C’è stato fin qui davvero poco spazio sui nostri pubblici scenari, quotidianamente occupati dal chiasso assordante di spot elettoralistici freneticamente protesi all’esito dell’ultimo sondaggio, per dare l’attenzione che meritano ai fatti di Hong Kong. Come si osservava criticamente in un recente dibattito a Bologna con Ilaria Maria Sala che ne è partecipe testimone e cronista, diversamente da quanto accadeva trent’anni fa per Tian’anmen sembra che il sentimento generalmente diffuso nella nostra opinione pubblica (giovani inclusi) non sia una qualche seppur minima empatia per gli studenti che chiedono autonomia da Pechino e suffragio universale, ma sia invece una sorda indifferenza, con diverse gradazioni: si va del cinico disincanto, ispirato dall’opaca idea che libertà sia una parola vuota e inutile, al dichiarato fastidio. La preoccupazione dominante sembra essere di tipo prettamente economicistico, che si può riassumere nella domanda “quanto nuocciono i disordini causati dal movimento all’economia globale?”, e non di rado emerge una ostentata e incondizionata adesione alle ragioni del più forte, sintetizzabile nell’assunto “il governo di Pechino saprà da par suo riportare l’ordine”. Perfino in ambienti tradizionalmente sensibili a istanze democratiche, succede non di rado di registrare la convinzione che il movimento di Hong Kong sia latore non tanto di esigenze universali e universalistiche, quanto piuttosto di rivendicazioni particolaristiche di speciali privilegi locali.
Tutta questa omologazione così evidentemente conforme a una sorta di pensiero unico predominante, di senso comune (cosa da non confondere assolutamente con il buon senso, come a suo tempo ben rammentava Alessandro Manzoni) che si presume talmente ovvio e scontato da non dover neppure darsi la pena di giustificarsi e dimostrarsi in qualche modo, oltre a essere un ulteriore sintomo, se ce ne fosse bisogno, della crisi strutturale che attraversa da noi l’idea stessa di democrazia, credo sia indizio di fenomeni globali ancor più vasti e profondi, che ci riguardano tutti da vicino. È il caso di chiederci se non ci troviamo oggi di fronte all’avvento di una prospettiva – una prospettiva “confuciana”, come la definiva Max Weber in profetiche pagine riproposte significativamente all’attenzione nei suoi ultimi interventi da un compianto maestro quale Paolo Prodi – che fa dell’adattamento al mondo il solo principio ispiratore a cui ogni soggetto debba integralmente conformarsi, in una totale adesione alla realtà data che annulla ogni altra e diversa istanza, e che annullando l’individuo cancella ogni istanza di mutamento e di trasformazione. In questo senso, oggi più che mai pregnanti ci appaiono i densi interrogativi che Paolo Prodi ci ha consegnato ne Il tramonto della rivoluzione (2015, 87):
“Si afferma l’etica confuciana dell’identificazione dell’ordine morale con l’ordine politico e con l’ordine cosmico (…). La Cina non soltanto è vicina, non soltanto è una potenza che ci sovrasta sul piano economico e geopolitico, ma sta entrando dentro di noi insieme alle nuove tecnologie. Una nuova religione economico-politica per la civiltà del capitalismo finanziario e dei consumi? Sono fermamente convinto che ci troviamo di fronte a una svolta antropologica.”
Benché il confucianesimo non sia, a mio avviso, nella sua multiforme complessità riconducibile a tale dimensione di monolitico dispotismo, e anzi altre e ben diverse istanze siano presenti in quella grande tradizione, come cercherò di mostrare nelle riflessioni che seguono, è peraltro indubbio che sia una diffusa tendenza odierna nella RPC quella di avvalorarne una versione dichiaratamente autoritaria, e di farne, per dir così, una penetrante merce di esportazione. Sono insomma convinta che quanto oggi avviene a Hong Kong – e quanto in rapporto a Hong Kong non avviene oggi da noi – abbia molto a che fare con lo scenario potenzialmente totalizzante sopra evocato. Tutto ciò ci segnala la crescente efficacia egemonica, nella generale distrazione, di una Grande Narrazione che non ammette né dissidenze né contestazioni. Ne è un sintomo clamoroso (e non certo unico) il caso recente della protesta dell’ambasciatore cinese in Italia per l’audizione in videoconferenza al nostro Parlamento del leader di Hong Kong Joshua Wong: un episodio che non sembra aver suscitato reazioni significative da parte di una pubblica opinione il cui torpore su questi temi si è ancora una volta riconfermato. Analogamente, uno scarsissimo seguito ha avuto nel nostro Paese (le adesioni si contano sulle dita di una mano) l’appello promosso nel mondo accademico internazionale da Jean Philippe Beja e altri noti sinologi in favore del Professor Xu Zhangrun, illustre giurista di fama mondiale, sospeso dall’insegnamento all’Università Tsinghua in seguito alla sue critiche al mandato senza limiti che Xi Jinping si è attribuito. Così come una sostanziale pubblica distrazione ha accolto la “Risposta al sottosegretario Geraci” che ha avuto per primo firmatario Ivan Franceschini (Australian Centre on Asia in the World, University of Canberra) sottoscritta da una ventina di sinologi italiani attivi nelle università di varie parti del mondo, che sottolineava la pericolosità di considerare un valido modello la gestione cinese dei flussi migratori – e non diversa sorte ha avuto la protesta diffusa sui giornali di mezzo mondo del presidente dell’Associazione Europea Studi Cinesi (EACS) in occasione del clamoroso caso di censura verificatosi nel settembre 2014 al convegno di Braga, in cui la direttrice dello Hanban (organismo da cui tutti gli Istituti Confucio dipendono) aveva provveduto a depurare i materiali in distribuzione ai convegnisti di tutti i temi a suo avviso sgraditi al governo cinese – e gli esempi di questo genere si potrebbero moltiplicare.
Finalmente in questi giorni alcuni interventi di sinologi autorevoli giungono a scuotere il clima greve di torpida indifferenza che sin qui intorno a tali questioni è parso largamente prevalere. Ha rotto il ghiaccio su Hong Kong Stefania Stafutti, dell’Università di Torino, condirettrice del locale Istituto Confucio, con un’accorata lettera aperta al presidente cinese Xi Jinping pubblicata sul Corriere della Sera il 20 novembre, in cui senza alcun tono polemico, e anzi precisamente in nome del proprio amore per la Cina, lo invita caldamente ad aprire il dialogo con i manifestanti. Rivendicando un atteggiamento scevro di pregiudizi ideologici, volto “a comprendere prima di giudicare”, ella rammenta altresì che ciò “non vuol dire essere sempre d’accordo e non vuole dire rinunciare ai propri valori, primo fra tutti la democrazia e il diritto di esprimere le proprie idee”.
A tale intervento ha fatto seguito un denso articolo di Attilio Andreini, dell’Università di Venezia, condirettore del locale Istituto Confucio, uscito il 25 novembre su Sinosfere, dal titolo “Ecco perché è fondamentale parlare. La questione di Hong Kong e il ruolo dei sinologi”, che nella lettera di Stefania ravvisa, oltre all’appello alle autorità cinesi, un’implicita esortazione rivolta a tutti gli studiosi e a tutti gli intellettuali a non dimenticare la propria ineludibile responsabilità morale, il proprio dovere politico, il proprio ruolo civile. È una riflessione che affronta nitidamente ed esplicitamente la questione fondamentale che sta alla base del problema, e che concerne non solo gli specialisti degli studi sulla Cina, ma l’intero mondo accademico nel suo insieme; credo valga la pena di citarla per esteso, quanto meno nei passi salienti:
“Più ancora che un accorato appello a promuovere il dialogo tra il Presidente Xi Jinping e gli studenti di Hong Kong, l’intervento di Stafutti mi è parso un invito a uscire allo scoperto e ad affrontare di petto le questioni scottanti, affinché ad affermarsi non sia un’unica ed esclusiva narrazione di ciò che sta accadendo (…) A distanza di qualche giorno dalla sua pubblicazione la lettera di Stafutti pare non abbia sollevato alcun tipo di reazione pubblica. Ciò significa che prevale, almeno nel contesto accademico italiano, la volontà di evitare la trattazione di temi di attualità politica (…) Da ciò deriva una seconda riflessione, che investe direttamente il mio ruolo di professore, di docente: a quale narrazione storica verrà consegnato l’oggi se mancheranno voci, parole, immagini capaci di rappresentarlo in tutta la sua complessità? Come potrà mai imprimersi una traccia interpretativa da trasmettere ai posteri se io per primo, che sono chiamato a professare, taccio? (…)”
L’articolo di Andreini, che si richiama fra l’altro al grande impegno etico e politico a costruire un mondo umano e giusto proprio delle antiche fonti confuciane, si conclude con una energica esortazione:
“Rendiamo dura la vita ai censori del futuro, a quelli che vorranno cancellare, espungere, purgare, “sbianchettare” quei nei che disturbano la narrazione piatta e omologata dei fatti. Ecco perché è fondamentale parlare. Anche di ciò che sta accadendo a Hong Kong”.
Al vibrante appello di Attilio Andreini è seguito l’8 dicembre su La Lettura un articolo di Maurizio Scarpari, che è stato a lungo professore di Lingua cinese classica dell’Università di Venezia e socio onorario della Associazione Italiana Studi Cinesi, dal titolo dichiaratamente provocatorio e senz’altro destinato a suscitare vivaci polemiche: “Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane”. Il ruolo degli Istituti è un tema che egli ha da tempo sollevato: “Soft power in salsa agrodolce: Confucianesimo, Istituti Confucio e libertà accademica” si intitolava un suo pezzo uscito su Inchiesta il 29 settembre 2014. Nel suo intervento egli si fa fautore di una chiara e inequivoca definizione di ambiti fra Istituti Confucio e atenei: a suo avviso, “ne guadagnerebbe l’immagine stessa della Cina, la cui capacità di attrazione, al netto di finanziamenti e benefit con cui sta inondando il mondo, è ben lungi dall’essersi affermata, qui da noi come nella maggior parte dei Paesi occidentali”. L’esigenza di cui egli si fa latore mi sembra in sostanza riconducibile all’antichissima istanza confuciana di “rettificazione dei nomi”: se il pressoché totale silenzio su Hong Kong va ascritto al condizionamento esercitato dai centri culturali legati al governo di Pechino sulla libertà accademica e di ricerca e sulla politica nel nostro Paese, egli argomenta, occorre che si giunga a una chiara riformulazione del ruolo degli Istituti Confucio rispetto alle nostre università, senza sovrapposizioni ambigue di compiti e di giurisdizioni, riportandoli allo status degli altri istituti culturali, e sviluppando attività congiunte “nel pieno rispetto delle competenze e delle autonomie di entrambi”:
“E’ giunta l’ora di liberarsi di paure e condizionamenti nei confronti sia delle istituzioni cinesi sia delle autorità accademiche di entrambi i Paesi, per consentire finalmente alla sinologia dei nostri atenei di assumere un ruolo attivo nella definizione delle politiche che vedranno sempre più impegnato il governo, visto che la Cina è un interlocutore imprescindibile”.
Penso sia opportuno che una pubblica discussione quanto più possibile ampia e libera raccolga le sollecitazioni a una riflessione plurale e condivisa non solo sul ruolo degli Istituti Confucio, ma anche, più in generale, sul rapporto con la Cina (e come redazione di Inchiesta da tempo siamo impegnati in questo senso nel nostro Osservatorio Cina, ospitando saggi e dibattiti a più voci, da “Passato e presente nella Cina d’oggi” a “Ritorno a Confucio” al più recente dossier sulla Nuova Via della Seta). Si tratta di una questione vitale che ci riguarda tutti, e che per essere affrontata nella sua complessità richiede l’esercizio di quel parlare aperto (la parresia rievocata da Michel Foucault) che le grandi tradizioni antiche, sia cinesi sia greche, ci additano. “È nel rappresentare la Storia che si partecipa al suo divenire; parlare, pronunciarsi, è già “fare”, ci ricorda Attilio Andreini richiamandosi al magistero di Confucio, e questo parlare e pronunciarsi oggi più che mai chiama in causa le nostre responsabilità.
Di contro a una Grande Narrazione monolitica, univoca e compatta, credo sia oggi più che mai necessario restituire visibilità alla irriducibile pluralità delle posizioni e delle voci, e riscoprire e praticare quel dovere di rimostranza nei confronti del potere sovrano che, diversamente da quanto vogliono gli stereotipi intorno a una presunta Sinità Perenne e immarcescibile, ha sempre fertilmente percorso e animato, fin dall’antichità remota, le tradizioni cinesi. “Pensare è operare distinzioni” sosteneva un grande maestro confuciano del III secolo a.C., Xunzi, e il grande pensiero antico non ha mai tradotto in una melassa indistinta quella nozione di “armonia” che oggi così facilmente si tende a utilizzare in chiave di slogan autoritario. “Armonia”, per dirla nei termini del fra Cristoforo di manzoniana memoria, è l’ideale di un mondo dove non vi siano “né bastonati né bastonatori”: un’aspirazione che non si può certo confondere con il negare o occultare la fondamentale distinzione fra gli uni e gli altri.
Immagine: i valori fondamentali del socialismo, armonia.
Amina Crisma ha studiato all’Università di Venezia dove ha conseguito le lauree in Filosofia e in Lingua e Letteratura cinese, e il PhD in Studi sull’Asia orientale. Dal 2007/8 insegna Filosofie dell’Asia orientale all’Università di Bologna, dopo aver insegnato per un decennio Sinologia all’Università di Padova, e Storia delle Religioni della Cina all’Università di Urbino. Oltre a numerosi contributi in opere collettanee, fra cui Réformes (Berlin 2007), Per una filosofia interculturale (Milano 2007), La Cina (Torino 2009), In the Image of God (Berlin 2010), La filosofia e l’altrove (Milano 2016), ha pubblicato i volumi Il Cielo, gli uomini (Venezia 2000), Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica (Padova 2004), Neiye, il Tao dell’armonia interiore (Milano 2015), Confucianesimo e taoismo (Bologna 2016). Fra le riviste a cui collabora, vi sono Inchiesta, Cosmopolis, Giornale critico di storia delle idee, Parolechiave, Prometeo, Études interculturelles. Fra le sue traduzioni e curatele vi è Storia del pensiero cinese di Anne Cheng (Torino 2000).