Il governo cinese ha dedicato e dedica molta attenzione e politiche speciali alle etnie minoritarie che abitano entro i confini della Repubblica Popolare, nonostante la popolazione totale delle stesse, se confrontata con i numeri degli Han, possa risultare poco significativa costituendo, secondo i dati del censimento nazionale del 2010, solo l’8.49% della popolazione cinese.1)Tale percentuale identifica comunque ben 113.792.211 persone, cifra che in altri contesti geografici risulterebbe tutt’altro che trascurabile. https://web.archive.org/web/20131108022004/http://www.stats.gov.cn/english/newsandcomingevents/t20110428_402722244.htm(consultato il 25/04/2020). Tali provvedimenti e cauto atteggiamento sono sottesi da una serie di motivazioni. La prima è di ordine strategico: la maggior parte delle etnie vive nelle regioni di confine del Paese, distribuite su un’area che rappresenta più del 60% del territorio nazionale. Per molte di esse la frontiera costituisce una divisione arbitrariamente tracciata che separa comunità sorelle, come nel caso dei Kazaki o dei Miao. Simili situazioni potrebbero diventare facile oggetto di strumentalizzazione da parte di potenze straniere in caso di ostilità o dar origine a episodi di irredentismo, se non adeguatamente vigilate. È proprio al fine di contenere il serpeggiante malcontento diffusosi talvolta su base etnica – che altrimenti renderebbe alcune di queste comunità ancor più sensibili agli appelli extranazionali – che il governo ha attuato parte delle politiche speciali rivolte alle minoranze. In secondo luogo, si tratta di zone ricche di risorse naturali e del sottosuolo, essenziali per sostenere la velocità dello sviluppo economico dell’intera nazione. Inoltre, ancora a questo proposito, con l’era di Deng Xiaoping si è anche inaugurato il periodo in cui molte etnie minoritarie, con i loro colori, il loro artigianato e i paesaggi mozzafiato da cui sono ospitate hanno iniziato a essere lette come risorse per la promozione del turismo. Da ultimo, la scarsa densità di popolazione di queste aree le ha rese potenzialmente adeguate ad assorbire flussi migratori da regioni sovrappopolate.

Queste premesse permettono di intuire con facilità che la questione delle minoranze ha profondamente a che fare con l’integrazione e le sue interpretazioni. L’atteggiamento del governo cinese in questo senso può intendersi dal 1949 in poi come sviluppatosi, con alterne vicende, lungo un continuum caratterizzato a un estremo dall’assimilazione e all’altro dal pluralismo. Ciascuna delle tendenze verso i riferimenti-limite si è rivelata produttrice di proprie rappresentazioni dell’alterità. Quella tesa all’assimilazione, nella sua rigidità di prospettiva, si è fatta portavoce degli ideali di superiorità culturale ed economica degli Han, inquadrando questi ultimi come protagonisti di necessari “progetti civilizzatori”, articolati a vari livelli e costruiti su stereotipi dell’Altro altrettanto necessari alla definizione stessa di tale superiorità. La seconda, indirizzata al pluralismo, sicuramente espressione di una maggiore flessibilità ideologica, almeno apparente, è andata lentamente elaborando una definizione di spazio, ancorché angusto, entro cui consentire l’invenzione di identità culturali altre “desiderabili” perché funzionali alla costruzione dello Stato nazionale e alla crescita della sua economia. In questo contributo verranno discusse alcune di queste rappresentazioni e auto-rappresentazioni, con particolare riferimento alle etnie Dai e Naxi dello Yunnan che, con le sue 25 diverse minzu (民族), risulta essere una delle province a maggior presenza etnica.

1. La Yunnan School (Yunnan huapai 云南画派) della moderna pittura cinese: il retaggio di vecchi stereotipi sotto le sembianze dell’innovazione

Nei primi anni Ottanta del secolo scorso, alcuni artisti Han, tra cui Jiang Tiefeng 蒋铁峰 (1938-), He Neng 何能 (1942-) e Liu Shaohui 刘绍荟 (1940-), annoverati poi tra i fondatori della Yunnan School (1982), insieme a Ding Shaoguang 丁绍光(1939-), altro pittore che tuttavia lasciò la Cina proprio alla vigilia della nascita del movimento, diedero espressione, attraverso una pittura a olio dai colori brillanti, a un condiviso modo di sentire che riportava all’idea di incontaminatezza, spontaneità, di contatto con la natura, mediante la rappresentazione di figure femminili appartenenti alle minoranze etniche della provincia dello Yunnan, in particolar modo Dai e Hani. Rappresentative di questa sensibilità sono, ad esempio, l’opera “Four seasons singing” (1987), di Jiang Tiefeng, così come “Golden Sun” (1985), di He Deguang 何德光 (1945-). La prima ritrae una giovane donna Dai che suona il pipa, inginocchiata, vestita del tipico sarong e a torso nudo. Sullo sfondo, pannelli delle quattro stagioni celebrano la flora della locale foresta tropicale.2)Joan Lebold Cohen, The Yunnan School: A Renaissance in Chinese Painting (Minneapolis: Fingerhut Group Publishers, 1988), 46. Nella seconda, troneggiano in primo piano due ragazze non Han, caratterizzate da una formosa nudità, messa in risalto dai colori intensi, ritratte nell’atto di asciugare al sole i loro lunghi capelli.3)Cohen,The Yunnan School,126.

Erano i primi prodotti di un’arte che esulava dalle forme di propaganda dei decenni precedenti e da quel momento, per diversi anni, le immagini di giovani donne Dai del Xishuangbanna che si bagnano seminude nel Mekong avrebbero incarnato il leitmotif della sensualità esotica in Cina, contrapposta alla rigida pianificazione delle nascite della società Han, con tutte le sue ricadute sui comportamenti sociali e sessuali.4)Si veda anche Charles F. McKhann “The Naxi and The Nationalities Question”, in Stevan Harrell (a cura di), Cultural Encounters on China’s Ethnic Frontiers (Hong Kong: Hong Kong University Press, 1994), 39-62. Proprio perché tanto lontani dai temi dal realismo socialista e influenzati visibilmente dall’arte occidentale – fino a poco prima messa al bando – a partire dalle tendenze post-impressioniste, i lavori degli artisti della Yunnan School vennero considerati pionieristici, non senza suscitare un certo imbarazzo per l’aperta sensualità che pervadeva l’alterità femminile, e si trasformarono ben presto in un’arena di acceso dibattito nazionale.5)Dru C. Gladney, “Representing Nationality in China: Refiguring Majority/Minority Identities”, The Journal of Asian Studies, Vol. 53, 1, 1994, 103-104. Si veda in merito anche Louisa Schein, Minority Rules. The Miao and the Feminine in China’s Cultural Policies (Durham e Londra: Duke University Press, 2000), particolarmente i capitoli 4, 5 e 6. Divenne ufficialmente accettabile ciò che coram populo non era nemmeno lontanamente associabile all’identità, ancora operaia, della donna Han: la creazione, l’esposizione in pubblico e la commercializzazione di opere d’arte che dipingessero in modo vivido, sensuale e realistico la nudità femminile.

Nel mostrare al mondo il carattere controverso e la forza innovativa della loro produzione artistica, i pittori della Yunnan School finirono per diventare i maggiori promulgatori di una rappresentazione dell’alterità che era proprio il risultato di quelle relazioni di potere che intendevano contestare ed essi stessi divennero gli artefici inconsapevoli della ri-produzione di un modello culturale egemonico Han che sostanziava la reiterata necessità di un “progetto civilizzatore”.6)Stevan Harrell, “Introduction. Civilizing Projects and the Reaction to Them”, in Stevan Harrell (a cura di), Cultural Encounters on China’s Ethnic Frontiers, 3-36. Benché l’esposizione dell’accurata ed articolata disamina di Harrell dei “progetti civilizzatori” esuli dagli intenti di questo contributo, se ne rivisiteranno criticamente alcuni contenuti per contestualizzare l’analisi dell’ideologia che sottende le relazioni egemoniche presenti nel caso-studio. Si tornava a reificare l’Altro, connotandolo attraverso valenze costituite su una particolare formulazione della natura dell’etnicità le quali replicavano tanto la dicotomia centro-periferia dell’epoca imperiale, quanto quella di modernità-arretratezza dello Stato socialista, ciascuna delle quali con le proprie metafore della differenza. Nonostante i dichiarati intenti dell’Era di Deng volti alla promozione di politiche pluralistiche, nemmeno il pensiero Han potenzialmente più libero, quello degli artisti, era – in quegli anni iniziali – pronto a sbarazzarsi dei pesanti pregiudizi del passato.

Come l’etica confuciana aveva strutturato una scala gerarchica all’apice della quale era collocata la cultura (wenhua 文化) di un centro civilizzato Han fondato sui propri valori morali e che classificava la barbarie delle popolazioni periferiche e la loro possibilità di essere assimilate (tonghua 同化) e sinizzate (hanhua 汉化) in base a quanta wenhua possedessero, così il governo comunista, appropriandosi delle teorie sull’evoluzione delle società di Morgan e Engels – riviste da Lenin e Stalin – aveva classificato le etnie minoritarie che abitavano entro i suoi confini sulla base della loro complessità sociale e conseguente arretratezza economica. Ideologie diverse, stessa asimmetria di dialogo e relazioni, medesima necessità di legittimare l’autorità di chi detiene il potere.

I pittori della Yunnan School, attraverso la produzione delle metafore della femminilizzazione ed esotizzazione dell’alterità, hanno finito per replicare inconsapevolmente quel modello asimmetrico che, nel corso della storia, ha caratterizzato i rapporti tra cultura dominante Han ed etnie minoritarie, tra centro e periferia, consolidando lo stereotipo di minoranze primitive, in quanto lontane dalla modernità, e perpetuando il rifiuto di conferire alle loro culture la stessa dignità che una società a dominanza maschile – come quella Han – attribuisce a se stessa.7)Harrell, “Introduction”, 12.

Questa prospettiva d’analisi conserva ancora, tuttavia, formulazioni fondate sulle dicotomie che hanno tradizionalmente strutturato lo studio della molteplicità etnica in Cina e delle quali si auspica un superamento in favore di una narrazione della diversità che includa la voce delle popolazioni periferiche e l’espressione delle loro auto-rappresentazioni. Nel caso di studio, trattandosi di opere d’arte che ritraggono l’alterità, è difficile riuscire a cogliere la voce altra, mancando questo tipo di rappresentazione della modalità dialogante o, almeno, del significato più diretto e immediato che ad essa comunemente si attribuisce. L’alterità è, in un certo senso, silenziata dalla contingenza della rappresentazione e non ne può elaborare istantaneamente di proprie.

Si producono, però, interstizi della differenza, in cui anche un’alterità silenziata può insinuarsi e attraverso cui può diventare possibile, per questa, interagire nella relazione asimmetrica. Nelle metafore dell’esotizzazione e della femminilizzazione si sono, infatti, concretizzate relazioni subordinate che hanno, nonostante questa loro natura, permesso all’Altro di intervenire nella costruzione della società e di un’identità Han che, per quanto omogenea – e quindi artefatta – si è rivelata comunque funzionale, in quegli anni, all’edificazione del moderno Stato nazionale cinese. È come se marcare la differenza abbia permesso, per sottrazione, l’articolazione della definizione dell’identità Han. Un’articolazione in cui risuonavano precise necessità interne, prima tra le quali quella tenere unita la nazione superando i regionalismi, e che rispondeva all’impellente esigenza della Repubblica Popolare di essere riconosciuta nel panorama internazionale come uno Stato multietnico moderno,8)Gladney, “Representing Nationality”, 96. riscattando così le precedenti rappresentazioni di una Cina totalitaria e omogeneizzante. Il caso studiato, dunque, ben illustra come, nel considerare le rappresentazioni relative all’identità, non si possa prescindere, in primo luogo, dalla considerazione degli schemi ideologici e dalle circostanze di quel presente che viene valorizzato. L’identità va continuamente negoziata, innanzitutto con il tempo. Inoltre, il processo di produzione dell’identità Han, conseguente alla diffusione delle opere d’arte della Yunnan School, ha messo in luce la sussistenza di una tensione tra alterità e identità che si spinge oltre il semplice riconoscimento dell’esistenza della prima, fino a configurarla come interna all’identità stessa, “alla sua genesi, alla sua formazione”.9)Francesco Remotti, Contro l’identità (Bari: Laterza,1996), 63.

Gli anni degli esordi della Yunnan School furono anche quelli in cui lo sviluppo economico venne dichiarato una priorità assoluta del Paese; la liberalizzazione venne annoverata tra le possibili soluzioni alla questione dell’arretratezza e si iniziò a guardare con interesse sempre più vivo anche al turismo internazionale quale importante risorsa per il Paese. Le popolazioni periferiche, in un rinnovato entusiasmo per le politiche multiculturali, vennero incoraggiate a prendere attivamente parte allo sviluppo del turismo etnico, confezionando, insieme ai prodotti tipici dell’artigianato locale, colorate identità, costumi e auto-rappresentazioni essenzialmente ad uso di coloro che si fossero messi in cammino proprio alla ricerca dell’esotico e dell’incontaminato dalla modernità.

2. Autenticità e politiche del turismo tra i Naxi

L’analisi che segue intende indicare un esempio di processo di produzione di auto-rappresentazioni dell’identità etnica avente caratteristiche di maggior dinamismo e partecipazione rispetto al precedente case study.  In particolare, sarà valutata l’interazione sussistente tra autenticità, politiche del turismo e Stato nel processo di negoziazione dell’identità Naxi.10)I Naxi sono una popolazione di origine tibeto-birmana, la cui popolazione, secondo il censimento nazionale del 2010, conta 326295 persone. https://guides.lib.unc.edu/china_ethnic/statistics (consultato il 29/04/2020). Lo studio verrà sviluppato considerando le nozioni di tradizione inventata e di autenticità, nonché prestando attenzione alle modalità attraverso cui i Naxi hanno di recente aderito alla modernità isolando e valorizzando alcuni aspetti della propria cultura quali elementi prodotti e “consumati” all’interno dei parametri stabiliti dalla politica adottata dal governo nei confronti delle minoranze e delle rappresentazioni dell’etnicità promosse dallo stesso a fini turistici. Questo processo si inserisce in un discorso più ampio, che mira ad approfondire le dinamiche che, nel corso degli ultimi due decenni, hanno permesso ad alcune culture locali di sopravvivere grazie all’esercizio della propria agentività.

A partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, l’area di Lijiang, il più grande centro della cultura Naxi, è stata aperta ai ricercatori stranieri e al turismo e da quel momento ha conosciuto uno sviluppo economico pressoché ininterrotto. Nel 1993 la cittadina contava 3 hotel e qualche pensione, nel 1999 le strutture ricettive erano già arrivate a 71,11)Charles F. McKhann, “The Good, the Bad and the Ugly: Observations and Reflections on Tourism Development in Lijiang, China”, in Zhusheng Wang et al. (a cura di), Tourism, Anthropology and China: In Memory of Professor Wang Zhusheng (Bangkok: White Lotus, 2001), 150-151. nel luglio del 2018 gli alberghi erano diventati 155, per una disponibilità di 11.232 camere, e 118 le pensioni, mentre i visitatori accolti nel 2019 sono stati ben 54.023.500.12)Dati tratti dal sito ufficiale dell’Ufficio Municipale per la Cultura e il Turismo di Lijiang: Lijiangshi Wenhua he Lüyou Ju 丽江市文化和旅游局. http://www.ljta.gov.cn (consultato il 3/05/2020).

Il quadro fin qui delineato, pur nella sua sommarietà, già rivela l’esistenza di una profonda contraddizione, che ha accompagnato l’elaborazione delle politiche ufficiali rivolte alla promozione delle attività turistiche: se da un lato, una delle priorità del governo centrale si identificava con la trasformazione delle minoranze etniche in risorse e la loro conseguente introduzione all’interno del moderno sistema socialista, dall’altro, a livello locale, ci si rendeva conto che lo sviluppo delle attività attinenti al viaggio per diletto esigeva che il luogo deputato ad attrazione turistica fosse presentato, almeno in parte, come esotico13)T. S. Oakes, “Cultural Geography and Chinese Ethnic Tourism”, Journal of Cultural Geography, Vol. 12,1992,9; T. S. Oakes, Tourism and Modernity in China (Londra: Routledge, 1998), 2. ovvero come inviolato dalla modernità, riproponendo così la ben nota metafora dell’esotizzazione. Tra le dinamiche di particolare rilievo in questo processo, troviamo la reinvenzione, operata dai Naxi con l’incoraggiamento dello Stato, di una storia culturale ampiamente simbolica, quale parte integrante di un’economia di prodotti destinati ad attirare nuovi visitatori.14)McKhann,“The Naxi and The Nationalities Question”, 44-46; Schein, Minority Rules, 69-70, 74-80; Oakes, Tourism and Modernity, 126.

In questo contesto, estremamente originale è stata la trasformazione della “religione dongba” in “cultura dongba”, osservata da Chao,15)E. Chao, “Hegemony, Agency, and Re-presenting the Past: The Invention of Dongba Culture among the Naxi of Southwest China”, in Melissa J. Brown (a cura di), Negotiating Ethnicities in China and Taiwan (Berkeley: UC Press, 1996), 208-239. e che ben risponde alla nozione di “invenzione di tradizione”. Hobsbawm ha indicato, infatti, la “tradizione inventata” come:

“un insieme di pratiche, normalmente governate da norme accettate tacitamente o apertamente, e di natura simbolica o rituale, che tentano di inculcare taluni valori e norme relativi al comportamento mediante la ripetizione, il che automaticamente implica una continuità con il passato” (T.d.A.).16)E. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition (Cambridge: Cambridge UP, 1983),1.

Sulla base di questa definizione, l’invenzione della cultura dongba può verosimilmente essere attribuita a due attori principali: gli studiosi Naxi che, nella lotta per la sopravvivenza culturale dell’etnia, hanno tentato di ri-presentare la loro etnicità all’interno dell’angusto spazio concesso dal governo, e lo Stato che, non ha solo promosso la “differenza” meramente in quanto forma di consumo e fonte di guadagno, ma che ha anche ratificato con quale passato la continuità dovesse essere cercata ovvero con gli anni antecedenti all’epoca maoista. Effettivamente, la disillusione delle masse al termine della Rivoluzione Culturale aveva reso necessaria una rottura con gli avvenimenti del passato più recente affinché potesse essere possibile legittimare una nuova identità nazionale. Da qui, il ritorno a un’enfasi ufficiale sulle rappresentazioni della diversità etnica interna e della tolleranza verso l’alterità.17)Chao, “Hegemony, Agency”, 211-212.

Tuttavia, l’appropriazione, l’invenzione e la rappresentazione delle tradizioni delle popolazioni periferiche avevano avuto principalmente lo scopo di creare dei soggetti locali subordinati, il cui artigianato potesse essere commercializzato e le cui rappresentazioni potessero essere oggetto di consumo. La nascita della “cultura dongba”, che è arrivata a indicare il patrimonio culturale “autentico” dei Naxi, testimonia la misura in cui l’invenzione di una tradizione possa riflettere strutture di potere ed essere permeata da matrici ideologiche ed economiche. Le tradizioni inventate “sono risposte a nuove situazioni che assumono la forma di richiamo a vecchie situazioni”.18)Hobsbawm e Ranger, The Invention, 2. Nel caso in discussione, le “nuove situazioni” sono rappresentate dalla liberalizzazione economica promossa da Deng Xiaoping e, conseguentemente, dalla mobilitazione della Cina verso la modernità. Fu proprio questo nuovo obiettivo nazionale a sollecitare una rapida trasformazione sociale, la quale, a sua volta, indebolì quegli aspetti degli antichi costumi Naxi che non erano più compatibili con il cambiamento incombente.

L’abilità degli studiosi Naxi nel combinare in un’unica espressione i termini cultura e dongba, sulla base dell’associazione dello specialista rituale (dongba) con la stesura dei manoscritti cerimoniali e, dunque, con la conoscenza di una forma di scrittura, fu l’escamotage che permise la conservazione dell’eredità religiosa Naxi in una forma che potesse essere accettabile anche per il sistema cinese. Questa nuova interpretazione della figura del sacerdote al tempo stesso lo allontanava dal reame della superstizione, tanto temuto.19)Chao, “Hegemony, Agency”, 211-212. Al declino delle antiche usanze si accompagnò un cambiamento nella tradizione: questo specialista rituale venne a essere ripensato come un esperto della cultura Naxi, come il depositario dell’eredità dei miti e della storia dell’etnia e i suoi manoscritti furono riletti come espressione di un’antica saggezza. La religione dongba divenne la cultura dongba.

2.1 Autenticità e cultura dongba

Gli sforzi locali tesi alla rivalutazione di taluni elementi della pratica indigena hanno ulteriormente problematizzato le implicazioni politiche dell’invenzione della tradizione poiché gli oggetti dell’invenzione hanno lentamente iniziato ad assumere il ruolo di agenti della stessa. Questa trasformazione si presta a essere interpretata facendo riferimento a ciò che Desai20)G. Desai,“The Invention of Invention, Cultural Critique, 24, 1993, 131-133. ha descritto nei termini di una delle possibilità attraverso cui le comunità arrivano a costituirsi come momenti di resistenza al controllo. Tra gli aspetti più interessanti della creazione della “cultura dongba” c’è proprio il fatto che l’artificiosità della sua natura sia stata riconosciuta dai Naxi, tanto che l’idea di “cultura dongba” non corrisponde fedelmente né alle rappresentazioni locali dell’identità, né a ciò che l’etnia percepisce come “autentico”. L’invenzione appare, quindi, come un processo di produzione e contraffazione,21)Desai,“The Invention“, 122. a cui i Naxi non sembrano fare eccezione. Ciò nondimeno, la rivisitazione di questi specialisti rituali nelle vesti di “saggi” dell’etnia ha conferito loro una voce di autorevolezza capace di parlare per l’eredità culturale dell’intera minoranza.

Dal punto di vista degli organi del governo locale che, sulla base delle argomentazioni evoluzionistiche Han, hanno scelto le forme della cultura etnica che potevano essere riabilitate e valorizzate, la “cultura dongba” è diventata un autentico prodotto per il consumo turistico ed accademico.

I visitatori stranieri, desiderosi di soddisfare l’ambizione di sperimentare un contatto diretto con un autentico Altro,22)In proposito si veda anche I. Silver “Marketing Authenticity in Third-World Countries”, Annals of Tourism Research, 20, 1993, 302-307. incuriositi dalle descrizioni di Lijiang contenute nelle guide turistiche e nelle pubblicità che ritraggono “l’affascinante cultura dongba dei Naxi”, sono stati incoraggiati al viaggio dalla possibilità di raggiungere aree della Cina precedentemente chiuse al turismo internazionale. Colorati costumi locali, feste e arte popolare si sono rapidamente trasformati in prodotti ad esclusivo uso turistico e costituiscono una chiara manifestazione di quella che MacCannell ha definito “staged authenticity”.23)D. MacCannell, “Staged Authenticity”, in D. MacCannell (a cura di), The Tourist. A New Theory of the Leisure Class (New York: Schocken,1976), 92. Le danze rituali dongba, in cui il presunto sacerdote indossa il costume “tipico” e scandisce i passi “tradizionali”, altro non sono che moderne improvvisazioni e i souvenir svenduti dagli artigiani di Lijiang spesso contengono pittogrammi dongba non corretti.

Queste rappresentazioni della “cultura dongba” sono confezionate per gratificare le aspettative dei turisti alla ricerca dell’autenticità: sono pseudo-eventi. Vale qui la pena notare che se spesso il moderno turista è stato considerato alienato e alla perenne ricerca del primitivo, del naturale, dell’incontaminato, nel nostro caso ritrova tali dimensioni proprio nella cultura dongba, che è invece un prodotto della modernità cinese. Così, sebbene l’autenticità sia generalmente concepita come saldamente radicata nella vita premoderna, ciò che accade a Lijiang è che il turista la sperimenti in ciò che è stato già adattato e alterato dall’appello alla modernità formulato del governo cinese quattro decenni or sono. In quale misura la crescita del mercato del turismo etnico possa incoraggiare una continua evoluzione dell’idea di cultura dongba in più direzioni, mentre la stessa continua a trarre la sua autenticità da un’invenzione della cultura Naxi, è una riflessione che suscita ulteriori considerazioni.

La nozione di autenticità della cultura dongba è prodotta a tre distinti livelli: è socialmente costruita, dalla codificazione delle aspettative coltivate nell’immaginario del turista24)G.Hughes, “Authenticity in Tourism”, Annals of Tourism Research, 22, 4, 1995, 781-782. e  la cui espressione concorre alla costruzione culturale dei luoghi esotici; è politicamente costruita, dalle aspettative elaborate dallo Stato cinese e dalla cultura Han nei riguardi delle tradizioni di un gruppo etnico subordinato;25)Oakes, “Cultural Geography”, 11-12. è culturalmente costruita, dagli sforzi compiuti dall’élite Naxi per l’invenzione di uno spazio civilizzato che contribuisca al prestigio dell’etnia invocando il concetto cinese di civiltà.26)Chao, “Hegemony, Agency”, 234.

2.2 Autenticità, società e politica: implicazioni del turismo etnico tra i Naxi

In quanto socialmente costruita, l’autenticità è relativa e negoziabile27)E. Cohen, Authenticity and Commoditization in Tourism, Annals of Tourism Research, 25, 3,1988, 373-374; Wang Ning,“Rethinking Authenticity in Tourism Experience”, Annals of Tourism Research, 26, 2, 1999, 351-358. dal momento che è il risultato della proiezione, sugli oggetti e gli altri incontrati nel viaggio, delle persuasioni, dei sogni e delle aspettative del turista.28)Silver, Marketing Authenticity“, 308-311. Ne consegue che l’autenticità diviene un’etichetta, applicata alle culture incontrate, in base a immagini stereotipate prodotte dalla società da cui il turista proviene.

Ciò di cui il visitatore è alla ricerca, è stato definito da Culler come “symbolic authenticity”:29)J. Culler, “The Semiotic of Tourism”, in J. Culler (a cura di), Framing the Sign. Criticism and Its Institutions (Oxford:  Blackwell, 1988), 155, 159. una costruzione sociale in cui gli oggetti e gli altri visitati sono sperimentati come autentici, non perché lo siano, ma perché vengono colti come simboli, come segni di un qualcosa che ha poco a che fare con la realtà da cui proviene il viaggiatore. Questo è esattamente quello che emerge dall’incontro del turista con i Naxi: la cultura dongba è percepita come segno di una cultura altra, autentica nella sua alterità, nonostante il fatto che il suo carattere d’invenzione sia riconosciuto dalla comunità locale. L’autenticità espressa in questi termini, quindi, non è effettivamente la qualità di qualcosa, ma una merce, un elemento essenziale dell’esperienza del turista. Eppure, questo processo semiotico rivela un paradosso,30)Culler, “The Semiotic”, 159-160. che nasce dalla diffusione di codici di consumo ampiamente prodotti mediante rappresentazioni, le quali finiscono per svuotare se stesse di qualsiasi profondo significato culturale, convertendosi da simboli in significanti.31)J. Baudrillard,Simulations (New York: Semiotext(e), 1983). Il dilemma dell’autenticità è che, per dirla con le parole di Culler:

per essere sperimentato come autentico [un luogo] deve essere contrassegnato come autentico, ma quando viene contrassegnato come autentico diviene mediato, un segno di se stesso e dunque manca dell’autenticità di ciò che è realmente incontaminato, inviolato da interposti codici culturali.32)Culler, “The Semiotic”, 164.(T.d.A.)

In altri termini, l’autentico deve essere contrassegnato per potersi costituire come tale, anche se la nostra nozione di “autentico” è assimilabile piuttosto a ciò che non sia mai stato in alcun modo etichettato. Ad esempio, per avere un sito “autentico” è necessario che un’autorità esterna certifichi la genuinità dell’esperienza degli oggetti e degli altri visitati.33)M. Harkin, “Modernist Anthropology and Tourism of the Authentic”, Annals of Tourism Research, 22, 3, 1995, 651-653, 656, 662. Nel caso dei Naxi, è singolare che siano spesso stati invocati come garanti dell’autenticità della cultura dongba personaggi occidentali, come Joseph Rock34)Il botanico Joseph Rock dedicò gran parte della sua vita allo studio della cultura Naxi e fu il primo a far conoscere i manoscritti Naxi al mondo occidentale. o Peter Goullart.35)Peter Goullart visse lungamente a Lijiang e fu autore di un popolare resoconto della vita che si conduceva nella cittadina negli anni Quaranta: The Forgotten Kingdom (1955).

Un secondo aspetto di questo meccanismo semiotico è la relazione che esiste tra le “back and front regions” dello spazio destinato al turista, definite da MacCannell.36)MacCannell,”Staged Authenticity”, 92-96. Le stesse danze dongba, possono essere interpretate, in questa prospettiva, alla stregua di congegni che permettono al turista di recarsi “dietro le quinte” di quello spazio che gli è riservato nell’esperienza del viaggio. Ma l’esistenza degli indicatori di autenticità che contraddistinguono questo tipo di eventi denota che essi sono già stati in qualche modo codificati e, quindi, che non sono più genuinamente autentici. La realtà è che il turista riesce a trovare solo ciò che gli viene proposto: nello specifico, una sorta di spazio dietro le quinte, intenzionalmente approntato affinché egli lo visiti, dove l’autentico è però evidentemente sostituito da un simulacro.

Se ci si sposta sul piano della relazione tra autenticità e politica nell’invenzione della cultura dongba,la riflessione non riguarda più l’originalità degli oggetti o dell’alterità, ma il ruolo assunto dal governo cinese nel forgiare un’autenticità commerciabile, passando attraverso il soddisfacimento delle aspettative nutrite dalla cultura dominante nei riguardi delle etnie locali.

Lo Stato allora non è più solamente arbitro delle relazioni che si instaurano tra i vari attori che partecipano del turismo etnico, ma assume un ruolo ancor più totalizzante, se possibile. Circoscrive lo spazio all’interno del quale una merce specifica può essere prodotta, identifica la minoranza designata a tale produzione e quali caratteristiche di una determinata minzu possono essere interpretate come “autentiche” e, dunque, rappresentative della stessa. La promozione della differenza, dell’autenticità e dell’etnicità, di conseguenza, acquisisce la connotazione di reinvenzione di identità desiderabili.

Tuttavia, in particolar modo negli ultimi due decenni, le élites locali sono diventate sempre più agenti critici nella riformulazione dei mondi delle loro comunità e, come suggeriscono i Naxi, esiste la possibilità che le minoranze etniche in Cina siano, in una certa misura, anche artefici delle loro modernità alternative. In questa prospettiva, l’autenticità si manifesta nell’abilità delle comunità locali di manipolare la logica della cultura Han e di esercitare strategie di identificazione personale. L’autenticità viene a risiedere, in questi casi, nelle resistenze che le popolazioni non-han riescono a esprimere, nella loro resilienza, nei compromessi che riescono negoziare all’interno delle opportunità offerte dalla modernità del sistema cinese post-socialista.

Conclusioni 

Anche in Cina, la visione strategico-oppositiva del senso politico dell’identità elaborata nei periodi caratterizzati dai tentativi di assimilazione, e sinizzazione, dell’alterità, ha lasciato il passo alle politiche di promozione del pluralismo culturale, già da qualche decennio. Certamente, l’essenzialismo iniziale ha permesso di individuare alcuni fattori economici, politici ed ideologici che hanno strutturato l’opposizione a un’alterità complementare e portatrice di significato, ma chiamando in causa universi circoscritti, fatti di limiti, geograficamente e concettualmente organizzati attorno a dicotomie, a discapito di una più efficace considerazione dei processi d’interazione delle soggettività coinvolte, processi nei quali l’alterità non viene silenziata o semplicemente racchiusa in etichette e rappresentazioni esterne, come invece abbiamo visto accadere nel caso della metafora dell’esotizzazione e della femminilizzazione dell’etnia Dai.

La contemporaneità ha forgiato nuove configurazioni di culture e relazioni culturali che hanno costretto al ripensamento di alcune di queste dicotomie, quali ad esempio quella di centro-periferia o quella di modernità-tradizione. Dinamismi, interazioni contingenti e ibridazioni hanno dissolto in una molteplicità di articolazioni la stabilità di definizioni come quella di “cultura” o di “identità”.

Di tutto questo, la realtà cinese è un esempio interessante, ancorché embrionale. In essa s’intravedono grossolane e abbozzate interpretazioni della transizione verso la fluidità delle “essenze immutabili”. Il caso-studio dei Naxi ha ampiamente messo in luce la pluralità di voci, che contribuiscono, ciascuna a proprio modo, esattamente a questa creazione dinamica e corale dell’identità Naxi contemporanea: il gruppo etnico, le élite locali, i rappresentanti del governo, i turisti. Il carattere parziale delle informazioni contenute nelle narrazioni di ciascuno degli interlocutori relativizza i confini inventati, a favore di relazioni e interrelazioni.

Persa la valenza oggettiva, l’identità svela tutta la sua natura processuale, prodotta da individui e gruppi a vario livello e continuamente reinventata dalla loro interazione. La “cultura” stessa si rivela un concetto precario, reinterpretabile a seconda degli obiettivi e delle circostanze, mentre resistenze e compromessi forgiano lo spazio per le negoziazioni, continue, dell’identità.

Turini, lo sguardo sull’Altro PDF

Immagine: giovane dongba (foto di Cristiana Turini)

Cristiana Turini insegna cinese all’Università di Macerata. Dopo aver perfezionato lo studio della lingua all’Università di Lingue e Culture di Pechino e all’Università di Wuhan, ha conseguito il titolo di Master of Arts in Antropologia Medica presso la School of Oriental and African Studies di Londra e quello di dottore di ricerca in Storia e Civiltà dell’Asia Orientale all’Università “La Sapienza”. I suoi interessi di ricerca si rivolgono all’antropologia della Cina sud-occidentale, in particolare allo studio delle etnomedicine nella regione di confine tra Yunnan, Tibet e Sichuan. Alcune delle sue pubblicazioni recenti riguardano le esperienze di malattia e guarigione tra i Naxi dello Yunnan, la traduzione dei manoscritti dongbae la scrittura pittografica Naxi.

 

 

References
1 Tale percentuale identifica comunque ben 113.792.211 persone, cifra che in altri contesti geografici risulterebbe tutt’altro che trascurabile. https://web.archive.org/web/20131108022004/http://www.stats.gov.cn/english/newsandcomingevents/t20110428_402722244.htm(consultato il 25/04/2020).
2 Joan Lebold Cohen, The Yunnan School: A Renaissance in Chinese Painting (Minneapolis: Fingerhut Group Publishers, 1988), 46.
3 Cohen,The Yunnan School,126.
4 Si veda anche Charles F. McKhann “The Naxi and The Nationalities Question”, in Stevan Harrell (a cura di), Cultural Encounters on China’s Ethnic Frontiers (Hong Kong: Hong Kong University Press, 1994), 39-62.
5 Dru C. Gladney, “Representing Nationality in China: Refiguring Majority/Minority Identities”, The Journal of Asian Studies, Vol. 53, 1, 1994, 103-104. Si veda in merito anche Louisa Schein, Minority Rules. The Miao and the Feminine in China’s Cultural Policies (Durham e Londra: Duke University Press, 2000), particolarmente i capitoli 4, 5 e 6.
6 Stevan Harrell, “Introduction. Civilizing Projects and the Reaction to Them”, in Stevan Harrell (a cura di), Cultural Encounters on China’s Ethnic Frontiers, 3-36. Benché l’esposizione dell’accurata ed articolata disamina di Harrell dei “progetti civilizzatori” esuli dagli intenti di questo contributo, se ne rivisiteranno criticamente alcuni contenuti per contestualizzare l’analisi dell’ideologia che sottende le relazioni egemoniche presenti nel caso-studio.
7 Harrell, “Introduction”, 12.
8 Gladney, “Representing Nationality”, 96.
9 Francesco Remotti, Contro l’identità (Bari: Laterza,1996), 63.
10 I Naxi sono una popolazione di origine tibeto-birmana, la cui popolazione, secondo il censimento nazionale del 2010, conta 326295 persone. https://guides.lib.unc.edu/china_ethnic/statistics (consultato il 29/04/2020).
11 Charles F. McKhann, “The Good, the Bad and the Ugly: Observations and Reflections on Tourism Development in Lijiang, China”, in Zhusheng Wang et al. (a cura di), Tourism, Anthropology and China: In Memory of Professor Wang Zhusheng (Bangkok: White Lotus, 2001), 150-151.
12 Dati tratti dal sito ufficiale dell’Ufficio Municipale per la Cultura e il Turismo di Lijiang: Lijiangshi Wenhua he Lüyou Ju 丽江市文化和旅游局. http://www.ljta.gov.cn (consultato il 3/05/2020).
13 T. S. Oakes, “Cultural Geography and Chinese Ethnic Tourism”, Journal of Cultural Geography, Vol. 12,1992,9; T. S. Oakes, Tourism and Modernity in China (Londra: Routledge, 1998), 2.
14 McKhann,“The Naxi and The Nationalities Question”, 44-46; Schein, Minority Rules, 69-70, 74-80; Oakes, Tourism and Modernity, 126.
15 E. Chao, “Hegemony, Agency, and Re-presenting the Past: The Invention of Dongba Culture among the Naxi of Southwest China”, in Melissa J. Brown (a cura di), Negotiating Ethnicities in China and Taiwan (Berkeley: UC Press, 1996), 208-239.
16 E. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition (Cambridge: Cambridge UP, 1983),1.
17 Chao, “Hegemony, Agency”, 211-212.
18 Hobsbawm e Ranger, The Invention, 2.
19 Chao, “Hegemony, Agency”, 211-212.
20 G. Desai,“The Invention of Invention, Cultural Critique, 24, 1993, 131-133.
21 Desai,“The Invention“, 122.
22 In proposito si veda anche I. Silver “Marketing Authenticity in Third-World Countries”, Annals of Tourism Research, 20, 1993, 302-307.
23 D. MacCannell, “Staged Authenticity”, in D. MacCannell (a cura di), The Tourist. A New Theory of the Leisure Class (New York: Schocken,1976), 92.
24 G.Hughes, “Authenticity in Tourism”, Annals of Tourism Research, 22, 4, 1995, 781-782.
25 Oakes, “Cultural Geography”, 11-12.
26 Chao, “Hegemony, Agency”, 234.
27 E. Cohen, Authenticity and Commoditization in Tourism, Annals of Tourism Research, 25, 3,1988, 373-374; Wang Ning,“Rethinking Authenticity in Tourism Experience”, Annals of Tourism Research, 26, 2, 1999, 351-358.
28 Silver, Marketing Authenticity“, 308-311.
29 J. Culler, “The Semiotic of Tourism”, in J. Culler (a cura di), Framing the Sign. Criticism and Its Institutions (Oxford:  Blackwell, 1988), 155, 159.
30 Culler, “The Semiotic”, 159-160.
31 J. Baudrillard,Simulations (New York: Semiotext(e), 1983).
32 Culler, “The Semiotic”, 164.
33 M. Harkin, “Modernist Anthropology and Tourism of the Authentic”, Annals of Tourism Research, 22, 3, 1995, 651-653, 656, 662.
34 Il botanico Joseph Rock dedicò gran parte della sua vita allo studio della cultura Naxi e fu il primo a far conoscere i manoscritti Naxi al mondo occidentale.
35 Peter Goullart visse lungamente a Lijiang e fu autore di un popolare resoconto della vita che si conduceva nella cittadina negli anni Quaranta: The Forgotten Kingdom (1955).
36 MacCannell,”Staged Authenticity”, 92-96.