Come sappiamo, il Partito Comunista Cinese ha rivendicato la superiorità del proprio modello politico nella gestione della crisi causata dall’epidemia di Covid-19. Il governo cinese, infatti, è riuscito a contenere, e forse a sconfiggere in tempi relativamente rapidi il famigerato virus (Wuhan prevede di terminare la sua quarantena il prossimo 8 aprile) grazie a una sistematica azione di coordinamento a livello nazionale e, in particolare, grazie a un controllo pervasivo e capillare sui movimenti degli individui. Elemento fondamentale di questo modello, ovviamente, è anche il controllo sistematico e semitotale dello stato sull’informazione. Sopprimendo qualsiasi voce discordante o negativa, costruendo una trionfalistica narrazione patriottica della “guerra” nazionale contro il virus, trasmettendo messaggi univoci e perentori con cui indirizzare il comportamento della popolazione, la macchina della propaganda cinese, che anche fra noi comincia a far sentire la sua potenza e la sua influenza, ha cercato di sussumere all’interno della propria narrativa qualsiasi discorso sul coronavirus, non importa se pubblico o privato, esperto o popolare. Ciò non ha comportato soltanto una censura immediata riguardo la ricerca della verità storica (come si è diffuso veramente il virus, e quale responsabilità hanno avuto nella sua propagazione le autorità cinesi), ma pure ha reso problematico ascoltare le reazioni della società cinese all’esperienza del virus, esperienze verosimilmente molteplici e articolate che però, tendenzialmente, hanno potuto trovare espressione solo attraverso un processo di negoziazione e compromesso con la vulgata autorizzata. L’esempio più importante è forse quello di Fang Fang, la nota scrittrice wuhanese autrice di un diario sulla quarantena già presentato su questa rivista, la quale, lungi dall’essere una voce dissidente e antagonista, si è semplicemente limitata con il suo diario a portare in superficie la realtà della sofferenza collettiva di Wuhan, reclamando nel contempo verità e responsabilità da parte delle autorità riguardo all’accaduto. Ma anche lei, “coscienza illuminista” del paese per molti lettori, troppo popolare con i suoi cinque milioni di follower su Weibo per essere messa del tutto a tacere, è stata comunque vittima della censura e ha dovuto subire feroci attacchi personali da parte di chi la accusava di scrivere cose false o di essere troppo disfattista.
Con questo speciale vogliamo esplorare come sono stati articolati i discorsi sul coronavirus in Cina, cercando di osservare da un lato come il governo ne ha imposto la narrazione, dall’altra come diversi individui o gruppi sociali hanno cercato di esternarne l’esperienza. La rassegna comincia con un’analisi di Beatrice Gallelli sulla retorica “epica” lanciata dal partito, seguita da un articolo di Federico Picerni che prende in esame viceversa alcuni voci “dal basso”, e continua con un intervento di Mariagrazia Costantino che mette in evidenza gli sforzi di alcuni citizen journalists. Proponiamo inoltre la traduzione di alcuni passaggi del blog di Stephen Jones, che ci narra di come il dissenso sia espresso anche attraverso canti popolari prodotti in ambienti della religione rurale della Cina del nord. Trattandosi di un work in progress, altri interventi si aggiungeranno eventualmente in un secondo momento.
Immagine: La guerra per sconfiggere il virus.