È possibile esplorare la “corpo-realità” umana attraverso alcune concezioni del corpo e le sue varie rappresentazioni nella cultura cinese antica e moderna. Se natura e tecnologia – il cui ruolo complesso e controverso nella società cinese è già stato analizzato in precedenza su Sinosfere – appaiono oggi le principali frontiere del futuro, ora salvifiche ora matrigne, questo numero dedicato al corpo cerca di trovare una misura e uno spazio più specificatamente umano all’ombra di tale potente dualismo. L’approccio alla sensorialità teorizzato dal filosofo francese Merleau-Ponty, che vede nel corpo il primo strumento di comunicazione e conoscenza del mondo, è stato recentemente ripreso da molti e ampiamente citato anche in questa miscellanea di contributi: malgrado la crescente egemonia degli approcci tecno-scientifici, la visione del corpo come misura e veicolo di senso/sensi si rivela tra le più adatte ad analizzare la relazione tra uomo e realtà, anche nel caso cinese.
In Cina, la tradizionale concezione unitaria di psiche e materia, il mente-corpo che si traduce nel carattere xin心(solitamente reso con “cuore”) va analizzata in corrispondenza al concetto di shenti 身体, “corpo”, che allude sia al sé individuale sia alla struttura o sistema collettivo che lo sottende, come le membra plurali in un ente contemporaneamente singolo. Il concetto di identità va perciò letto in un’unione tra il sé interiore shen e il suo rapportarsi con l’entità fisica esterna del ti. Quest’interpretazione immanente, “politica” e olistica del corpo sviluppatasi nella cultura cinese, dalla filosofia, alla medicina e all’arte, ha stimolato spesso forme di rappresentazione in cui le sembianze fisiche, il dettaglio anatomico sfuggivano all’attenzione dell’occhio, tutto concentrato piuttosto nell’identificare quel corpo nel suo contesto naturale, cosmico e sociale.
I grandi mutamenti intervenuti nella società cinese contemporanea, nonostante il persistere di retaggi antichi legati al corpo, mettono a nudo una lacerazione costante e la sempre più difficile sovrapposizione tra corpo individuale e corpo sociale nonché una sofferta separazione tra fisicità e interiorità. Durante gli anni Novanta del secolo scorso, in piena fase di espansione consumistica verso un capitalismo postsocialista, la connessione tra corpo e società in Cina si è fatta più sensibilmente critica, il legame tra “io” e “altri”, sé e mondo, fisicità e psichicità si è drammaticamente sfilacciato nel nuovo modello esistenziale che, privilegiando un io tutto dedito al godimento materialistico del presente e potenziando l’individualismo del soggetto, mette in discussione l’io sociale, il tutto collettivo che di quel corpo singolo era percepito come massima e finale espressione.
Nella sorprendente poesia operaia analizzata in questo numero di Sinosfere da Federico Picerni, la macchina, la costrizione spaziale, il lavoro spersonalizzante della fabbrica – uno dei simboli in passato del corpo sociale maoista – ingoiano il corpo del lavoratore e della lavoratrice che, martoriato e reificato, ritorna tuttavia centrale nella sua funzione cognitiva di principale sistema percettivo dell’essere umano. La distruzione del corpo, il suicidio, è, paradossalmente, per questi lavoratori, l’atto ultimo di libertà dalla coercizione del corpo economico sul corpo individuale, così come la letteratura, la poesia, lo è in termini spirituali.
Tale contraddittoria visione emerge chiaramente anche nell’excursus suggestivo di Corrado Neri sul cinema della Repubblica popolare cinese, dai “corpi eroici” – prima fisicamente sottolineati ed esibiti e poi coperti e metaforizzati rispettivamente nei film d’ispirazione rivoluzionaria e comunista – ai “corpi erotici” la cui sensualità viene ri-scoperta nel fermento culturalista degli anni Ottanta, fino alla materialità dei corpi virtuali esposti dai media odierni, per es. nel film-documentario sugli youtuber cinesi.
Anche in letteratura, come osserva Melinda Pirazzoli, è dal corpo che ripartono gli scrittori cinesi della Cina postsocialista, eleggendolo a spazio di carnalità assoluta (per esempio in Mo Yan 莫言 che enfatizza il corpo contadino), di unica e tragicamente individuale verità (si pensi al corpo del brigante scuoiato dai giapponesi nel romanzo Sorgo rosso), spezzando, appunto, il legame socio-economico con la comunità imposto dalla visione maoista, ma, anche – come nel racconto “Telecomando” di Bi Feiyu 毕飞宇 – impedendo al corpo stesso, in un’era di pervasiva “dittatura” delle cose, di svolgere la sua funzione di strumento percettivo, allontanando quindi quella realtà di cui dovrebbe invece essere misura.
Se in fabbrica il corpo è umiliato ma risorge poi grazie alla poesia, nelle prigioni maoiste è la frontiera perenne del dolore e dell’annientamento. Sulla scorta di Foucault, che ha mostrato il soverchiante potere della politica bio-repressiva, e di Merleau-Ponty, Serena De Marchi sviluppa la sua analisi della funzione del “disgusto” del corpo, terribile manifestazione della storia cinese recente, nel suo saggio sui laogai cinesi – i campi di detenzione e rieducazione che, in particolare negli anni Sessanta del secolo scorso, riducevano la persona a un corpo, alla pura zoe, la “vita nuda” mercé del potere autoritario.
La rappresentazione del corpo seviziato, sacrificato e cannibalizzato è oggetto dell’articolata panoramica offerta da Mariagrazia Costantino sull’arte contemporanea cinese. La potente allegoria del cannibalismo, che si perpetua e consustanzia nella storia antica e recente della Cina, da feroce critica culturale – lanciata da Lu Xun all’inizio del secolo scorso contro la disumanità del sistema tradizionale – riemerge ambiguamente nelle arti visive e narrative di oggi: truci esibizioni di corpi (spesso feti) consumati, mutilati, divorati, in quel gusto per il “grottesco e sanguinolento” che contraddistingue la poetica di molti autori contemporanei. Tali raffigurazioni e interpretazioni impongono a chi legge/guarda/esperisce l’opera l’etico interrogativo se la disumanizzazione sia nell’oggetto o nel soggetto senziente.
Nei saggi di Elena Valussi e Francesca Tarocco, si traccia una storia filosofico-religiosa del corpo cinese, rispettivamente in ambito femminile, monastico e dei letterati tradizionali. La prima esplora la concezione del corpo femminile nelle pratiche di meditazione e sublimazione daoista, facendo emergere la correlazione tra potere, genere e valorizzazione delle differenze fisico-psichiche rispetto al corpo maschile. Non a caso, la potenzialità di questo sapere viene vista come perniciosa dal potere politico cinese in alcune epoche, mentre una riscoperta del qigong, atto ad ascoltare e assecondare la naturalità dei fenomeni corporei femminili, contribuisce sia in Cina sia all’estero a una maggiore consapevolezza delle scelte individuali della donna.
Anche per Tarocco, potere e (rappresentazione religiosa del) corpo si intrecciano strettamente: l’originale connubio tra buddhismo e fotografia permise ai monaci e al clero cinese di rivendicare la forza dell’ascesi, e, alla morente dinastia Qing, di eternare anche se per poco la propria autorità attraverso la santificazione fotografica del corpo dell’ultima Imperatrice Ci Xi, avvicinata a e quindi legittimata dalla dea Guanyin.
Mai come in questi giorni il corpo umano rivela la sua oscena fragilità e pericolosità diventando di nuovo, drammaticamente, misura e strumento cognitivo del reale, al di là o in virtù del suo rapporto complesso con natura (in questo caso matrigna) e tecnologia (in questo caso salvifica?): l’infuriare di un’epidemia g-local, partita dalla Cina e che ha rapidamente raggiunto l’Italia e il resto del mondo, ribadisce il concetto che è ancora soprattutto tramite il corpo, anche malato, accudito, recluso, respinto e demonizzato, che l’umanità interagisce, comunica e produce significati. Dal nostro punto di vista occidentale ci costringe a riflettere su vari aspetti della percezione, reale o distorta che dal corpo e dalla sua rappresentazione – con mascherina, steso su una barella, isolato e dissimulato dietro ai pregiudizi – ci perviene della realtà cinese. Ma, illusoriamente, se il corpo è misura del nostro rapporto col mondo e con la storia, forse è proprio attraverso la condivisione della sofferenza e della vulnerabilità fisica e sociale che dovrebbe passare una condivisa e univoca comprensione del nostro destino, globale e individuale, mentre, di fatto, sembra accadere esattamente il contrario.
Già in un coraggioso romanzo del 2003, Ruyan@sars.come, Hu Fayun 胡发云 aveva letto nella diffusione di un virus fatale al corpo umano e al corpo socio-economico la metafora nonché concreta espressione della malattia politica che affligge la Cina, dai tempi di Mao ai successivi dirigenti della RPC, comprese frange non minoritarie di intellettuali. Il romanzo ruota intorno a una donna, una normale cittadina che, grazie a Internet, viene a conoscenza della tragica epidemia di SARS (scoppiata tra Hong Kong e la Cina continentale tra il 2002 e il 2003) e di altre gravi malefatte violentemente negate e nascoste dalle autorità. Come allora anche oggi, nell’intervista concessa lo scorso 6 febbraio a The Reporter, qui tradotta per Sinosfere da alcune studentesse di Ca’ Foscari, Hu Fayun rievoca lo spettro del virus per denunciare le politiche antidemocratiche e l’opacità del sistema mediatico cinese: lo scrittore (originario di Wuhan, prima e più importante città-focolaio del Covid-19) sottolinea che ogni catastrofe compresa l’attuale epidemia ha sempre e soprattutto cause umane.
Sempre in questo numero pubblichiamo alcune puntate del blog di una importante scrittrice di Wuhan, Fang Fang 方方, già nota per le sue opere neorealiste. Un “diario del Coronavirus” che ci costringe a fare i conti con un Altro divenuto, imprevedibilmente, fedele specchio della nostra corporea fragilità.
Immagine: We 2006, di Xiang Jing, particolare.
Nicoletta Pesaro insegna lingua, letteratura e traduzione cinese all’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa di letteratura cinese moderna e teoria della traduzione. Interpreta la letteratura come potenzialità espressiva, immaginativa e cognitiva, straordinariamente capace di adattarsi alle trasformazioni storiche, locali e globali. E’ interessata ai fenomeni linguistici, narratologici e traduttivi e al riflesso che l’estetica letteraria riesce a produrre in relazione alla società e cultura cinese, non disdegnando un approccio comparatistico. Traduttrice di diversi romanzi cinesi moderni, dirige la collana Translating Wor(l)ds (Edizioni Ca’ Foscari).