Prendendo spunto dalla lettera aperta di Stefania Stafutti ospitata dal Corriere della Sera e dal Manifesto nel novembre scorso, Attilio Andreini ci invita ad animare il dibattito pubblico su quanto sta avvenendo in Cina. È un incoraggiamento tempestivo e condivisibile. Si potrebbe obiettare che siamo tutti d’accordo sul fatto che si debba parlare, e che dunque un appello di principio che non entra nel merito sostanziale dei temi che possono suscitare l’ostilità degli apparati cinesi – il nodo vero – non arricchisce poi molto il dibattito stesso. Ma sarebbe ingeneroso: la diffusa acquiescenza che ha accompagnato un certo discorso apologetico, per così dire, sulla panacea cinese – discorso molto in voga all’epoca del Governo Conte I, ma che precede quella fase e che sappiamo perdurare tuttora – evidenzia come i richiami all’esercizio pubblico della capacità critica degli intellettuali siano sempre necessari. Viceversa rischiamo di trovarci nuovamente in situazioni paradossali in cui noi studiosi tutelati da tutte le garanzie del pubblico impiego restiamo testimoni per lo più silenti delle prese di posizione di colleghi italiani espatriati e di ricercatori precari in Italia.
D’altra parte, è anche vero che i mass media di oggi mal si prestano a divulgare il pensiero degli studiosi: occorrono spazio e tempo per sviluppare ragionamenti non semplicistici, mentre a noi è dato in sorte di vivere nell’epoca del “Tempo di lettura 2 min.” Se guardiamo, invece, a piattaforme più affini ai metodi e agli strumenti di chi fa ricerca non si può dire che in Italia manchi l’impegno a stimolare riflessioni approfondite su temi controversi: chi scrive, insieme a molti colleghi, prova a farlo sul trimestrale OrizzonteCina, che nell’arco del suo decennio di vita ha ospitato contributi che spaziano dalle vicende di Hong Kong all’evoluzione del sistema socio-politico taiwanese, passando per le questioni religiose, di genere e ambientali, tra le altre. Questo è solo un esempio; Sinosfere è un secondo, e ve ne sono diversi altri. Piuttosto c’è da chiedersi se allo sforzo profuso per generare contenuti articolati e rigorosi si accompagni un adeguato impegno per assicurare che ad essi voglia e possa accedere la platea più ampia possibile, a partire dagli studenti.
Fabio Lanza ci invita a riflettere su “come” parlare: forse un tema può essere anche il “dove” farlo, educando le nuove generazioni a una ricerca più consapevole e paziente della conoscenza, tanto più intorno a una realtà problematica come quella cinese. È inquietante notare la scarsa dimestichezza dei ragazzi nell’orientarsi rispetto ai diversi livelli di autorevolezza della vasta mole di fonti cui possono accedere. Il pericolo è grave: l'”uno vale uno”, nel campo del sapere, sarà anche l’opposto del futuro distopico di Fahrenheit 451, ma produce analoghe conseguenze di imbarbarimento della società civile.
Sappiamo bene che uno degli obiettivi della dirigenza a Zhongnanhai è quello di accreditare il Partito comunista cinese non soltanto come vettore di modernizzazione, ma anche come interprete autentico della modernità nell’universo sinofono. Lo constatiamo nella crescente potenza dell’impulso propagandistico che emana da Pechino e che lambisce ormai la nostra quotidianità, ad esempio mediante gli articoli dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua circolati dall’ANSA, uno dei frutti del Memorandum of Understanding sulla BRI del marzo scorso (sarà poi garantita una sostanziale reciprocità, ci si deve chiedere?). Ma lo percepiamo anche negli slittamenti semantici del linguaggio del potere del Partito-Stato: cospicui riferimenti alla “saggezza cinese” e allo “spirito cinese” ci ricordano che il mondo di oggi sperimenta, a tutte le latitudini, una fase di arroccamento etnocentrico, che si traduce in diffuse pressioni omologatrici e rischi di impoverimento culturale. Il tentativo di assoggettare la koinè sinofona, da sempre plurale ed effervescente, all’egemonia di una particolare concezione di “cinesità” (e socialismo) in nome dello slancio patriottico verso la grande rigenerazione della nazione cinese è un indirizzo politico che non si può dire poggi sulle stesse premesse umanistiche del Rinascimento italiano, se restiamo fedeli a un principio basilare di igiene concettuale.
Questo mi conduce, in conclusione, al merito dell’auspicio di Stefania Stafutti. La sua lettera aperta è tanto più notevole in quanto firmata in qualità di docente universitaria e co-direttrice italiana di un Istituto Confucio, a poche settimane dal caso della Vrije Universiteit di Bruxelles. Nel leggerlo sono due le domande che mi sento di porre: l’una di ordine storico-politico, l’altra di ordine giuridico-istituzionale e più immediatamente riferibile all’attualità di Hong Kong. La prima: dovendo supporre che l’esortazione a Xi Jinping affinché intervenga personalmente per placare le tensioni a Hong Kong non sia retorica o strumentale, siamo convinti che il suggerimento di un incontro personale con gli studenti sia ascrivibile a precedenti storici percorribili e rassicuranti? Non è irragionevole supporre che l’iconografia degli ultimi incontri di questo genere, risalenti a poco più di trent’anni fa, sia scolpita nella mente della dirigenza di Pechino come un errore esistenziale per un regime leninista che non ammette dialettica tra il partito d’avanguardia e le masse. C’è il rischio di apparire provocatori raccomandando un simile corso d’azione.
La seconda domanda parte dalla premessa che solo frange estreme della protesta invocano l’indipendenza di Hong Kong. Per quanto ci è dato sapere, ad oggi le rivendicazioni della maggioranza dei manifestanti convergono piuttosto sul sollecitare il suffragio universale per la scelta delle persone chiamate a esercitare le funzioni di governo nella Regione Amministrativa Speciale. Sebbene non siano mancate prese di posizione sempre più dure, sin qui anche Pechino ha ribadito la fiducia nella capacità delle istituzioni locali di gestire la situazione. Siamo dunque sicuri che invocare un intervento diretto del “nucleo” del Partito-Stato cinese a Hong Kong non produca l’effetto di delegittimare in modo irreversibile queste medesime istituzioni, la cui autonomia dovremmo invece voler preservare, anche nel rispetto della Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984?
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Giovanni B. Andornino è docente di Relazioni Internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino. Dirige la rivista trimestrale OrizzonteCina.