La pandemia CoVid ha certamente messo sotto pressione anche le comunità cinesi all’estero, e ne ha al contempo messo in luce la complessità e le contraddizioni, offrendo a mio avviso spunti di riflessione interessanti. Utilizzo l’espressione “comunità” solo perché comoda e rapida, ma essa è oramai del tutto inadeguata rispetto alla realtà composita della presenza cinese in Italia. Semplificando, essa si articola in presenza “permanente”, costituita dagli immigrati e dai loro discendenti, che – solo prendendo in considerazione la migrazione più recente – è oramai giunta alla terza generazione, e in presenza temporanea, costituita prevalentemente da studenti (circa 2500 immatricolazioni l’anno secondo i dati dell’ a.a. 2018-2019) e in parte da lavoratori, di norma ad alta qualificazione, spesso manager industriali di grandi gruppi, dalla Huawei alla Chang’an. Complessivamente, i cinesi residenti sul nostro territorio rappresentano meno del 6% degli stranieri, il fenomeno della migrazione si è sostanzialmente esaurito e il numero degli studenti è in questi ultimi anni in costante, o leggera, flessione. Ma questi dati dicono assai poco sulla complessità del gruppo, sulla sua capacità di interazione con la società italiana, sui diversi livelli di “maturità” sociale che esso ha raggiunto e sui rapporti con la sempre più presente “madre-patria” cinese.
Gli immigrati nelle grandi città e nei luoghi dove è più significativa la loro presenza sono organizzati in associazioni la cui natura, condotta e relazione con le autorità cinesi è spesso molto diversa da luogo a luogo e nella stessa città. Esse sono spesso attraversate anche da differenze di natura generazionale, che, esemplificando, mi pare si possano riassumere in modo emblematico in due libri usciti di recente: L’altra metà del cielo di Angelo Ou (Wu Xinghua), imprenditore sino-italiano, figlio di una delle prime coppie sino-italiane che si formarono a Milano nei primi decenni del XX secolo e a lungo figura di riferimento delle comunità, e Diecimila chilometri più in là di Benedetta Renier (grazie a Shi Yang Shi per la segnalazione) , storia d’amore autobiografica di una giovane donna italiana con Jili, una ragazza cinese, con la quale oggi vive a Trieste. I due libri sono profondamente diversi: se il secondo si articola come un vero e proprio racconto, attualissimo e calato nel presente, il primo – con toni a volte ingenui tra la retorica e la nostalgia – presenta piuttosto una serie di “schede biografiche” di donne italiane in fondo assai coraggiose, che sfidando convenzioni sociale e diffidenze, si unirono in matrimonio con immigrati cinesi. Ma, nella loro diversità, hanno almeno un elemento in comune: il libro di Benedetta Renier per mano italiana, quello di Angelo Ou per mano cinese, raccontano di coppie miste e, soprattutto, testimoniano di una voglia nuova di raccontarsi, fuori dalla melassa dei romanzi “etnici” capaci di affascinare forse solo per il loro esotismo. Nel contempo, il primo è immerso senza esitazioni nella contemporaneità, le due protagoniste sono “casualmente” una italiana e una cinese e nel racconto questo aspetto è in qualche modo marginale, mentre il secondo è un racconto “antico”, che porge con garbo agli “altri”, a noi italiani, un bagaglio di memorie certamente importante da conservare.
Credo che il punto cruciale di discrimine sia proprio questo: quanto, per i cinesi in Italia, gli italiani continuino ad essere “gli altri”. Questo elemento è emerso in alcuni casi prepotentemente durante il CoVid, mettendo in luce realtà molto diverse. Nella fase uno, ovvero quando il virus imperversava solo in Cina ed eventualmente nei paesi limitrofi, sappiamo che i cinesi sono stati oggetto di ignobili manifestazioni di razzismo anche nel Belpaese e sappiamo anche che in molti casi la società italiana – in collaborazione o meno con le associazioni cinesi del territorio – si è mossa per stigmatizzare questi comportamenti con buona capacità di reazione, seguita, in generale, anche dai mass media (tralascio alcuni casi dissonanti, comunque marginali rispetto alla condotta maggioritaria). A questo proposito, è interessante notare come, laddove le manifestazioni di solidarietà sono nate su iniziativa italiana, sia capitato talvolta di dovere arginare l’intraprendenza tardiva di associazioni cinesi che, per ragioni di opportunità politica, intendevano “intestarsele”, con il rischio che esse fossero collegate a precisi gruppi politici italiani, non sempre noti per una gestione lungimirante delle politiche in materia di immigrazione. Il fenomeno mette in evidenza dinamiche “opportunistiche” molto simili nei gruppi organizzati italiani e cinesi: uno degli aspetti di affinità culturale che ci caratterizzano, in questo caso non positivamente.
Nella fase in cui la pandemia si è diffusa in Italia, la situazione si è molto complicata. L’ambasciata e i consolati sono diventati punti di riferimento imprescindibili. Sappiamo che la Cina – con maggiore o minore successo – dopo averli per decenni demonizzati come traditori della patria – oggi considera gli immigrati come utili teste di ponte per la difesa dei suoi interessi all’estero, sappiamo anche che gli studenti, prima di lasciare il loro paese per un periodo di studi in terra straniera, sono tenuti a seguire dei veri e propri corsi durante i quali viene loro spiegato anche in quali faccende è bene non si immischino. La pandemia ha mostrato, in un certo senso, l’ambiguo lato B della stessa medaglia: le autorità consolari sono state attive e fattive, procurando mascherine laddove per la maggior parte delle persone erano merce rarissima e monitorando gli studenti attraverso le associazioni studentesche universitarie, sempre più presenti, fortemente volute dai consolati e certamente utilizzate anche come strumenti di controllo. Questo ha certamente suscitato la sensazione di essere “accuditi” (e il cielo sa quanto ciò poteva essere rassicurante soprattutto nella fase più acuta dell’emergenza), ma ha fatto esplodere un altro virus, sempre più presente e sempre meno sotto-traccia anche tra una parte dei cinesi di casa nostra: quello del nazionalismo. Ecco che la Cina è diventata il “modello da seguire”: in alcuni casi, chiedere agli studenti – o ai docenti e volontari degli Istituti Confucio – di attenersi a quanto prescritto dalle autorità italiane è stato difficile – difficile, non impossibile. La sola fonte “credibile” di informazione era la Cina, e sui media cinesi imperversava una retorica trionfalistica che celebrava i successi raggiunti e che, a breve, avrebbe dato luogo anche in Cina a fenomeni di razzismo contro gli Occidentali, portatori di ritorno del virus, tendenzialmente minimizzati dalle autorità cinesi.
Questo si accompagnava a manifestazioni di solidarietà rilevanti e commoventi. Atenei con i quali la mia Università aveva rapporti hanno inviato mascherine e dispositivi sanitari, per tacere della solidarietà privata. Personalmente ho potuto aiutare in modo non irrilevante l’ospedale di Asti, in grave difficoltà per quanto atteneva ai dispositivi di protezione, grazie a questa solidarietà. Studenti che rientravano in Cina mi hanno contattata per lasciarmi dispositivi di protezione che ritenevano non gli servissero più. Anche le associazioni cinesi in Italia hanno fatto la loro parte. Questo dimostra la crescita di un sentimento di engagement collettivo, in Cina e nei cinesi qui in Italia, che costituisce comunque un dato positivo. Ma non diminuisce la pericolosità del sentimento di “orgoglio/rivalsa nazionalistica”, presente anche tra i cinesi di casa nostra e velenosamente nutrito dalle autorità. È un sentimento che a volte impazza anche sui blog dei cinesi qui in Italia, controbilanciato, a dire il vero, da una presenza minoritaria ma matura di sino-italiani fortemente impegnati nella costruzione di una nuova “identità” , capace di mediare con equilibrio tra le due anime della propria coscienza e fortemente impegnate all’interno della società, in un modo che – appunto – supera la dicotomia tra “noi” e “loro”. Ho partecipato a gruppi di discussione con loro, dove la presenza italiana e quella cinese erano equamente rappresentata e dove, per la prima volta, a prescindere dalle posizioni personali, ho sentito che la barriera tra “noi” e “loro” era diventata estremamente sottile o si era addirittura dissolta. In questo senso, credo che Milano sia all’avanguardia, con un dinamismo e una coscienza assai più avanzati di quanto non avvenga a Torino, dove, pur con alcune rilevanti eccezioni, prevale un’idea oramai superata di associazionismo cinese, sempre estremamente attenta ai rapporti con l’autorità cinese e caratterizzata da un rapporto di tipo utilitaristico con quella italiana. Interessante e vivacissimo tutto il mondo pratese, con la presenza oramai matura di una generazione sino-pratese bene esemplificata dalla figura e dalla attività di Marco Wong. Al contrario, mi pare che le associazioni studentesche, in questo senso, si muovano nell’alveo della tradizione, rinunciando a un ruolo più dinamico che pure potrebbero avere, e rimanendo caute e “sottotraccia”, come è possibile gli sia fortemente consigliato di rimanere.
Certo, mentre ci preoccupiamo dell’emersione di un nazionalismo che non ci piace, mentre stigmatizziamo il trionfalismo improvvido con cui la Cina ha cavalcato il suo presunto successo nella lotta alla pandemia, non possiamo non guardare con preoccupazione ad alcuni fenomeni di piaggeria inutile (o forse “utile”) che vediamo a casa nostra. Ne ho già parlato altrove e ci torno qui brevemente. Ad aprile usciva per i tipi della Bononia University Press il volumetto: Prevenzione e controllo del Covid-19. Il modello cinese, prontuario che enumera in modo chiaro tutte le pratiche di prevenzione che peraltro conosciamo. Il volume è la traduzione di un testo a cura di Zhang Wenhong, virologo shanghaiese di spicco e membro del PCC che si fece notare sui social cinesi per avere (pare) dichiarato quanto segue:
“Dopo lo scoppio della pandemia, capita di frequente di avere a che vedere con un atteggiamento derisorio dei cinesi rispetto ai provvedimenti assunti da altri paesi, che si ritiene dovrebbero fare quello che ha fatto la Cina. Dovremmo piuttosto riflettere sui nostri errori iniziali e, quanto ai nostri successivi risultati positivi, gli altri paesi non possono prendere esempio da noi: hanno sistemi e condizioni diverse. Comunque sia, siamo di fronte a una grave calamità. Di fronte alla pandemia e alle sue vittime, sono entrambi atteggiamenti esecrabili: tanto fare del sarcasmo sul diffondersi dell’epidemia all’estero quanto esagerare e magnificare i nostri successi”.
Ma tanto buonsenso non ha commosso chi ha scelto il titolo del volume italiano. La traduzione – caldeggiata dall’Ufficio Istruzione dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese e sostenuta dalla azienda Lenovo – si è valsa della collaborazione dell’Istituto Confucio di quell’ateneo, ed è nata su ispirazione di analoga iniziativa in terra d’Iran, dove il volume si chiama semplicemente: Guida alla prevenzione e al controllo del nuovo CoronaVirus; il titolo cinese del volumetto originale è Il nuovo Corona virus. Suggerimenti per difendersi (支招防空, 新型冠状病毒 Zhizhao fangkong. Xinxing guanzhuang bingdu). E, in effetti, nel testo non si parla di alcun “modello”. Che ci fa la parola “modello” nel titolo italiano?
La costruzione di ipotesi possibili per la convivenza di culture diverse ha come presupposto l’onestà intellettuale; nella dinamica dialettica della società, per fortuna, colpevoli mancanze vengono in parte compensate da fenomeni positivi nuovi. Tale è l’iniziativa indipendente di una signora torinese, Peng Juan, che sta riscuotendo grande successo: NOI RIMANIAMO 我们留下, testimonianza di un senso di appartenenza nuovo, dal quale speriamo possano fiorire germogli finalmente adeguati ai tempi in cui viviamo.
Immagine: Mascherine
Stefania Stafutti insegna lingua e letteratura cinese presso l’Università di Torino. Autrice di numerosi saggi, fra le sue pubblicazioni si segnalano Hu Shi e la “questione della lingua”. Le origini della letteratura in baihua nel Baihua wenxue shi (Storia della letteratura in volgare) (Firenze, Le Lettere, 1990); Gu Cheng, Occhi neri. Poesie Giovanili, a cura di Stefania Stafutti (Venezia, Cafoscarina, 1998); Colpirne uno per educarne cento (Torino, Einaudi, 2008).