Da Nanjing e dal Jiangsu, dove studio da qualche anno le dinamiche di trasformazione della città cinese e le relazioni tra lo spazio urbano e l’economia e la società di questa parte del mondo, condivido il pensiero e le parole espresse da Fabio Lanza su Sinosfere in occasione del dibattito sulla lettera che Stefania Stafutti ha indirizzato a Xi Jinping dalle pagine del Corriere della Sera.
Credo anch’io che a noi intellettuali tocchi lo sforzo di comprensione del continente Cina e delle sue culture, nelle loro straordinarie stratificazioni e nelle loro abissali contraddizioni/contrasti, ma che ci competa soprattutto il ruolo operante di suggeritori, al mondo della politica e della cultura, in entrambi i Paesi, di visioni più meditate e forse anche di atteggiamenti se non proprio nuovi, almeno oggi apparentemente inconsueti.
Per questa ragione è importante il richiamo che Lanza ha fatto (e Attilio Andreini prima di lui) all’intellettuale, inteso qui in un ruolo quasi pasoliniano, vissuto cioè con la sofferenza delle indimenticabili pagine del novembre 1974: “…sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”.
Abbiamo, certo, come studiosi, la responsabilità di provare a fare chiarezza, affrontando la complessità delle questioni e tentando di descriverne ogni aspetto. Ma a chi possiamo/dobbiamo rivolgerci?
C’è una vignetta di Makkox della scorsa primavera che bene illustra il volto della politica italiana di questi anni verso la Cina: il Presidente del Consiglio porta al guinzaglio un enorme drago dall’aria feroce e agguerrita, avvisando con una certa svagatezza: “Tranquilli, ragazzi, posso gestirlo… mangia praticamente dalla mia mano…”.
Quella vignetta è il ritratto preciso di un certo innato atteggiamento di sudditanza al quale si pensa di ovviare con l’astuzia: molti nostri concittadini, alcuni dei quali occupano posizioni decisionali di rilievo, guardano ancora alla Cina come a un’opportunità di facile guadagno da un lato e dall’altro lato come a una ribalta da calcare con successo e da addomesticare, magari semplicemente partecipando a fiere o organizzando eventi di una settimana. Esiste una criticità soprattutto politica nei nostri rapporti con la Cina, una criticità che si nutre di una serie di inauditi malintesi e di profonde incomprensioni.
Sciaguratamente questo si riflette anche nelle politiche delle istituzioni scientifiche e accademiche che troppo spesso mantengono della Cina una visione aziendalista, che spesso misurano il proprio prestigio sul numero degli accordi firmati, che non di rado scattano sull’attenti davanti a ogni ingerenza governativa o para-governativa sui propri progetti. Capita così purtroppo che a loro volta le istituzioni cinesi si confrontino con questo atteggiamento come in uno specchio e il gioco di rimandi finisca con il sembrare quello dei bambini quando, uno di fronte all’altro, imitano ogni gesto dell’altro all’infinito, in un estenuante sequela di piccoli ricatti, misere rappresaglie, ingenue alterazioni della verità. Non si esce da questo circolo vizioso continuando a dire che ha incominciato prima l’altro o invocando la delicatezza di un non meglio definito quadro geopolitico: lo specchio va bucato e oltrepassato. Magari tendendosi una mano, anzi camminando verso il futuro “spalla a spalla”.
Rispetto a cinque o dieci anni fa, la Cina di oggi, quella del comparto scientifico e tecnologico, si aspetta dall’Europa competenze specifiche e idee da sviluppare in cooperazione, attraverso i suoi sofisticati laboratori dalle dotazioni straordinarie, magari per avviarle a una macchina produttiva imponente nella quale l’Europa potrebbe ancora giocare un suo ruolo, ancora adoperando competenze e idee che fanno parte delle nostre tradizioni di studio e di lavoro. Non comprendere questo o comprenderlo senza agire di conseguenza, cioè senza rinsaldare soprattutto un’idea forte di cooperazione internazionale, è un errore che rischia di essere madornale.
Ho dedicato gli ultimi anni a costruire, insieme con le università cinesi, alcune collaborazioni su ricerche specifiche, che stanno dando frutti importanti. Due anni fa, partecipando per conto della mia università italiana a un incontro bilaterale presso la sede del Ministero cinese della Scienza e della Tecnologia (MOST) a Beijing, per la verifica dello stato di avanzamento del Programma esecutivo di Cooperazione scientifica e tecnologica tra Italia e Cina (2016-2018), mi sono reso conto del valore straordinario dei lavori che gruppi di ricerca transnazionali Italia-Cina sono in grado di produrre. Ho potuto seguire, da un osservatorio privilegiato e defilato allo stesso tempo, quanto una serie di centri di ricerca in Italia e in Cina stessero facendo insieme (一起, yīqǐ, come dicono qui) nel nome della cooperazione internazionale: era in definitiva molto, esito di grandissimi sforzi, di evidenti difficoltà non sempre superate, di grande passione, spesso con articolate strategie di scambio di personale, di co-authorship di pubblicazioni, anche di finanziamenti ulteriori, cercati strenuamente e in ogni direzione in stretta collaborazione.
I membri di molti dei gruppi sino-italiani davano mostra di conoscersi molto bene e di conoscere profondamente le rispettive culture o almeno di provare con caparbietà a farlo nel nome del buon esito del proprio lavoro. In definitiva, cooperare nella ricerca scientifica e tecnologica, significa davvero studiare insieme, insegnare insieme, impiantare laboratori di ricerca congiunti.
Una docente della Southeast University di Nanjing (importante università tecnica pubblica di quel Jiangsu che è la provincia cinese più avanzata nello sviluppo e nella produzione di tecnologie, nonché sede di una rinomata scuola di architettura ai primi posti nei ranking nazionali) amava ripetermi qualche anno fa: “Perché dobbiamo siglare degli accordi? Stiamo lavorando insieme, dobbiamo continuare farlo, quando raggiungeremo degli obiettivi, li pubblicheremo. A quel punto metteremo attorno a un tavolo i nostri due rettori e toccherà loro, con più facilità e più felicità, firmare carte che spieghino con precisione che cosa potremmo continuare a fare, secondo i nostri obiettivi e le nostre capacità”.
È andata esattamente così. Io e quella collega, direttrice del Dipartimento di Architettura, abbiamo insegnato insieme, incrociando approcci tradizionalmente italiani e temi propri della città cinese, abbiamo pubblicato libri e saggi nei due Paesi, coltivando l’interesse e la passione dei giovani studiosi che avevamo attorno. A quel punto abbiamo messo in piedi progetti di scambio di studenti e un programma di doppia laurea magistrale, così come abbiamo istituito una Joint Research Unit finanziata dai nostri due atenei, e abbiamo partecipato insieme, con le nostre idee, alla costituzione della Internationalization Demonstration School for Architecture, voluta e finanziata dal governo cinese proprio presso la Southeast di Nanjing. Ora, coinvolti altri colleghi dai due Paesi, ci prepariamo a proseguire su questa strada, elaborando insieme progetti di riqualificazione per alcuni distretti della stessa “capitale del sud”, lavorando fianco a fianco con esperti dell’ETH di Zurigo, del MIT o della Pennsylvania University, esplorando possibilità congiunte di ricerca in Tanzania o altrove nella regione centroafricana, facendo assumere da quest’anno al nostro gruppo di ricerca un ruolo crescente nella comunità scientifica mondiale di riferimento.
Se alla fine devo dire qual è stato il segreto di questo felice esito, mi vengono in mente i “nostri” cinesi: gli assegnisti, i dottori e dottorandi migliori (quelli con la famosa borsa “governativa” del China Scholarship Council), e persino alcuni studenti magistrali provenienti da questo Paese, con i quali tutti ho cominciato a lavorare a Torino ormai quasi dieci anni fa e che ho sempre considerato non soltanto come studiosi in formazione o di passaggio nel nostro Paese, ma come autentici “ponti” verso la Cina. Averli messi al lavoro fianco a fianco con i coetanei italiani e gli occidentali in genere ha aiutato a costruire piccole comunità di studiosi che considero il presupposto di una molto più ampia comunità scientifica transnazionale, forse il vero presupposto della crescita di una nuova classe di intellettuali.
Saranno in grado di mettere “insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico” ristabilendo “la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”?
Mi sono accorto in queste ultime settimane come costruire comunità scientifiche significhi anche questo: discutere di quel che succede a Hong Kong in questi mesi con i colleghi cinesi della Mainland o con gli studenti, mentre si lavora a progetti comuni, diventa illuminante, poiché apre alla conoscenza di ragioni, criticità, fini e concause che sono del tutto inattesi. Senza contare che anche provare a descrivere a studiosi cinesi, soprattutto se giovani, la politica italiana di questi ultimi anni è esercizio almeno di una qualche appagante raffinatezza. In fondo basta farsi guidare dall’istinto del proprio mestiere.

Immagine: Tracce di antico a Xiao Xihu, Nanjing, foto di Marco Trisciuoglio.

Marco Trisciuoglio, Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana presso il Politecnico di Torino, dove coordina il Dottorato in “Architettura. Storia e Progetto”, è Co-Direttore di “Transitional Morphologies”, Joint Research Unit costituita tra il Politecnico di Torino e la Southeast University di Nanjing con professori, ricercatori e dottorandi dei due Paesi. È autore, tra l’altro, di Typological Permanencies and Urban Permutations (con Bao Li et al., Nanjing 2017).

Nota della redazione: La lettera di Stefania Stafutti, inizialmente uscita sul Corriere della Sera Online e in seguito ripubblicata da Sinosfere, ha suscitato diverse reazioni e commenti, incentrate sui due temi distinti ma in questo caso sovrapposti delle manifestazioni di Hong Kong da un lato e la discussione sui compiti della sinologia e dei sinologi nel mondo contemporaneo dall’altro. Alcuni di questi commenti sono stati originariamente pubblicati proprio da Sinosfere, sollecitando a loro volta ulteriori riflessioni, confluite negli spazi del Corriere della Sera con la pubblicazione dell’articolo di Maurizio Scarpari La Cina e noi: fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane e le relative repliche che ne sono scaturite, in parte successivamente ripubblicate su Inchiestaonline. Dato che per sua vocazione Sinosfere predilige concentrarsi sull’analisi e sulla critica socio-culturale della realtà cinese, abbiamo deciso di non portare avanti su questa rivista l’attuale discussione che riguarda la posizione degli Istituti Confucio nelle università italiane per continuare invece ad accogliere altri interventi dedicati all’analisi dei fatti di Hong Kong, ripromettendoci di tornare in seguito su questioni che riguardano le condizioni del sapere sinologico nel mondo odierno. L’intervento presente in questa pagina sarà pertanto l’ultimo pubblicato sulla scia del tema “la questione di Hong Kong e il ruolo dei sinologi”.