È preside dello Studio teologico missionario internazionale del PIME a Monza. Autore di numerosi saggi tradotti in varie lingue, collabora con varie istituzioni accademiche in Italia e all’estero.